Il
giorno di Natale al paese
di
Renzo Montagnoli
Mi
piace ogni tanto tornare con la mente al passato, a certi suoi
aspetti, a come si viveva, a volte peggio di adesso, a volte meglio.
In particolare c’erano dei giorni, cosiddetti canonici, in cui
tutto pareva trasformarsi, e uno di questi era quello del Natale.
Ero
alle elementari e nella settimana che precedeva la festività,
una settimana ridotta, perché cominciavano le vacanze, la
maestra non si stancava di ripetere: “Bambini, il 25 é
Natale e pertanto quel giorno dovete essere più buoni.
Rispettate il papà, la mamma, i fratellini, le sorelline, i
nonni, ecc.”. Quello che mi impressionava nel discorso era
quell’eccetera e mi domandavo a chi si riferisse; ci costruivo
un castello, in cui figuravano zii, zie, prozii, prozie, cuginetti di
non so quali gradi, insomma una sorta di farneticazione in cui
l’impegno maggiore era ricordarsi come si chiamassero quei
parenti, tanto più che appena ricordato un nome, nel tentativo
di estrarne un altro dalla memoria, finivo per dimenticarmelo.
Diventava quasi uno scioglilingua, di cui mi liberavo mandando tutti
al diavolo e quindi finendo con l’essere meno buono.
All’epoca
non si era ricchi come adesso, diciamo pure che si era poveri, perché
il famoso boom economico non era nemmeno nelle previsioni e c’era
il lungo e faticoso lavoro di ricostruzione di un’Italia
distrutta dalla guerra. Non si mangiava tanto, anzi ci si nutriva
poco, fatta eccezione per il Natale. Allora si grattava il fondo del
barile, cioè dei pochi risparmi, e nelle case era tutto un
preparare i tortelli di zucca, gli agnolini, il brodo con il cappone,
ingredienti per una mangiata pantagruelica. Se la vigilia si cenava
di magro, cioè più o meno la cena di tutti i giorni (e
c’era chi la saltava, potendosi permettere solo il pranzo), il
giorno di Natale le tavole traboccavano, ma prima c’era
un’incombenza a cui non era possibile mancare: la Santa Messa.
Quel giorno in chiesa c’erano tutti, dalle assidue beghine che
già erano state presenti a quella della mattina presto, ai
compagni che, nell’occasione, si toglievano il fazzoletto rosso
e si vestivano da borghesi, dai baciapile inveterati agli atei, che
in un sussulto di dubbio dovevano aver pensato che in fondo una messa
non era un peccato.
Quindi
un pienone completo, un’adunata oceanica di mussoliniana
memoria, pochi quelli che riuscivano a trovare una panca o una sedia,
tanti e pigiati quelli che restavano in piedi. Nell’occasione
le famiglie danarose sfoggiavano un abito nuovo o addirittura, caso
raro, ma capitava, una pelliccia, e allora entravano per ultime
percorrendo il corridoio centrale come in una sfilata di moda,
mettendo in mostra la nuova collana, o gli orecchini appena ricevuti
in dono. Lentamente, come in processione, si avvicinavano all’altare
e subito dai primi banchi si alzavano quelli che li avevano occupati
fin dalla prima messa e che avevano tenuto il posto per i “signori”
in cambio di cento o duecento lire.
Ora
la Messa poteva cominciare, ma in tutto quell’assembramento,
che pareva denotare una fervida religiosità, non pochi
pensavano a ben altro e io li vedevo dall’altare, dove da buon
chierichetto aiutavo il sacerdote nella funzione. Non era ignoto il
fatto che la signora Egle, consorte del ricco cavalier Lisandri,
soprannominato il cappone per via – così si diceva –
di una innata incapacità a congiungersi con la moglie, si
consolasse in altro modo; non era né giovane, né bella,
però pagava e guarda caso se ne stava a contrattare con Il
camaleonte, al secolo Gerolamo Corbezzi, giovanotto di bell’aspetto,
ma senza arte né parte, però capace di mimetizzarsi
perfettamente quando suo padre lo cercava per fargli fare qualche
lavoro. Non capivo cosa si dicessero, perché parlavano anche
piano, ma una cosa era certa: l’affare andava puntualmente in
porto e il più soddisfatto sembrava il marito, che con un aria
beata e da bue fissava l’altare. E che dire dell’Ornella
Galavotti, ragazza all’apparenza insospettabile, ma sempre alla
ricerca di un nuovo uomo; mio papà diceva che era una
ninfomane, ma non capivo cosa significasse. Più in fondo,
vicino alla porta, pronto a scappare, c’era “mano morta”,
l’ufficiale di posta così chiamato perché
attratto irresistibilmente dal corposo deretano di qualche signora.
