Compagni di classe
di Renzo
Montagnoli
Non c'è che dire: fa caldo, anche
troppo, ma ho promesso, anzi ho manifestato la speranza al Guercio di tornare a
fargli visita anche questa sera e avverto come una minaccia incombente di un
tempo che sta per finire e che mi sprona ad andare.
Appena fuori casa,
lontano dal refrigerio del climatizzatore, sbatto contro il muro del caldo.
Ossessivo, asfissiante, magmatico. È sera, ma la temperatura non accenna a
scendere e in giro non c'è quasi nessuno, fatta eccezione per un paio di vecchine
sull'uscio di casa a farsi aria con i ventagli, con ai
piedi gli zampironi accesi. Loro forse non saranno tormentate dalle zanzare che
invece si precipitano su di me, scendono in picchiata dritte come Stukas e mi punzecchiano indifferenti alle mie smanacciate.
L'asfalto è ribollente, sembra quasi sciogliersi e sotto i miei piedi avverto
un che di spugnoso che mi induce ad affrettare il
passo. Ecco finalmente la porta del Guercio, socchiusa, segno che conta sulla
mia visita. Entro e nella penombra lo scorgo intento a osservare alcune
fotografie.
- Ciao. Vecchi ricordi?
Si volta e noto il suo viso sempre più scarno, in cui tuttavia l'unico occhio brilla vivo e
attento.
- Ciao. Sì, immagini di tanto tempo fa.
Sai, da vecchi si dimenticano i fatti recenti e si ha una memoria considerevole
di quelli accaduti magari una cinquantina di anni prima.
- È vero. Ma
dimmi che cosa guardi, se non è di disturbo.
Ripone la foto che ha in mano in uno
scatolone di cartone, da cui ne prende un'altra, la osserva e gli si accende un
sorriso.
. Vedi questa fotografia è quella della
quinta classe delle elementari. Vieni vicino, guardala con me.
Gli sono al fianco e sorrido anch'io
nel guardare quell'immagine color seppia: un gruppo di bambini vestiti da
Balilla e un'arcigna maestra, una zitella nata, che sembra raccoglierli sotto
di sé come una chioccia con i suoi pulcini.
- L'hai notata anche tu la maestra Zambretti, una donna severissima, ma non cattiva, e anche
se ha l'aspetto di una zitella per vocazione, non lo era. Sì, non era sposata,
ma era stata a lungo fidanzata con un geometra di Cremona ,
e per quel che so, avevano tutta l'intenzione di sposarsi, ma poi venne la
guerra, la Grande Guerra, e si dovette rimandare a miglior epoca. Lui infatti partì per il fronte e non fece più ritorno, ucciso
in una delle tante battaglie dell'Isonzo. Lei lo doveva veramente amare e anche
se intorno le ronzava più di un moscone, si negò
sempre, fedele a quella promessa di matrimonio che si erano scambiati. È un po'
triste e forse un certo carattere acido che mostrava a scuola
.- ma c'è da dire che noi eravamo dei birbanti
– era dovuto alla sua condizione, a quell'amarezza per una storia d'amore
tragicamente interrotta.
- Dimmi degli altri, dei tuoi compagni
di classe.
- Li ricordo bene e quasi tutti hanno
già finito i loro giorni, chi prima, chi dopo.
- Magari visto che
siete disposti su due file, con la seconda probabilmente su una panca, comincia
magari da questa.
- Va
bene. Il primo da sinistra mi sembra si chiamasse Landini,
forse Landrini, ma era conosciuto come “parsut”, e in effetti era
cicciottello, tanto da assomigliare a un prosciutto. L'ho perso di vista, non
so più nulla di lui, perché dopo le elementari si è trasferito con la famiglia
in Abruzzo, dove il padre, brigadiere dei carabinieri, promosso maresciallo,
era stato destinato a una Stazione dell'arma.
Il secondo, beh il secondo,
guarda bene che lo conosci anche tu.
- Non dirmi che sei tu. Ma sì, sei
proprio tu, con una faccia da birichino che non mi
sarei aspettato.
- Te l'avevo detto che eravamo dei
birbanti, cresciuti non allo sbando, ma in grande libertà e, diciamolo
francamente, un po' insofferenti a certe regole.
- E quello alla tua sinistra?
- Franco, Franco Festucci,
un buon bambino e da grande una brava persona.
Ti ho già detto di lui, anzi di suo padre, che per non poco tempo stava
a lungo in stazione nella speranza di vederlo ritornare con un treno. Il suo
povero figlio finì disperso in Russia, ma che vuol dire disperso? Che è morto o
che magari è vivo?
No, Franco è uno dei tanti che , o nel corso della ritirata, sfinito, si è lasciato andare
sulla neve, oppure è morto di fame, di fatica in un gulag staliniano. Non
sapere che fine ha fatto tuo figlio è un dramma, perché si finisce con
l'aggrapparsi a un'improbabile speranza.
