Il
prete rosso
di
Renzo Montagnoli
Il
Guercio amava poco parlare della sua esperienza partigiana e proprio
per questo diventavo sempre più curioso, gli rivolgevo
domande, a cui non rispondeva, oppure si limitata a una sconsolante
alzata di spalle. Rammento che una sera fui particolarmente
incalzante, al punto da indispettirlo e farlo sbottare in una frase
che sembrava definitivamente conclusiva. “Non mi piace parlare
di guerra, di morti, di rastrellamenti, di torture; io ero là,
fra i ribelli, come avrebbe dovuto esserci ogni uomo amante della
libertà e della pace, ma se non mi pento di questa scelta, non
passa giorno che non provi rimorso per qualche vita che ho tolto”.
Rimasi
un paio di minuti in silenzio e poi mi venne del tutto naturale
dirgli che la mia non era semplice curiosità, ma il desiderio
di uno che voleva sapere, voleva conoscere.
Restammo
zitti entrambi per un po’, poi mettendomi il volto fra le mani,
sbottai: “Possibile che non ci sia un ricordo determinante, un
personaggio unico, qualcuno che tu non dimenticherai mai e che dalle
tue parole sarà per me altrettanto indimenticabile?”.
Sospirò
e cominciò a raccontare.
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Ti dirò del prete rosso, un uomo che se fossero tutti così
i preti, la Chiesa sarebbe ben diversa e sarebbe veramente la casa di
Dio. Don Severino Fancelli, così si chiamava, era il parroco
di un piccolo paese dell’Appennino modenese, talmente piccolo
che la minuscola chiesa avrebbe potuto raccogliere tutti i suoi
abitanti per la Messa. Era povera gente, sempre stata povera, e con
la guerra si era immiserita ulteriormente; quindi questo prete non
poteva fruire di particolari prebende, tanto che per mantenersi
faceva diversi lavori a seconda della stagione: nei campi in
primavera e d’estate, campi di altri, beninteso, perché
lui non possedeva nulla, e con l’avvicinarsi della brutta
stagione dava una mano ai carbonai. Era talmente povero che portava
lo stesso paio d scarpe da almeno dieci anni, scarpe a cui dedicava
una cura particolare, con un’abilità manuale che gli
derivava dall’esperienza. Mangiava quel che riusciva a trovare,
cioè sempre poco, e non era quindi uno di quei reverendi ben
pasciuti che si possono trovare con una certa facilità nelle
parrocchie; no, lui era magro come un’acciuga, forse anche per
costituzione fisica, ma certo con quel poco di cui si alimentava non
sarebbe mai potuto ingrassare. Sempre contrario a ogni forma di
violenza, era diventato subito inviso ai fascisti, di cui aveva
assaggiato più di una volta il manganello e l’olio di
ricino. Ma lui non stava zitto, perché la domenica a Messa
predicava ai suoi parrocchiani il rispetto per le idee altrui e la
temperanza. Con l’avvento della guerra, poi, aveva cominciato a
calcar la mano e i suoi sermoni, senza mai essere violenti,
incitavano a non prendere le armi, a non andare a militare, al punto
che per il suo comportamento subì una denuncia, che solo
grazie al suo vescovo non ebbe conseguenze. Questi lo invitava a
essere prudente, a non esporsi, ma erano parole al vento. Restò
buono per alcuni mesi, anche perché per una nefrite dovette
lasciare temporaneamente la parrocchia e andare in un ospedale.
