Il
suono delle campane
di
Renzo Montagnoli
Il
primo chiarore dell’alba riuscì a infilarsi fra le fitte
maglie della grata che chiudeva l’unica finestrella della
stalla e un piccolo raggio andò a colpire gli occhi dell’uomo
che dormiva in una mangiatoia, steso sulla paglia e coperto appena da
un vecchio pastrano militare. Annibale Chiocchetti aprì
l’unico occhio che gli era rimasto e, ancora addormentato, si
chiese dove mai si trovasse. Poi si sovvenne della lunga camminata
che aveva fatto il giorno prima da Reggio a Codisotto, di quella casa
colonica in cui si era imbattuto quando ormai erano già scese
le ombre della sera, dell’accoglienza ricevuta dai suoi
abitanti che non conosceva, del pasto caldo consumato e infine
dell’agognato riposo in quella stalla. Vicino a lui sentiva
delle mucche muggire e il tipico rumore del latte appena munto che
cadeva nel secchio.
-
Hai
dormito bene?
-
Ero
talmente stanco che mi sarei coricato anche per terra.
Il
contadino gli allungò una tazza di latte fumante e una fetta
di polenta riscaldata nella cenere.
-
Non
ho altro, ma comunque è meglio di niente.
Il
Guercio, che era il nome di battaglia da partigiano e che gli sarebbe
rimasto appiccicato tutta la vita, ringraziò, poi divorò
quell’umile, ma sana colazione.
-
Se
vuoi lavarti, la pompa é nell’abbeveratoio
di
fuori. E’ acqua fredda, ma risveglia bene.
Sì,
era decisamente fredda, un getto gelato che inondava il viso con la
barba di tre giorni, ma era quello che ci voleva per affrettarsi a
riprendere il cammino verso casa. Il contadino lo osservava, incerto
su qualche cosa che voleva chiedergli, poi si decise: -Eri un
partigiano?
-
Sì,
un partigiano, operante sull’Appennino e che ha partecipato
alla liberazione di Reggio. Poi siamo stati costretti a restare, per
consegnare le armi agli americani, ma ieri mattina abbiamo avuto il
via libera e allora tutti, con ogni mezzo, ma soprattutto a piedi, ci
siamo fiondati verso casa.
-
Brutta
cosa la guerra, brutta cosa soprattutto la guerra civile. - disse il
contadino. Poi aggiunse:- Avevo un figlio, anzi ne avevo due, che non
torneranno, uno, un partigiano come te, è stato
ucciso in un rastrellamento, l’altro non era della stessa idea,
stravedeva per Mussolini e dopo l’8 settembre è entrato
nelle Brigate Nere. Morto anche lui, durante un rastrellamento. E
magari sei stato tu a sparargli, ma poco importa, perché l’uno
e l’altro non ci sono più.
-
Può
anche essere che sia stato io a sparargli, ma ho sparato tante volte,
anche perché sparavano a me. Sì, brutta cosa é
la guerra, un’esperienza che non potrò mai dimenticare.
Il
contadino mise in un cesto tre fette di polenta, un mezzo salame e un
pezzo di formaggio. -Ti serviranno lungo il viaggio per arrivare a
casa.
-
Grazie.
- disse
il Guercio e riprese il suo cammino. Fatti pochi passi si voltò
per guardare quell’uomo che l’aveva aiutato e solo allora
si accorse delle lacrime che solcavano il suo viso.
-
Brutta
cosa è la guerra. - disse
a voce alta e quello rispose, correndo dentro la stalla:- Una guerra
non finisce mai, anche per chi resta.
Già
il sole s’era ampiamente affacciato a oriente mentre il Guercio
percorreva la strada diretta al Po, un tempo così ben tenuta,
ma ora disastrata, costellata dai crateri delle bombe che l’avevano
colpita. Sperò di trovare un passaggio, un camion, un carro,
insomma qualsiasi mezzo per arrivare alla svelta, ma era una speranza
vana. Pressochè deserta, era percorsa solo da qualcuno che
magari si era congedato come lui. Lo stupì il silenzio,
l’assenza di suoni, fatta eccezione per i latrati di qualche
cane lontano. Era ormai primavera, ma non s’udiva il canto
degli uccelli, né si vedevano, forse ancora impauriti dalla
battaglia di alcuni giorni prima. Poi udì un suono, un suono
di campane che chiamavano alla prima Messa. In verità erano
più suoni che sembravano rincorrersi nell’aria, una
serie di note che sapevano di tempo andato, tanto che pareva perduto
e lui si commosse. Pensò alla sua casa, a cui contava di
arrivare il più presto possibile, a sua madre, a sua moglie e
al suo bambino e nel rivedere quei volti che l’ultima volta
aveva scorto più di un anno prima iniziò a piangere,
calde lacrime che non lo stordivano, ma lo facevano sentire meglio,
che gli dicevano, scivolando fra i peli della barba, che l’incubo
era finito e che era tempo di tornare a vivere.
