Natale di guerra
di
Renzo Montagnoli
Fu l'ultima volta che gli porsi gli
auguri di Natale, consegnandogli il solito panettone, un modesto omaggio per un
amico che tanto mi aveva insegnato con l'amore quasi di un padre. Un dicembre
freddo, quello, e con la neve che tardava a venire, con disappunto di chi, per
tradizione, si auspica una festa così cristiana e familiare nel caldo della
casa e con i tetti e i campi imbiancati.
Fu l'ultima volta, ma non lo sapevo,
anche se, dopo la visita, nel ritornare a casa, infreddolito per un venticello
gelido che spazzava le strade ebbi netta la sensazione che il mio caro amico
Guercio era prossimo al capolinea.
Mi ricevette con il consueto affetto,
ma in lui era presente un'ombra, che quasi si poteva scorgere nell'unico occhio
rimasto, non più vivo come in passato, anzi smorto, quasi perso a guardare un
futuro indefinibile e comunque non roseo.
- Hai fatto bene a venire. Tu non ti
dimentichi degli amici e i tuoi auguri mi sono particolarmente cari.
- Non potevo mancare e non per abitudine,
perché il rivederti ogni volta è un piacere e trovarmi di fronte a te in questo
giorno di vigilia mi commuove in modo particolare. Come stai?
Chinò la testa, ormai del tutto
incanutita.
- Sto, ci sono, con i miei malanni, fin
troppo fedeli, ma senza il calore di mia moglie. Mi manca tanto, Renzo, e ancor
di più in una festa come questa.
Non dissi nulla, perché nulla si può
dire a un povero vecchio, alla fine dei suoi giorni, privato da anni della
compagnia della donna che aveva così tanto amato.
Però qualche cosa dovevo inventarmi,
anchè perché l'occhio del Guercio cominciava a luccicare per una lacrima.
- Dai, però ci sono i tuoi figli, e
questo conta molto.
- Buoni, quelli. Una telefonata di
auguri domani mattina e se la sono cavata.
- Scusa, uno sta negli Stati Uniti e
l'altro invece a Palermo…
- Vero, ma mai che trovino il tempo per
un Natale, dico un Natale, solo un Natale, per venirlo a passare con questo
povero vecchio.
Oggi la gente ha troppo e al troppo
sacrifica i sentimenti. E per questo, se tu hai un po' di tempo per restare, ti
voglio raccontare una storia avvenuta nel 1942, in piena guerra,
alla vigilia di Natale.
- Racconta pure.
- Questo fatto mi è venuto in mente
proprio oggi, dopo così tanti anni. E' balzato fuori all'improvviso, così vivo,
così nitido, come se fosse accaduto ieri. Ebbene, come ti dicevo si era alla
fine del 1942, io già congedato come invalido di guerra per via dell'occhio
perso l'anno prima in Albania. Quelle poche speranze che il conflitto durasse
poco erano scomparse e al freddo, alla fame, si accompagnava anche la paura per
i bombardamenti. Qui volevano colpire il ponte, ma non sempre la mira era
precisa e già alcune case erano state distrutte. Ricorderò sempre i corpi delle
vittime, appena estratti dalle macerie e distesi in mezzo alla strada, volti
sfigurati, ossa spezzate, un vecchio maciullato, una bambina intatta e che
pareva che dormisse. Tu non puoi capire cosa si prova a vedere la morte, non
come fatto naturale, che è già dolorosa, ma per mano dell'uomo. Si mescolano
sentimenti strani, un misto di commozione, rabbia, perfino odio, e infine
un'avvilente rassegnazione. Ma ritorniamo a quella vigilia di Natale che voglio
raccontare come se la rivivessi ancora e pertanto ti prego di non
interrompermi.
Ecco la scena appare nella nebbia, una
casa, questa, una stanza, questa, una famiglia, la mia.
-
Annibale, nel tuo giro, cosa hai trovato?
-
Sono stato anche fortunato, spendendo tutto quello che avevo in tasca. Ecco, se
guardi nella sporta, ci sono dei fagioli secchi, cinque patate, due fettine di
lardo, un etto di burro e sei uova.
Tilde
abbassa gli occhi e a bassa voce si lascia andare a uno sfogo:
-
Altro che cenone, questo è già poco per un pasto e ci deve bastare per almeno
tre giorni.
Allargo
le braccia, ho girato tanto, non so quanti chilometri ho fatto in bicicletta
per strade dissestate, al freddo, un freddo che mi porto dietro ormai da
giorni, e non ho trovato che questa poca roba.
-
Tilde, sono già le tre del pomeriggio e se vuoi riesco.
-
Cosa vuoi andare di nuovo, a prenderti una polmonite?
