La
scuola
di
Renzo Montagnoli
All´età
di sei anni, anch´io, come tanti bambini ho cominciato ad andare a
scuola. In verità, in precedenza, c´era stato un breve periodo in
cui ero andato all´asilo delle suore, ma dato che ero sempre
ammalato (soffrivo di asma che con l´età adulta sembrava
scomparsa, ma che poi si è ripresentata nella vecchiaia) ho finito
per restare a casa. All´epoca chi andava alle elementari aveva il
suo bel grembiulino nero e la cartella con dentro i pennini, la carta
assorbente, il sillabario per imparare a leggere e il sussidiario che
conteneva i primi approcci con l´aritmetica, la storia e la
geografia. Restavo fuori dalla scuola che era in via Chiassi, vicino
a casa, fino a quando suonava la campanella, poi come tutti gli altri
entravo e andavo nella mia classe. Lì c´era il maestro che
procedeva all´appello, ci faceva recitare la preghiera di rito e
quindi cominciavano le lezioni. Le lezioni? Un termine un po´
impegnativo, visto che agli inizi ci si limitava a farci fare le aste
sul quaderno, proprio per avviarci alla manualità della scrittura.
Poi mano a mano si passava di classe si imparava a leggere e a
scrivere, ma il problema di come tirare le aste e formare le parole
sulla carta non era tanto una questione nozionistica, ma come farlo.
Si usavano infatti una cannuccia con un pennino, che veniva intinto
in una boccetta di inchiostro incastrata nel legno del banco. Il
liquido veniva messo ogni giorno dal bidello che, anche per lavorare
di meno, riempiva il contenitore fino all´orlo e proprio per questo
era facile che, per qualche movimento improvvido, questo traboccasse,
con tutte le conseguenze del caso, ivi comprese un paio di
bacchettate sulle dita che il solerte insegnante provvedeva a
somministrare. Anche se si stava attenti, però, c´era una minaccia
sempre presente, una sorta di rovina improvvisa ed era data dal fatto
che il pennino, immancabilmente, raccoglieva dei peluzzi, di cui ci
si accorgeva per le inevitabili sbavature che fiorivano mentre si
scriveva. Non è che in questi casi si sacramentasse, però era certo
che ci poteva scappare un gesto di stizza, magari un pugno sul banco,
con la conseguente fuoruscita di inchiostro dal boccettino e le più
che certe bacchettate.
Se
il grembiulino nero era indispensabile per evitare guai maggiori ai
pochi capi di abbigliamento di cui si disponeva, aveva anche
un´involontaria funzione di livellamento delle classi sociali,
perché se è vero che i più erano poveri, però c´era anche
qualche ricco, quasi sempre vestito come un damerino e non con abiti
dismessi da altri o di modesta fattura.
E
a proposito di classi (sociali) gli insegnanti avevano atteggiamenti
diversi in proposito. Al riguardo ricordo due episodi emblematici. Un
mio compagno di classe era ricco, e non poco, aveva un padre che
possedeva una grossa auto sportiva con la quale un giorno uscì di
strada fermandosi poi contro un albero. Ricoverato immediatamente in
ospedale con numerose fratture era anche in stato comatoso e, allora,
fino a quando riprese conoscenza, il maestro ogni giorno ci faceva
dire qualche preghiera in più per chiedere a Dio la grazia di
guarirlo. In un´altra occasione, invece, si ammalò seriamente il
padre di un altro mio compagno, un uomo che faceva l´operaio. A
parte darne notizia, spiegando così l´assenza dalle lezioni del
figlio, non ci fu nessuna preghiera e noi bambini, quando lui
purtroppo morì, pensammo nella nostra innocenza che se avessimo
pregato il suo destino sarebbe stato diverso, ma non demmo la colpa
al maestro, era un´istituzione troppo alta, era l´uomo che
riluceva di sapere, pensammo solo che per i poveri non c´è nessun
aiuto, nemmeno quello di Dio.
A
scuola dicevano che ero bravo, che scrivevo dei bei temi e credo di
essere stato probabilmente il primo della classe, il che mi
inorgogliva, tanto che, finite le lezioni, se avevo meritato un bel
voto tornavo a casa e lungo le scale gridavo: - Mamma, ho preso
dieci!.
Di
più del voto, però, ero soddisfatto per aver imparato qualche cosa
di nuovo, per annaspare di meno in un´ignoranza di cui eravamo
inconsapevoli, dando la colpa per le cose che ci capitavano - e che
secondo noi non avevano spiegazione - ad arcani misteri, in ciò
predisposti dai nonni che nei loro racconti, che stavamo ad
ascoltare, parlavano di spiriti e streghe, creando in noi una paura
atavica, che aumentava con il buio (quando dovevo fare le scale,
illuminate fiocamente, mi batteva forte il cuore, vedevo fantasmi in
ogni ombra).
La
scuola mi ha insegnato a non aver paura dell´ignoto, a cercare di
dare una spiegazione a fenomeni strani, mi ha portato poco a poco a
una vita consapevole dei miei pregi e dei miei difetti.
Poi
vennero le medie, ma si tratta di altra storia, è un C´era una
volta un po´ meno lontano, in un´epoca il cui l´Italia post
bellica si avviava al miracolo economico.
Da
C´era una volta