Sentiva
nascere dentro di sé un anelito, una speranza in un mondo
diverso, senza più spari, senza più scoppi, ma era
inevitabile allora volgersi indietro, ai tanti compagni di
quell’avventura che aveva lasciato sotto croci di legno, a
gente come lui che mai avrebbe visto la fine di quella catastrofe: il
prete rosso, fucilato dai fascisti, Giuanin di Gualtieri, torturato e
ucciso, il loro primo comandante Gambalesta che, ferito, era morto
per coprire la ritirata dei suoi uomini e di tanti altri di cui non
avrebbe mai saputo il vero nome, ma che, fra un passo e l’altro
verso casa, sembravano affiancarsi, ombre sfumate che accompagnavano
il suo ritorno e che mai avrebbe dimenticato, come non si sarebbe mai
scordato gli occhi impauriti e imploranti di una spia che avevano
fucilato, niente più di un ragazzo cresciuto dalla parte
sbagliata.
La
strada era accidentata per via dei crateri, ma ogni tanto gli
capitava di trovare una bomba d’aereo inesplosa, conficcata nel
terreno, e allora era opportuna una deviazione, per sicurezza.,
magari in mezzo i campi, sempre con il timore che fossero minati. E
qui si sorprendeva, sgomento, nel vedere i filari di viti tagliate al
piede, gli alberi da frutto schiantati, segno evidente che i tedeschi
in ritirata avevano voluto lasciare ancora una volta il segno della
loro ferocia, come se un mondo senza il terzo Reich non dovesse
essere che desolazione e dannazione. Non seguiva più in
pratica la strada, andava per i campi sui quali l’umida erba si
cullava al sole primaverile; temette a un certo punto di aver
sbagliato strada, ma poi disse a se stesso che in ogni caso era a
Nord che doveva andare per arrivare al grande fiume, di cui in
distanza gli pareva già di scorgere gli alti argini. Non
sapeva che ore fossero, perché non aveva l’orologio, ma
dalla posizione del sole pensò che forse erano le 8 o le 9 di
mattina e mentre faceva questi calcoli andava, accelerando il passo,
così che senza quasi accorgersi si trovò ai piedi
dell’argine. Oltre c’era il Po e sull’altra riva il
suo paese, la sua casa, quel piccolo mondo che aveva lasciato e che
ora fremeva per il desiderio di tornare a farne parte. Salì
sull’argine e guardò la grande massa d’acqua, che
più sotto scorreva. Come aveva temuto il ponte di barche non
c’era più e allora volse lo sguardo a sinistra, verso il
ponte in ferro della ferrovia, ma non vide che lamiere contorte e
piloni abbattuti.
Il
fiume sotto scorreva tranquillo e l’acqua era solcata da alcune
barche, con i rematori che, ritti in piedi, affondavano il remo
ritmicamente e con apparente tranquillità. Guardò giù
e si accorse che sulla riva sabbiosa erano allineati dei corpi
intorno ai quali si muovevano alcuni uomini; scese e mano a mano che
s’avvicinava all’acqua notò che quei cadaveri,
gonfi come otri piene, indossavano una divisa tedesca. Da una barca,
attraccata alla riva, ne stavano scaricando altri. Rimase sconcertato
e allora uno degli uomini che allineavano i morti gli disse: - Anche
oggi la pesca è buona.
