Amarore
– Alessandro Ghignoli – Kolibris – Pagg. 68 –
ISBN 978-88-96263-11-2
– Euro 10,00
Un
fabuloso poetare
“Amarore”:
questo il termine duecentesco scelto da Alessandro Ghignoli come
titolo per la sua raccolta di versi edita da Kolibris nel 2009: il
termine contiene al suo interno sia la parola ‘amore’ che
‘amaro’, in un intreccio semantico che rimanda al
conflitto tra gioia e sofferenza, tra slancio vitale e dolore,
rafforzato da un inizio fonico dolce, aperto (ama) e da un finale
aspro, arrotato (rore), che richiama parole chiave della vita come
dolore, errore, cuore.
Questa
estrema attenzione per la parola in tutte le sue valenze e
combinazioni, in tutti i suoi echi lontani e usi innovativi, si
ritrova come cardine stilistico della raccolta, che, suddivisa in tre
sezioni (Predicamento di me, Tristizia, Amaritudine), procede
come un unico poemetto, con il passo cadenzato di componimenti spesso
omogenei per lunghezza (ad es. tutti di otto versi nella prima
sezione) e che si snodano quasi privi di titolo, l’uno
completandosi nell’altro, privi di punteggiatura o maiuscole, a
formare un continuum sintattico-semantico e una sola sinfonia
poetica.
Ghignoli
ha non solo costruito una struttura compositiva peculiare, ma anche
forgiato un suo originale ritmo sintattico-espressivo basato da un
lato su un lessico “fabuloso” (per usare un termine a lui
caro), che gioca sul contrasto tra le reminescenze della tradizione
medievale e l’impianto di termini nuovi, e dall’altro
sull’uso costante di allitterazioni, figure etimologiche,
anafore ed altre figure retoriche plasmate a spremere effetti
fonosimbolici e semantici desueti e inconsueti.
L’io
poetante si rivela nell’uso della prima persona, che però
si frantuma in mille rivoli di frasi aggregate e aggreganti, un vero
e proprio labirinto fonico e lessicale, descrittivo di una realtà
altra da sé, con cui Ghignoli si confronta, lotta soffrendone,
si distacca accettandone il peso e insieme formulando un giudizio
etico e risolutivo sul piano della strada personale da percorrere e
che per lui ha come indirizzo principale “Via della Parola”.
La
prima sezione Predicamento di me, formata da dieci
‘descrizioni’ vuol essere una sorta di autopresentazione,
priva di enfasi ma intessuta già di quel sottile “amarore”
che pervade Ghignoli, pesarese di origine, vissuto ad Arezzo ed ora
docente universitario in Spagna, con tutta la conseguente “maninconia
di fondo” che si insinua in chi si sente sospeso tra più
patrie e radici instabili: “io pesarese toscano senza più
neutri / latini di presente in iberico stare / [...] qui condotto
sono sul fianco / sulla caduta chino al probabile / al cercare verso
di una casa il paese” (p. 12).
E
fin dalle prime pagine della raccolta si affaccia il rifiuto
dell’“inimico tempo” che non mira alla “bellezza
/ alla viva e vegetabile lingua”, ma solo al guadagno, mentre
Ghignoli si ostina di contro al “favellare importuno” a
“dietro alle parole andare”, “le parole proprie”
che toccano “il pensiero serrato nell’idioma”,
evidenziando il contrasto tra le “grida convenute” e
“l’ammutolire quieto” della “acerba mente”,
che però “scuopre il cheto suo balbutire” mentre
gli altri stanno “ad osolare invano” (pp. 13-17).
È
questa la prima dichiarazione di poetica dell’autore: il suo
confidare nel valore della parola poetica come risorsa e ricerca di
un’identità messa a rischio. Se, come Ghignoli afferma,
“il mio cervello è dolce di sale” (dove l’ossimoro
gioca sul valore traslato dei termini) e non capisce il mondo, “il
suo fabbricare di cose dove del bello / non vedo oltre la
superficie”, allora non gli resta che “a tutta carriera /
a fiaccacollo, in capitombolo / alla scapestrata maniera di me
cercare / per interprete di ragione nella lingua / una porzione”
che gli “corrisponda”, prima di sentirsi del tutto,
secondo la chiusa del verso finale, “di complicanze inamarito”
(pp. 19-20).
La
seconda sezione, Tristizia, è dedicata a Marco
Amendolara, amico precocemente scomparso, con la cui memoria l’autore
intesse un dialogo di ricordi e rimpianti venato di dolore e di
lacrime, ma sorretto dalla comunanza di sentire instaurata, tanto che
contro la ‘tristizia’ dell’assenza, del risognare a
vuoto l’immagine amata dell’amico, Ghignoli ne invoca
l’apparizione “in una notte di sogno, di spavento”,
così che possa aiutarlo nel difficile risveglio alla realtà,
(“all’immondo modo della verità del mondo”),
attraverso “un’arte di rettorica”. Sì,
perché anche una “parola quasi pronunciata” è
un sentiero di conoscenza e, dopo essere passati nell’esperienza
del silenzio, occorre, “prima che consumi la vita la vendetta”,
“attraversare la gloria renderla vana / mettere in atto d’opera
l’opera” e poi: “di viaggio si tratta alla resa dei
conti” (pp. 37-38): un viaggio nell’altrove, tralasciando
il resto materiale.
