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  Racconti  »  Storie di paese Seconda Serie  »  I Natali di Ermengarda 21/12/2016
 

I Natali di Ermengarda

di Renzo Montagnoli





Era stata la maestra di tutto il paese, aveva insegnato a diverse generazioni, dai primi anni ‘20, turbinosi, con gli scontri di piazza pressochè quotidiani ,agli anni del boom economico. Minuta, non bella, ma dagli occhi vivaci e penetranti, Ermengarda Alberti era per tutti la “maestra”. Non si era mai sposata e lei si riteneva la madre di tutti quei pargoli che si accostavano, timidi e impacciati, alla sua cattedra, che si sporcavano le mani con l’inchiostro, che finivano dietro la lavagna quando facevano arrabbiare. Li raccoglieva come una chioccia sotto le sue ali dalla prima elementare e li portava fino alla quinta, per poi vederli volar via verso studi superiori o verso il mondo del lavoro. Non si risparmiava, viveva per insegnare e insegnava per vivere, contenta quando i suoi allievi suonavano il campanello della sua casetta per porgerle gli auguri di Natale e ancor più felice e commossa quando gli stessi, ormai adulti, si ricordavano appunto della loro maestra durante le feste natalizie o agli inizi dell’anno nuovo. Riceveva questi ultimi come fossero parenti stretti, insisteva per preparare un caffè o perché accettassero una fetta di quella buona torta di more che solo lei sapeva fare. Durante la guerra, quando suonavano le sirene dell’allarme aereo, faceva scendere i suoi piccoli allievi nello scantinato della scuola, li raccoglieva intorno a sé e cercava di lenire la loro più che giustificata paura. E quando qualcuno s’ammalava, andava a trovarlo a casa e, se per mala sorte, moriva si disperava come fosse stata sua madre. L’ho avuta anch’io come insegnante e la ricordo esigente, ma non severa, sempre pronta a spiegare di nuovo se qualcuno non capiva. Al di fuori della scuola, la sua era una vita di solitudine, senza marito, senza genitori, che aveva perso quand’era ancora giovinetta, l’unico svago era la lettura e credo che nella sua non breve vita sia riuscita a leggere tutti i libri della nostra biblioteca. Andata in pensione, rimase per tutti sempre “la maestra”, ma poco a poco le visite degli ex allievi diradarono. I tempi erano cambiati, la televisione, le gite in auto, i locali di ballo, una frenesia che pareva aver colto tutti fece sì che venisse dimenticata. Anch’io la persi di vista, ma un dicembre, era la vigilia di Natale, me ne ricordai, anche perché correvano voci in paese sul suo stato di salute, e l’andai a trovare.

Mi riconobbe subito, ma fui io che ebbi difficoltà nel ritrovare in quel corpo storpiato dall’artrosi, in quelli occhi che erano diventati opachi, la mia cara maestra. Insistette per il caffè e per una fetta della sua torta di more, ma non erano buoni come una volta: il caffè sembrava acqua sporca e il dolce un pasticcio mal riuscito. D’altra parte gli anni c’erano e si vedevano tutti; novanta non sono pochi e poi la malattia faceva il resto. Parlava a fatica, ma a tutti costi volle dirmi come erano sempre stati i suoi Natali. A parte l’uscita per la messa, restava sempre in casa con la speranza che qualche alunno le venisse a far visita, il che quando insegnava capitava sovente, ma dopo quasi mai. Ore e ore a leggere sperando che suonasse il campanello, in preda alla propria solitudine e poi, arrivata a sera, la cena frugale e infine il letto. - Non ho mai chiesto molto alla vita mi disse - ma per me voi eravate come i miei figli e se i figli non fanno visita alla madre almeno il giorno di Natale, mi sento come se la mia vita fosse inutile, come se quell’affetto che vi ho portato per voi non contasse niente.

Poi tacque, si tamponò gli occhi con un fazzoletto, mi diede la mano augurandomi buon Natale e sulla porta, mentre uscivo, sussurrò, tanto che lo percepii appena - Grazie, bimbo mio.

Morì l’anno successivo, in novembre, e al suo funerale c’era tutto il paese, i suoi vecchi allievi che avevo contattato perché quell’anno andassimo a casa sua a farle gli auguri di Natale. L’accompagnammo, invece, nel suo ultimo viaggio, silenziosi, commossi e anche un po’ pentiti per averla così a lungo dimenticata.


Da Storie di paese

 
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