Ritornò dai suoi fedeli agli inizi del settembre del 1943,
cambiato come notarono alcuni, ma men che meno remissivo, anzi le sue
prediche estesero il campo d’azione, chiamando in causa i
ricchi che fanno fare la guerra ai poveri e auspicando un mondo in
cui tutti fossero proprietari solo di se stessi, tutti uguali, tutti
insieme per il bene comune. Da lì venne il soprannome di prete
rosso, e non per i capelli, che erano biondicci. Ebbi modo di
conoscerlo dopo l’8 settembre, quando cercai di unirmi ai
partigiani; fu lui a farmi da tramite, a ospitarmi per due giorni nel
minuscolo appartamento annesso alla chiesa, a dividere con me il suo
scarso cibo. E dato che io non ero arrivato a mani vuote, ma
portandomi dietro tre salami e due prosciutti mi fece una proposta
che all’inizio giudicai oscena. Mi guardò con due occhi
fermi, due occhi grigi determinati, ma che esprimevano anche
dolcezza: “Tu vuoi che li mangiamo? Forse non sai che in paese
ci sono un paio di persone seriamente malate e che avrebbero bisogno
di mettere sotto i denti qualche cosa di sostanzioso; io e te in
fondo non siamo malati, possiamo mangiare la zuppa di rape, ma loro,
loro, se vogliono sopravvivere, hanno bisogno di roba nutriente e
questa lo è. Aiutare chi ha bisogno sarà proprio di una
società di domani, dove si è uno per tutti e tutti per
uno. Molti dicono che sono un marxista, ma non so nemmeno che cosa
voglia dire; io sono un cristiano e come tale devo comportarmi, non
per obbligo, ma per convinzione. Vuoi ancora che ce li mangiamo?”.
Abbassai gli occhi e feci cenno di no con la testa. Al che lui mi
abbracciò dicendo: “Benvenuto, Annibale, nel regno dei
giusti.”.
Dopo
che ebbi raggiunto i partigiani, ebbi ancora alcuni contatti con lui,
pochi, ma illuminanti. Ogni tanto scendevamo noi alla parrocchia a
rimorchiare qualche nuova recluta, alcune volte veniva su lui, a
informarci delle novità, dei movimenti dei nazifascisti. Era
certo pericoloso per lui, tanto che gli proponemmo di lasciare la
parrocchia e di unirsi a noi. “No – rispose – come
posso abbandonare i miei parrocchiani nel momento del bisogno? Come
posso dare conforto alle madri e alle mogli che si sono viste
strappare i figli e i mariti? Come posso lenire la loro miseria se
non predicando la speranza di un mondo migliore?”.
Ci
guardammo in faccia sconsolati, ma sicuri che aveva ragione e allora
gli proponemmo di portare con sé un’arma, una pistola.
“Un’arma? Per magari uccidere un altro essere umano? No
di certo, preferisco morire io.”
Lo
lasciammo andare e rammento che fu l’ultima volta che lo vidi,
perché, come poi venimmo a sapere, due giorni dopo piombarono
in paese i fascisti e lo portarono giù a Modena. Per tre
giorni e tre notti lo sottoposero a torture perché volevano
sapere dove eravamo e lui, per tre giorni e tre notti, stette zitto,
nonostante i patimenti. Poi, all’alba del quarto giorno lo
portarono al poligono di tiro e lo fucilarono. Sembra, che già
legato al palo, con la vista annebbiava per le botte, abbia
mormorato: “Io vi perdono, Dio non so, ma spero di sì,
perché solo così un giorno potreste avere rimorso e
diventare uomini veri.”
Il
corpo fu messo in una fossa comune, ma i suoi parrocchiani, finita la
guerra, andarono a prenderlo e lo portarono al paese, dove fu
tumulato nel piccolo camposanto. Sulla lapide, oltre al nome, al
cognome, alle date di nascita e di morte, misero questa iscrizione
“Grazie, per la speranza che ci hai dato.”.
Spesso
sono gli uomini migliori a morire troppo presto, come nel suo caso;
resta il ricordo, incancellabile, di un uomo esile, quasi minuto, con
gli occhi chiari e miti, un uomo che faceva però paura non
solo ai nazifascisti per quel messaggio che indomabile portava
avanti. Era forse utopia? Non lo so, forse sì, ma era bello,
immensamente bello crederci.>>
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