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  Letteratura  »    »  Amarore, di Alessandro Ghignoli, edito da Kolibris e recensito da Patrizia Fazzi 22/12/2022
 
Amarore – Alessandro Ghignoli – Kolibris – Pagg. 68 – ISBN 978-88-96263-11-2 – Euro 10,00



Un fabuloso poetare





Amarore”: questo il termine duecentesco scelto da Alessandro Ghignoli come titolo per la sua raccolta di versi edita da Kolibris nel 2009: il termine contiene al suo interno sia la parola ‘amore’ che ‘amaro’, in un intreccio semantico che rimanda al conflitto tra gioia e sofferenza, tra slancio vitale e dolore, rafforzato da un inizio fonico dolce, aperto (ama) e da un finale aspro, arrotato (rore), che richiama parole chiave della vita come dolore, errore, cuore.

Questa estrema attenzione per la parola in tutte le sue valenze e combinazioni, in tutti i suoi echi lontani e usi innovativi, si ritrova come cardine stilistico della raccolta, che, suddivisa in tre sezioni (Predicamento di me, Tristizia, Amaritudine), procede come un unico poemetto, con il passo cadenzato di componimenti spesso omogenei per lunghezza (ad es. tutti di otto versi nella prima sezione) e che si snodano quasi privi di titolo, l’uno completandosi nell’altro, privi di punteggiatura o maiuscole, a formare un continuum sintattico-semantico e una sola sinfonia poetica.

Ghignoli ha non solo costruito una struttura compositiva peculiare, ma anche forgiato un suo originale ritmo sintattico-espressivo basato da un lato su un lessico “fabuloso” (per usare un termine a lui caro), che gioca sul contrasto tra le reminescenze della tradizione medievale e l’impianto di termini nuovi, e dall’altro sull’uso costante di allitterazioni, figure etimologiche, anafore ed altre figure retoriche plasmate a spremere effetti fonosimbolici e semantici desueti e inconsueti.

L’io poetante si rivela nell’uso della prima persona, che però si frantuma in mille rivoli di frasi aggregate e aggreganti, un vero e proprio labirinto fonico e lessicale, descrittivo di una realtà altra da sé, con cui Ghignoli si confronta, lotta soffrendone, si distacca accettandone il peso e insieme formulando un giudizio etico e risolutivo sul piano della strada personale da percorrere e che per lui ha come indirizzo principale “Via della Parola”.

La prima sezione Predicamento di me, formata da dieci ‘descrizioni’ vuol essere una sorta di autopresentazione, priva di enfasi ma intessuta già di quel sottile “amarore” che pervade Ghignoli, pesarese di origine, vissuto ad Arezzo ed ora docente universitario in Spagna, con tutta la conseguente “maninconia di fondo” che si insinua in chi si sente sospeso tra più patrie e radici instabili: “io pesarese toscano senza più neutri / latini di presente in iberico stare / [...] qui condotto sono sul fianco / sulla caduta chino al probabile / al cercare verso di una casa il paese” (p. 12).

E fin dalle prime pagine della raccolta si affaccia il rifiuto dell’“inimico tempo” che non mira alla “bellezza / alla viva e vegetabile lingua”, ma solo al guadagno, mentre Ghignoli si ostina di contro al “favellare importuno” a “dietro alle parole andare”, “le parole proprie” che toccano “il pensiero serrato nell’idioma”, evidenziando il contrasto tra le “grida convenute” e “l’ammutolire quieto” della “acerba mente”, che però “scuopre il cheto suo balbutire” mentre gli altri stanno “ad osolare invano” (pp. 13-17).

È questa la prima dichiarazione di poetica dell’autore: il suo confidare nel valore della parola poetica come risorsa e ricerca di un’identità messa a rischio. Se, come Ghignoli afferma, “il mio cervello è dolce di sale” (dove l’ossimoro gioca sul valore traslato dei termini) e non capisce il mondo, “il suo fabbricare di cose dove del bello / non vedo oltre la superficie”, allora non gli resta che “a tutta carriera / a fiaccacollo, in capitombolo / alla scapestrata maniera di me cercare / per interprete di ragione nella lingua / una porzione” che gli “corrisponda”, prima di sentirsi del tutto, secondo la chiusa del verso finale, “di complicanze inamarito” (pp. 19-20).

La seconda sezione, Tristizia, è dedicata a Marco Amendolara, amico precocemente scomparso, con la cui memoria l’autore intesse un dialogo di ricordi e rimpianti venato di dolore e di lacrime, ma sorretto dalla comunanza di sentire instaurata, tanto che contro la ‘tristizia’ dell’assenza, del risognare a vuoto l’immagine amata dell’amico, Ghignoli ne invoca l’apparizione “in una notte di sogno, di spavento”, così che possa aiutarlo nel difficile risveglio alla realtà, (“all’immondo modo della verità del mondo”), attraverso “un’arte di rettorica”. Sì, perché anche una “parola quasi pronunciata” è un sentiero di conoscenza e, dopo essere passati nell’esperienza del silenzio, occorre, “prima che consumi la vita la vendetta”, “attraversare la gloria renderla vana / mettere in atto d’opera l’opera” e poi: “di viaggio si tratta alla resa dei conti” (pp. 37-38): un viaggio nell’altrove, tralasciando il resto materiale.