Chino
la testa, perché ormai sono rassegnato. Non mangiamo carne da mesi, qualche
volta, se riesco a pescare in Po qualche pesce è quello un giorno fortunato. In
casa sono tre le bocche da sfamare, la mia, quella di Tilde e quella del nostro
bimbo.
-
Vedi di fare qualcosa, un po' di pane, un uovo al burro, due patate lesse, è
sempre meglio di niente.
-
Il bambino deve mangiare e ha bisogno di carne, anche.
-
Dagli un uovo, che è la carne di domani.
Sono
fra l'arrabbiato e il disperato e allora esco di casa, sbattendo la porta.
Vado, cammino, senza una meta. Mi sento drammaticamente inerme, perché non
posso fare nulla.
Già
si fa buio e ricomincia a nevicare. Passano le ore, non so quante, perché non
ho più l'orologio, l'ho impegnato al Monte di Pietà, forse è già l'ora di cena
ed è così.
Passo
davanti alla casa di Marchetti, il gerarchetto, come tutti lo chiamano, e
attraverso i vetri vedo la tavola imbandita coperta da ogni ben di Dio:
antipasti vari, tortelli, zamponi con le verze, faraona
arrosto, insalate miste, panettoni.
Lui
può, è un fascista scalmanato e quello che non riesce a comprare se lo fa dare
con le maniere forti.
C'è
tanta di quella roba che una famiglia come la mia può mangiare a sazietà per un
mese.
Passo
oltre, sconsolato e arrivo quasi al ponte, quando all'improvviso suona
l'allarme.
Corro
via subito, perché quello è l'obbiettivo, ma non so dove andare, poiché le
bombe possono cadere ovunque, anzi già temo per la mia famiglia e l'immagine
dei volti di mia moglie e di mio figlio si sovrappongono a quelle dei morti dei
precedenti bombardamenti.
Sento
un rumore di motori in cielo, poi mi strazia il sibilo delle bombe, e infine
ecco le esplosioni. Avverto chiara una vampata di calore, sono gettato per
terra, mi duole tutto un fianco. Il buio non c'è più e la luce dei bengala e
dei roghi accesi dalle bombe rischiara il buio, al punto che sembra di essere
di giorno. Ho alcuni tagli nelle mani provocati dai vetri infranti, il fianco mi
fa sempre male, come se qualche cosa gli premesse contro; mi porto una mano per
toccarlo, ma non ho ferite, eppure sento premere e allora decido di alzarmi,
con fatica.
Mi
reggo a malapena sulle gambe e cerco di capire dove sono: mi trovo davanti alla
casa di Marchetti, i vetri sono infranti, per lo spostamento d'aria la tavola
imbandita è
diventato un ammasso di cibo, guardo ancora per terra e non credo ai miei
occhi, perché c'è una faraona arrosto e non solo lei, anche un paio di zamponi
che sembrano invocare la mia attenzione unitamente a un bel panettone.
Mi
guardo in giro, non ci sono case crollate, la gente è ancora nei rifugi e,
mentre i bombardieri si allontanano, raccolgo tutto quel ben di Dio e corro a
casa.
Tilde
è in preda all'angoscia, ma quando mi vede ha un sospiro di sollievo, che si
tramuta in gioia quando nota il cibo che ho in mano.
Mi
chiede come ho fatto e io le racconto.
-
Annibale, è stato un dono di Dio e come tale non può restare solo a noi.
-
Ma Tilde, se lo dividiamo con tutti gli altri, non ci resterà nulla da mangiare..
-
No, non con tutti gli altri, ma con don Zeffirino, che è da tre giorni che non
tocca cibo per darlo a quei poveri profughi e poi chiamiamo a cena anche la
signora Giovanna, che è già povera in tempo di pace, una donna che porta con
dignità la sua miseria. Sei d'accordo?
-
Come si fa a non essere d'accordo con te, che hai un cuore troppo grande.
E così fu.
- Commovente.
- Renzo, quello è stato il più bel
Natale della mia vita ed è da allora che ho imparato quanto sia grande la gioia
nel donare.
Mi abbracciò, ma si avvertiva chiara la
difficoltà nel respirare: al suo cuore malato si aggiungeva l'enfisema. Eppure
strinse, strinse forte e quando mi disse “Buon Natale, amico caro”, mi vennero
le lacrime agli occhi.
Contraccambiai la stretta, ma mi
accorsi di avere fra le braccia un povero mucchietto di ossa, ciò che restava
di un uomo che tanto aveva dato a tutti e che a me dava ancora con la sua
amicizia.
- Adesso vai, perché non voglio
commuovermi.
Buon Natale Renzo.
- Buon Natale, caro Guercio.
Uscii e presi la strada di casa; passai
davanti all'abitazione che era stata di Marchetti e vidi una tavola imbandita e
allora ritornai sui miei passi, e tanto feci e tanto strepitai che quella sera
il Guercio cenò da me.
(Da
Storie di paese)