I
Natali di Ermengarda
di
Renzo Montagnoli
Era
stata la maestra di tutto il paese, aveva insegnato a diverse
generazioni, dai primi anni ‘20, turbinosi, con gli scontri di
piazza pressochè quotidiani ,agli anni del boom economico.
Minuta, non bella, ma dagli occhi vivaci e penetranti, Ermengarda
Alberti era per tutti la “maestra”. Non si era mai
sposata e lei si riteneva la madre di tutti quei pargoli che si
accostavano, timidi e impacciati, alla sua cattedra, che si
sporcavano le mani con l’inchiostro, che finivano dietro la
lavagna quando facevano arrabbiare. Li raccoglieva come una chioccia
sotto le sue ali dalla prima elementare e li portava fino alla
quinta, per poi vederli volar via verso studi superiori o verso il
mondo del lavoro. Non si risparmiava, viveva per insegnare e
insegnava per vivere, contenta quando i suoi allievi suonavano il
campanello della sua casetta per porgerle gli auguri di Natale e
ancor più felice e commossa quando gli stessi, ormai adulti,
si ricordavano appunto della loro maestra durante le feste natalizie
o agli inizi dell’anno nuovo. Riceveva questi ultimi come
fossero parenti stretti, insisteva per preparare un caffè o
perché accettassero una fetta di quella buona torta di more
che solo lei sapeva fare. Durante la guerra, quando suonavano le
sirene dell’allarme aereo, faceva scendere i suoi piccoli
allievi nello scantinato della scuola, li raccoglieva intorno a sé
e cercava di lenire la loro più che giustificata paura. E
quando qualcuno s’ammalava, andava a trovarlo a casa e, se per
mala sorte, moriva si disperava come fosse stata sua madre. L’ho
avuta anch’io come insegnante e la ricordo esigente, ma non
severa, sempre pronta a spiegare di nuovo se qualcuno non capiva. Al
di fuori della scuola, la sua era una vita di solitudine, senza
marito, senza genitori, che aveva perso quand’era ancora
giovinetta, l’unico svago era la lettura e credo che nella sua
non breve vita sia riuscita a leggere tutti i libri della nostra
biblioteca. Andata in pensione, rimase per tutti sempre “la
maestra”, ma poco a poco le visite degli ex allievi diradarono.
I tempi erano cambiati, la televisione, le gite in auto, i locali di
ballo, una frenesia che pareva aver colto tutti fece sì che
venisse dimenticata. Anch’io la persi di vista, ma un dicembre,
era la vigilia di Natale, me ne ricordai, anche perché
correvano voci in paese sul suo stato di salute, e l’andai a
trovare.
Mi
riconobbe subito, ma fui io che ebbi difficoltà nel ritrovare
in quel corpo storpiato dall’artrosi, in quelli occhi che erano
diventati opachi, la mia cara maestra. Insistette per il caffè
e per una fetta della sua torta di more, ma non erano buoni come una
volta: il caffè sembrava acqua sporca e il dolce un pasticcio
mal riuscito. D’altra parte gli anni c’erano e si
vedevano tutti; novanta non sono pochi e poi la malattia faceva il
resto. Parlava a fatica, ma a tutti costi volle dirmi come erano
sempre stati i suoi Natali. A parte l’uscita per la messa,
restava sempre in casa con la speranza che qualche alunno le venisse
a far visita, il che quando insegnava capitava sovente, ma dopo quasi
mai. Ore e ore a leggere sperando che suonasse il campanello, in
preda alla propria solitudine e poi, arrivata a sera, la cena frugale
e infine il letto. - Non ho mai chiesto molto alla vita mi disse -
ma per me voi eravate come i miei figli e se i figli non fanno visita
alla madre almeno il giorno di Natale, mi sento come se la mia vita
fosse inutile, come se quell’affetto che vi ho portato per voi
non contasse niente.
Poi
tacque, si tamponò gli occhi con un fazzoletto, mi diede la
mano augurandomi buon Natale e sulla porta, mentre uscivo, sussurrò,
tanto che lo percepii appena - Grazie, bimbo mio.
Morì
l’anno successivo, in novembre, e al suo funerale c’era
tutto il paese, i suoi vecchi allievi che avevo contattato perché
quell’anno andassimo a casa sua a farle gli auguri di Natale.
L’accompagnammo, invece, nel suo ultimo viaggio, silenziosi,
commossi e anche un po’ pentiti per averla così a lungo
dimenticata.
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