Argentea
Scaltra e altre favole - versioni poetiche da Esopo,
di Gianluca Ferrari - Pagg. 61
Esopo,
un nome che ci è entrato nella memoria fin da bambini, perché il
nostro approccio è avvenuto con le sue famose favole, ben 358
racconti mai fini a se stessi, ma che hanno un preciso scopo
educativo, riflettendo, nella loro brevità, tutti gli aspetti della
vita reale, con protagonisti degli animali il cui comportamento è
analogo a quello degli uomini. Ci si chiede allora perché i
protagonisti non siano dei nostri simili e la ragione principale sta
nel fatto che si ottengono maggiori risultati, nel senso che si
raggiunge meglio lo scopo educativo se i personaggi non sono Tizio o
Caio, ma il lupo o il capretto. Agli animali si può perdonare tutto,
ma agli uomini no, soprattutto se ci si identifica facilmente nei
protagonisti dei racconti, ed ecco allora la loro funzione
mediatrice.
Gianluca
Ferrari, una vecchia conoscenza che si diletta a scrivere poesie,
evidentemente appassionato della produzione letteraria di Esopo ha
voluto tradurre in versi alcuni di questi racconti, opera non
impossibile, ma non certo facile; in ogni caso il risultato è
senz´altro positivo, anche perché in questo modo le varie vicende
presentano un fascino armonico che le rende più interessanti,
contribuendo così maggiormente al raggiungimento dello scopo.
Ferrari, però, non si accontenta di verseggiare, ma si potrebbe dire
che in premessa dà una sua personale valutazione dell´opera di
Esopo, definito giustamente colui che incarna la favola da due
millenni e mezzo, oltre a definirlo il mitico contraltare, sul
versante plebeo, di un altro autore mitico, l´immenso Omero. In
questo senso il poeta modenese sottolinea l´importanza del
favolista greco, capace di attrarre con la semplicità dei suoi
racconti, una massa di persone particolarmente elevata, gente non
abbastanza erudita da comprendere appieno l´Iliade o l´Odissea,
ma che pur tuttavia in questo modo è in grado di accostarsi alla
Letteratura, con un arricchimento culturale, determinato soprattutto
dalla linearità e dalla comprensibilità delle per lo più brevi
prose del narratore greco.
Se
si pensa che Esopo, contemporaneo di Pisistrato, è un uomo del VI
secolo avanti Cristo dà maggior valore alla sua produzione
artistica, rappresentando ll capostipite di un genere che avrà
sempre più fortuna in seguito, con eccellenti favolisti quali Fedro,
Jean de La Fontaine e Gotthold Lessing.
Quanto
a Gianluca Ferrari, di cui non si può non apprezzare la capacità di
"poetare", è una continua scoperta; del resto di lui so ben
poco, a parte il fatto che è modenese. Non è che mi interessi
particolarmente conoscere di più, ma di una cosa sono certo, e cioè
che si tratti di una persona erudita, e non poco, come anche
testimoniato dalla sua introduzione a quest´opera che riporto in
calce.
Lo
stile, come sempre, è sobrio, mai enfatico, elegante ed è molto
bello leggere in versi questi racconti (non tutti i 358, che sarebbe
un lavoro immane, ma 54, che pure sono tanti), con riportato in
corsivo la gnome, cioè il concetto, o in modo più esplicito la
morale.
Dispiace
solo che il libro non sia in commercio, ma conto che possiate
leggerlo con la pubblicazione periodiche delle poesie tratte dallo
stesso.