Per
rimediare alla “colpa di non aver capito / l’aver mancato
l’appello al grido”, alla realtà sentimentale, la
ragione del poeta Ghignoli scopre la risorsa della scrittura,
fermando sulla pagina nodi di parole, avventurandosi nei “territori
delle tenebre”, rischiando “il parlare fabuloso dei
farsanti”, ma al tempo stesso distaccandosi dignitosamente
dalle loro falsità, per essere “puro dire”.
Leggiamo a pp. 39-40:
“[...]
nella mia esseminazione cerco ragione / dell’erratica
forsenaria che mi percuote / la mente il sillabare il pensiero / la
fatica del festeggiare il duro alzare del dì / il voler
fermare sulla pagina”, e ancora: “[...] porre il nodo la
parola dell’inizio / [...] esposto al rischio / [...] dei
lungimiranti servitori / [... ]di quello strano modo / di intendere
il decoro mi dismago / in pieno amarore vorrei solo / tu qui il tuo
tutto puro dire”.
Adesso
Ghignoli “sa”, comprende che “il non saper
intendere / è un male come il parlare / senza ascolto o la
mano / che non stringe” e che contro la vita “dura e
picchiatrice” l’unica risorsa è “essere
fabbro di sé”, il “mai crudele tacere”,
lasciando parole che siano “impronta sulla cenere”(p.
41).
Amaritudine,
la terza e ultima sezione, reca in exergo i versi di Franco
Scataglini (“Vite in cattività / soto a scavate fosse /
de cielo che non sa / mutamento, rimosse // dal lume, non dal peso /
del mondo che coercisce, / ombre dal sonno ofese / chi mai vi
risarcisce?”), ampliando il discorso e la visione del poeta su
una società invasa dai riti dei mass media, che si appassiona
a “rimirare gli stessi delitti non d’honore”, una
società che “manduca parole”, esalta “con
fumisteria saltimbanchi e buffoni” rivestiti di maschere e ha
perso il senso delle cose essenziali. Una società in cui
Ghignoli non si riconosce, da cui vorrebbe estraniarsi e scrive: “da
un’adriatica mia riva vedo / lontano il paese lontano da me”
(p. 51). Nei suoi versi risuona la sofferenza per la presa d’atto
di una realtà di “diffalta grazia”, di
“maltalento” e soprattutto di un secolare sfruttamento,
“veggendo che i perseguitati / sono nell’èra di
quest’ora / li stessi di sempre” (p. 55). E per questo
afferma che la sua “carne è d’anima trista / a
sopportar d’un tempo assieme la vista / la tribolazione la
visione“ di chi “s’è fatto uomo su uomo su
donna gli affari suoi”, così che la sua poesia si carica
di un forte senso civile, diviene espressione di una coscienza, di
una volontà estrema di riuscire a fermare la decadenza “prima
che tutto vada alla malora / prima che l’amistà muoia”
(p. 52).
Da
ciò scaturisce nuovamente l’esigenza di essere “franco
pensiero nel fianco del parlare” e tendere a “cosa ben
detta”, di evitare il rischio di mescolarsi al “misto
ciarlare” (p. 53), nell’estrema ricerca, di dantesca
memoria e lessico, di “raccontare la distanza tra qui e me /
l’evento in quell’italia guelfa e ghibellina”, di
riuscire infine a far entrare nella poesia - e comunicare per mezzo
della poesia - “ciò che più dentro è
dentro”, schivando l’“inutile lutto del tacere”
(p. 56).
S’insinua
nell’io poetante il dubbio amletico tra la rassegnata fuga o
l’essere voce che risvegli chi può ad un diverso destino
e ad una resistenza contro lo strapotere degli arroganti: “dimmi
quindi se il silenzio che cerco / ne’ miei pensieri è
atto di fuga / o pura codardia o invece un silente ragionar / per
isfogar la mente in questo ieri / d’un oggi qualunque e onesto
ancora / duole tanta inutile babele il ciarlar alto” (p. 56).
“E allora”, sembra concludere il poeta nelle ultime
pagine, “meglio non fare di sonno utilizzare la testa /
prepararsi a lo contrario”, mirare “a la giusta
gentilezza per non sofferire lo difetto / per non vivere ucciso”
(p. 61).
Il
poemetto di Ghignoli si chiude ciclicamente con l’immagine del
poeta errante che, “partito dalla marca” e “in
tanti rigiri in quest’europa” giunto all’Iberia,
ancora si affida all’“alfabeto peregrino” in cerca
di una montaliana “formula”, ma, temendo che il suo dire
diventi ormai un balbettio, non può più “oltre ad
ogni potere raccontare” (p. 63). Riportiamo dunque i versi
finali di Amarore, una raccolta originale per struttura e
intreccio lessicale, che ci riporta alle origini della nostra lingua
letteraria, scaldandone gli elementi al fuoco della sperimentazione
del linguaggio poetico e dell’impegno civile e creando, come
già sottolineato, un timbro espressivo e narrativo
assolutamente unico. Partito dalla marca e attraversato l’alpe
/ fino a una losca toscana all’iberia prima / all’allemagna
poi all’iberia ancora e in tanti / rigiri in quest’europa
dove già non si osa / se non con qualche cambio di guardaroba
/ di finta fintata rivolta rimasticando parola / in saliva d’aceto
in ciò che è rimasto / dell’alfabeto peregrino
nell’evento nell’ire / pensando in una apertura in una
formula / forse è la sorte che se rimane quieta / si chieda se
ancora è l’avere il fiato / il tenere il senso derubato
delle cose / il temere di giorno in giorno l’intorno / e sia
così nel tempo brevissimo datoci / per non dispormi al
balbettio di questo dire / non posso oltre ad ogni potere raccontare.
Patrizia
Fazzi
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