Per rimediare alla “colpa di non aver capito / l’aver mancato l’appello al grido”, alla realtà sentimentale, la ragione del poeta Ghignoli scopre la risorsa della scrittura, fermando sulla pagina nodi di parole, avventurandosi nei “territori delle tenebre”, rischiando “il parlare fabuloso dei farsanti”, ma al tempo stesso distaccandosi dignitosamente dalle loro falsità, per essere “puro dire”. Leggiamo a pp. 39-40:

[...] nella mia esseminazione cerco ragione / dell’erratica forsenaria che mi percuote / la mente il sillabare il pensiero / la fatica del festeggiare il duro alzare del dì / il voler fermare sulla pagina”, e ancora: “[...] porre il nodo la parola dell’inizio / [...] esposto al rischio / [...] dei lungimiranti servitori / [... ]di quello strano modo / di intendere il decoro mi dismago / in pieno amarore vorrei solo / tu qui il tuo tutto puro dire”.

Adesso Ghignoli “sa”, comprende che “il non saper intendere / è un male come il parlare / senza ascolto o la mano / che non stringe” e che contro la vita “dura e picchiatrice” l’unica risorsa è “essere fabbro di sé”, il “mai crudele tacere”, lasciando parole che siano “impronta sulla cenere”(p. 41).

Amaritudine, la terza e ultima sezione, reca in exergo i versi di Franco Scataglini (“Vite in cattività / soto a scavate fosse / de cielo che non sa / mutamento, rimosse // dal lume, non dal peso / del mondo che coercisce, / ombre dal sonno ofese / chi mai vi risarcisce?”), ampliando il discorso e la visione del poeta su una società invasa dai riti dei mass media, che si appassiona a “rimirare gli stessi delitti non d’honore”, una società che “manduca parole”, esalta “con fumisteria saltimbanchi e buffoni” rivestiti di maschere e ha perso il senso delle cose essenziali. Una società in cui Ghignoli non si riconosce, da cui vorrebbe estraniarsi e scrive: “da un’adriatica mia riva vedo / lontano il paese lontano da me” (p. 51). Nei suoi versi risuona la sofferenza per la presa d’atto di una realtà di “diffalta grazia”, di “maltalento” e soprattutto di un secolare sfruttamento, “veggendo che i perseguitati / sono nell’èra di quest’ora / li stessi di sempre” (p. 55). E per questo afferma che la sua “carne è d’anima trista / a sopportar d’un tempo assieme la vista / la tribolazione la visione“ di chi “s’è fatto uomo su uomo su donna gli affari suoi”, così che la sua poesia si carica di un forte senso civile, diviene espressione di una coscienza, di una volontà estrema di riuscire a fermare la decadenza “prima che tutto vada alla malora / prima che l’amistà muoia” (p. 52).

Da ciò scaturisce nuovamente l’esigenza di essere “franco pensiero nel fianco del parlare” e tendere a “cosa ben detta”, di evitare il rischio di mescolarsi al “misto ciarlare” (p. 53), nell’estrema ricerca, di dantesca memoria e lessico, di “raccontare la distanza tra qui e me / l’evento in quell’italia guelfa e ghibellina”, di riuscire infine a far entrare nella poesia - e comunicare per mezzo della poesia - “ciò che più dentro è dentro”, schivando l’“inutile lutto del tacere” (p. 56).

S’insinua nell’io poetante il dubbio amletico tra la rassegnata fuga o l’essere voce che risvegli chi può ad un diverso destino e ad una resistenza contro lo strapotere degli arroganti: “dimmi quindi se il silenzio che cerco / ne’ miei pensieri è atto di fuga / o pura codardia o invece un silente ragionar / per isfogar la mente in questo ieri / d’un oggi qualunque e onesto ancora / duole tanta inutile babele il ciarlar alto” (p. 56). “E allora”, sembra concludere il poeta nelle ultime pagine, “meglio non fare di sonno utilizzare la testa / prepararsi a lo contrario”, mirare “a la giusta gentilezza per non sofferire lo difetto / per non vivere ucciso” (p. 61).

Il poemetto di Ghignoli si chiude ciclicamente con l’immagine del poeta errante che, “partito dalla marca” e “in tanti rigiri in quest’europa” giunto all’Iberia, ancora si affida all’“alfabeto peregrino” in cerca di una montaliana “formula”, ma, temendo che il suo dire diventi ormai un balbettio, non può più “oltre ad ogni potere raccontare” (p. 63). Riportiamo dunque i versi finali di Amarore, una raccolta originale per struttura e intreccio lessicale, che ci riporta alle origini della nostra lingua letteraria, scaldandone gli elementi al fuoco della sperimentazione del linguaggio poetico e dell’impegno civile e creando, come già sottolineato, un timbro espressivo e narrativo assolutamente unico. Partito dalla marca e attraversato l’alpe / fino a una losca toscana all’iberia prima / all’allemagna poi all’iberia ancora e in tanti / rigiri in quest’europa dove già non si osa / se non con qualche cambio di guardaroba / di finta fintata rivolta rimasticando parola / in saliva d’aceto in ciò che è rimasto / dell’alfabeto peregrino nell’evento nell’ire / pensando in una apertura in una formula / forse è la sorte che se rimane quieta / si chieda se ancora è l’avere il fiato / il tenere il senso derubato delle cose / il temere di giorno in giorno l’intorno / e sia così nel tempo brevissimo datoci / per non dispormi al balbettio di questo dire / non posso oltre ad ogni potere raccontare.



Patrizia Fazzi




 
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