-
La pesca? - gli rispose Annibale. - Sì, questi disgraziati
negli ultimi giorni di guerra, pur di scappare, hanno cercato di
attraversare il fiume con qualsiasi mezzo, a volte addirittura
aggrappati alle assi per fare la pasta. Si vede che non sapevano che,
sotto quell’aria sorniona, il Po è traditore e ne sono
annegati a centinaia. É da una settimana che ne tiriamo su;
gli americani ci danno 500 lire per ogni cadavere e di questi tempi
non si può fare gli schizzinosi. E poi, cosa volete che vi
dica, mi fa anche piacere vedere come questi superuomini si sono
ridotti. Annibale li osservava, uno per uno e a un certo punto provò
sgomento: - Ma sono quasi dei bambini! - Che ci volete fare, ormai,
quando mancano le braccia, tutti sono buoni per diventare carne da
cannone. Ma a me sembra di conoscervi. Siete per caso del paese?
-
Sono del paese e anche voi non mi sembrate un viso nuovo. Il mio nome
é Annibale Chiocchetti. - Ma certo, lo sposo della Tilde.
Adesso ricordo, ma siete un po’ cambiato; si diceva che stavate
coi partigiani. - E’ vero, ero coi partigiani e sono cambiato;
con una guerra, prima il fronte greco, poi la Resistenza non si è
più quelli.
-
“Non so se vi ricordate di me, ma sono Mariin, il figlio della
Festona e di Giuachin, gli ambulanti di frutta e verdura. - Ricordo i
vostri genitori, ma voi non siete quasi mai stato in paese, mi pare
che lavoravate a Milano. - Sì, ma poi, un bombardamento oggi,
uno domani, ho deciso di rientrare, anche se poi anche qui, con la
faccenda del ponte, di bombe ne cadevano spesso; a essere del tutto
sincero, là con il razionamento non si mangiava, ma qui, con
la campagna,non ho rischiato di finire a pelle e ossa. Annibale
continuava a guardare i corpi, si era incupito e si passava una mano
sui capelli.
-
Li ho sempre odiati e li odio anche ora da morti. - fece l’altro.
-
Anch’io li ho odiati quando facevano i rastrellamenti e
incendiavano le case, uccidevano gli uomini e violavano le donne, ma
ora, nel vedere questi corpi sfatti, penso che non abbiano mai avuto
una gioventù, non siano mai stati in grado di costruirsi un
futuro diverso da quello imposto da un folle dittatore, e poi mi
vengono in mente le mamme che aspetteranno invano. No, ora non provo
odio, ma solo tanta pietà. - disse Annibale.
-
Se volete vi do un passaggio fino all’altra riva.
-
Sì, grazie, cosa vi devo dare in cambio?
-
Ma
niente, ci mancherebbe altro.
Raggiunta
l’altra sponda, Annibale scese, strinse le mani a Mariin e
comunque volle sdebitarsi, dandogli un pacchetto di sigarette
americane, un regalo molto gradito anche dai non fumatori, in quanto
considerato buona merce di scambio.
Si
avviò di buon passo, nonostante gli dolessero i piedi; alla
meta ormai mancavano solo un paio di chilometri, che tuttavia
finirono con il sembrargli molti di più. Anche lì la
strada era martoriata dalle buche provocate dai bombardamenti, ma più
andava avanti, più ogni cosa gli diventava familiare, e così
finì per giudicarla non così malmessa. Le campane
suonavano di nuovo, era domenica e la messa doveva essere finita.
Nelle orecchie udiva ancora le parole di Don Zeffirino <<Ite
missa est>> e gli sembrava di vedere la gente che usciva dalla
chiesa per poi fermarsi sul sagrato per scambiarsi le consuete due
parole. Sperò tanto di arrivare in tempo e accelerò
ulteriormente fino a quando, in fondo al breve rettilineo, scorse il
campanile, poi la chiesa e infine la gente, la sua gente che vi
sostava davanti. Erano tanti, quasi tutto il paese; qualcuno lo vide
arrivare, ci fu chi lo riconobbe e allora si udì un grido: -
E’ tornato Annibale!. E un altro, un altro ancora, in breve fu
un coro. E quando scorse fra i tanti sua moglie, sua madre, il
bambino e Don Zeffirino che li abbracciava felice, si accorse di
piangere, non vide più quella calca che fendeva, che voleva
toccarlo, non udì più le parole di saluto e gli parve
di volare. Si strinse ai suoi, senza parlare, in un lungo fremente
abbraccio, da cui si sciolse lentamente per dire, con voce tremante:
- Andiamo a casa, la tempesta è finita ed è tornato il
sole.
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