Chiudo
come anticipato con l´introduzione:
"Se
esistono fantasmi dalla corporeità più accentuata che creature in
carne e ossa, uno di questi è certamente Esopo: mitico contraltare,
sul versante plebeo (e il termine non suoni in alcun modo
spregiativo), di Omero (altro supposto spettro; come per le immense
opere epiche, il monumento favolistico si sarà formato per lenta
sedimentazione di musiche e parole, grazie all´incessante azione
dei rapsodi?). Quasimodo di un´arcaica Notre Dame sull´isola di
Samo? Ciò, per lo meno, riferisce Erodoto che lo vuole schiavo di un
certo Idmone nonché contemporaneo della decima musa Saffo; Quasimodo
in quanto vistosamente sciancato. In ogni caso, può dirsi che egli
incarna la favola per antonomasia, da due millenni e mezzo; infatti
già nel V secolo a.C. i grandi letterati greci lo citavano per
ampiamente conosciuto al grande pubblico. Qui vorrei tentare qualche
pennellata capace di delineare, almeno per sommi capi, che cosa sia
la favola e in qual maniera abbia io inteso far parlare i suoi
protagonisti. Anzitutto va chiarito che essa non nasce con Esopo, né
in Grecia, bensì vi penetra dalle plaghe dell´Asia Minore
(Mesopotamia in primis); poi va aggiunto che la struttura narrativa
resta più o meno sempre la medesima - dialogo/contrasto tra due
(di rado più) animali (ancor più raramente uomini) risolto a favore
dell´uno o dell´altro con sentenza che esprime una succinta
morale. Spesso quest´ultima si risolve in critica sociale la quale
sottolinea, con tono più o meno amaro, più o meno rassegnato, i
rapporti di forza su cui si regge l´umano consorzio; se il
consorzio è quello greco, cioè esopico per eccellenza, la
constatazione tenderà a cristallizzarsi in adamantina
ineluttabilità, come del resto insegnano le favolose (mi si passi il
termine) tragedie di quel Paese. Ciò non significa, necessariamente,
supina accettazione da parte del più debole meschino (sia un asino
verso un leone, sia uno schiavo contro un padrone), al quale resta
pur sempre - qualcuno dirà forse che trattasi di misera
consolazione - l´espediente dell´avvedutezza, del savoir-vivre
fatto di limite della misura, buon senso pratico e comune. Posta,
certo, l´immutabilità di fondo del Destino e dei rapporti sociali
(che sono poi rapporti di forza, sempre e comunque): ché la sua
buona sorte, ti dico, nessuno degli uomini schiva,/né buono né
malvagio, come essa per lui sopraggiunga (Iliade, canto VI, 483-84
nella versione di E. Romagnoli; parla Ettore, subito dopo avere visto
l´indimenticabile, struggente istante di riso della moglie, in un
incontro carico di pianto e funerei presagi).
Favola
dunque, coi suoi animali, figlia di un dio minore? Certo è che non
bisogna pretendere da essa gli arditi voli pindarici; forse nemmeno
relegarla nelle pettegole e sciatte stanze servili, alla maniera di
Quintiliano (le favolette di Esopo, che vengono subito dopo quelle
delle nutrici...); rimane pur sempre il fatto che ha saputo
affiancarsi agli onnipotenti miti per portare tra il popolo, in forme
più semplici, più stilizzate, alcuni esempi di condotte dell´uomo
squarciando il velo delle apparenze più o meno affettate, del
"politicamente corretto" diremmo oggi. Dopodiché ciascun autore
vi ha messo del proprio: v´è chi si concentrò principalmente
sull´ammaestramento etico-morale (Fedro) e chi badò anche ad
ornare la narrazione di una certa eleganza e ricercatezza che
potessero farla apprezzare ai palati più fini (Babrio); chi esaltò
la vis comica o mimica e chi meno... Questo è per me un punto assai
importante, perché ritengo sia da evitare un´eccessiva
antropomorfizzazione delle bestie (gioverebbe semmai il contrario: e
cioè una bestializzazione nostra) che vogliono sì ammaestrarci, è
bene tuttavia lo facciano con la propria voce e il proprio modo di
comportarsi: altrimenti la lezione parrebbe venire da una testa
impagliata alla parete (per quanto Esopo avrebbe comunque potuto
estrapolarne un utile ammonimento: adoperarsi a evitare identica
fine, per non trovarsi... spalle al muro). Lo coglie - tale vivo
punto - in modo magistrale il filosofo cinico Antistene, che
riassume in due righe folgoranti e davvero "animalesche" tutto il
dramma dei rapporti di forza che dominano le nostre esistenze:
Signori dalle pelose zampe, i vostri discorsi mancano di unghiute
appendici - ribattono i leoni ai protestanti conigli i quali
reclamano pari dignità politica e sociale. Proprio per tentare di
rendere il più possibile visibili - cioè concreti, palpabili - i
protagonisti delle storie, ho azzardato talvolta qualche aggiunta
tutta personale: un appellativo (Argentea Scaltra: a designar la
volpe), un aggettivo (l´orecchiuta lepre), una perifrasi (sudditi
balzanti per significare rane) o un´esclamazione adeguata a colei
che se la lascia sfuggire (il bra...braa...braaava di un´ulteriore
rana, al racconto numero 68), altro ancora. Per non parlare
dell´aggiunta principale: la resa in forma poetica (con relative
licenze, compresa quella di inserire qua e là fantasiosi incisi che
non alterano però il senso generale) di testi che a quanto pare
Esopo scrisse in prosa. Il respiro dei versi è breve e serrato, come
in genere si addice alle filastrocche.
Mi
fermerei qui e lascerei parlare (ruggire, zigare, crocidare, bramire,
muggire, belare, squittire, uggiolare o guaiolare...) gli animali,
aggiungendo che in corsivo, caro lettore, trovi la gnome; sgonfio
subito il termine dotto e con un tocco di magia rimpicciolisco
l´etimologia: si tratta della minuscola morale (ma non per questo
infima), del succo ch´è dato da ciascuna favola cavare.
G.F."
Renzo
Montagnoli