Non c’era una Messa di Natale in cui non si udisse il suono
sonoro di uno schiaffo e non si notasse subito dopo che lui
guadagnava in fretta l’uscita. Una volta gli andò male e
in quell’occasione perse il vizietto, perché anziché
lo schiaffo, si prese una gragnuola di pugni dal marito della signora
oggetto delle sue attenzioni; in seguito chiese il trasferimento
all’ufficio di un altro paese e fece bene, perché già
in giro correvano voci di una denuncia nei suoi confronti. Insomma,
fra queste amenità, la Messa arrivava alla fine e allora si
spalancava la porta e la gente cominciava a defluire, ma non andava
subito a casa, si fermava sul sagrato a chiacchierare un po’.
Era il momento delle maldicenze in cui eccellevano le beghine e i
baciapile, veloci nel tirare il sasso, nascondendo subito la mano. Ce
n’era per tutti, compreso il prete e mi chiedo ancor oggi se in
confessione gli dicessero di questi loro peccati, anche se ho i miei
dubbi, vista la perniciosa riservatezza con cui sparlavano: “Hai
saputo?” E un ammiccamento verso una che usciva di chiesa. “Che
non si sappia in giro, fin per carità, ma la figlia di Dolfini
é incinta, e non è ancora sposata. Davvero? Ha uno
sguardo così pio, va sempre a testa bassa, ma é una
puttana. Del resto come il padre, che prima di sposarsi era sempre
al casino, quello a Mantova di Vicolo San Longino, con le puttane da
quattro soldi. “.
E
cosi via fino all’ora di pranzo, quando le vie del paese
diventavano deserte.
Grandi
mangiate, fino quasi a scoppiare, una lenta digestione da
coccodrilli, con tanto di pennichella, ma alle 16 tutti al cinema,
beninteso quello parrocchiale, perché in paese non ce n’erano
altri.
Ricordo
i titoli natalizi: Biancaneve e i sette nani, I dieci comandamenti,
insomma pellicole adatte a tutti, ma ciò nonostante
l’inesplicabile censura della San Paolo, che noleggiava i film,
qualche taglietto lo praticava, magari a una scena con un innocente
bacio e allora in sala, dato che per un attimo si interrompeva la
sequenza, si udivano i mugugni e spesso e volentieri le bestemmie. In
un ambiente non ampio, anche se c’erano platea e galleria, al
buio, nel fumo delle sigarette, l’ufficiale di posta si
ripeteva e la cosa strana era che se la vittima faceva finta di
niente lui si stancava, ma il più delle volte volava un altro
schiaffo, accompagnato questa volta da un coro di invettive (porco
maiale) che lo seguivano nel corso della sua precipitosa fuga. Al
cinema non c’era mai la signora Egle, con ogni probabilità
piacevolmente impegnata, ma giustificata dal marito, che chiamava
sempre in causa una improvvisa emicrania che le aveva impedito di
uscire.
Le
pellicole preferite erano quelle di maggior durata, come appunto I
Dieci Comandamenti, perché assicuravano il modo per tirare a
sera. Si usciva un po’ indolenziti, per le troppe ore seduti, e
ci si sgranchiva un po’ nel tragitto verso casa. Una volta
arrivati, il tempo era breve per giungere all’ora di cena, con
gli avanzi del pranzo, non pochi, anzi tanti, ma la fame era scemata
e si finiva con il mangiare più con gli occhi che con la
bocca. Due chiacchiere, giusto il tempo per arrivare all’ora di
andare a letto e infine un po’ di riposo fra le lenzuola. Prima
di addormentarmi mi passavano davanti agli occhi le immagini della
giornata trascorsa: il pranzo, con tanto di dolce, il film e sulla
scena di Mosè che fa spalancare le acque al mar Rosso mi si
chiudevano le palpebre. Ma non le orecchie: dalla strada saliva il
canto sguaiato di qualche ubriacone, parole incomprensibili come
quelle che possono uscire da una bocca impastata e da un cervello
annebbiato. E con questo concerto stonato terminava il giorno di
Natale.
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Storie di paese
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