Si asciuga una lacrima, ricordando
anche probabilmente il suo infruttuoso interessamento per avere notizie più
certe.
- Passiamo all'altro.
-m Questo, un po' strabico, è Benito Vessoni, un bambino sempre malaticcio, pargolo di genitori
tisici,e infatti anche lui contrasse la tubercolosi,
che se lo portò all'altro mondo che non aveva ancora vent'anni.
Di fianco a lui, questo con i capelli corti corti, è Gino d'la bugandera, soprannome dato a Gino Avisani
per distinguerlo dall'altro Gino che avevano in classe. Come puoi ben
comprendere sua madre faceva la lavandaia e fra un lenzuolo e l'altro, ben
insaponato e poi sciacquato, trovava anche il tempo per fare un figlio, sempre
da uomini diversi, e in questo modo la famiglia era ben allargata e Gino poteva
contare su quattro fratelli e tre sorelle. È perfino superfluo che ti dica che
vivevano in condizioni disagiate, con poco cibo e una fame atavica che riuscì a
calmare solo nel dopoguerra quando riuscì a metter su un negozio di generi
alimentari. Lì, fra coppe, salami e prosciutti, era rifiorito; ormai calmato lo
stomaco, passava ore ed ore ad annusare i profumi dei
salumi, quei profumi che da bambino erano solo nei suoi sogni. Dopo le prime
abbuffate, con il rischio di sguarnire la bottega, gli era
arrivata una pace dei sensi in cui non aveva mai sperato; inoltre l'armonia
familiare (era sposato con una brava donna che gli aveva dato due bei figli) lo
hanno condotto a una serena vecchiaia. No, non è morto, ma non abita più in
paese, bensì in città.
L'altro Gino della classe è quello che
gli sta di fianco e, come noterai, ha una faccia da birbante che è unica.
Quante ne abbiamo combinate io e Gino Cucconi, quanti nidi di uccelli abbiamo tirato giù; è stata
una frenesia di giovinezza, sempre a correre durante le vacanze e a combinarne
di continuo. Poi, con la guerra, ci siamo persi di vista, soprattutto dopo l'8
settembre del 1943: io con i partigiani, lui con i repubblichini. Chi l'avrebbe
mai detto che Gino si sarebbe messo a sparare contro gli italiani, lui che sì
era un po' birbante, ma era anche un buon diavolo. E il bello che entrambi eravamo a conoscenza di essere su opposti fronti e mi auguro
che anche lui sperasse di non doverci incontrare in battaglia.
Io sono tornato, lui no, caduto in
un'imboscata in Val Pelice.
Riposa nel nostro camposanto e, quando ero più in forze, ogni tanto lo andavo a
trovare e ogni volta mi veniva la voglia di chiedergli: perché? Dalla foto
incorniciata sembrava guardarmi con l'espressione di uno che non conosceva la
risposta.
- E penso che non fosse l'unico fra i
repubblichini a non conoscere la risposta, vero Guercio?
- Sì, ma non la conoscevano perché non
si erano mai posti la domanda.
- Proseguiamo su
questa fila. Vicino a Gino Cucconi questo dall'aria mite, quasi bovina, è
Cosimo Gasparini. Un tipo un po' imbranato,
ma buono, buono come il pane. Te n'ho già parlato: è stato il mio
compagno di iniziazione sessuale, abortita almeno nel
mio caso.
- Non ho presente.
- Dai, non ti ricordi della visita che
ho fatto con lui al casino?
- Sì, è vero, è anche divertente.
- Sì, a pensarci adesso è divertente.
Si alza, a fatica, prende il bicchiere
che ha sul tavolo e beve l'acqua a piccoli sorsi, come se deglutire quel
liquido fosse già uno sforzo.
- Andiamo avanti. Qui ce ne sono due
che non ricordo, non erano del paese e probabilmente
li ho avuti compagni di scuola solo in quella classe. Non ti so dire altro.
Questo, invece, che ride a bocca aperta
tanto da mostrare la mancanza di qualche dente, ha una storia particolare.
Fredin, vale a dire Alfredo Taraschi, bambino vivace e intelligente, era il migliore
della classe; amava la vita, nonostante fosse povero tanto che quando tornava
da scuola andava a lavorare fino a sera nel negozio di
un ciabattino. Eppure, la felicità sembrava appartenergli e sprizzava da tutti
i pori, come testimonia anche questa sua risata al flash del fotografo. Non era
il mio compagno di giochi durante le vacanze, che passava sgobbando a risuolare
scarpe, ma, essendo del paese, ogni tanto ci si vedeva. Quello fu il suo ultimo
anno scolastico e dopo ci fu solo lavoro; faticava, certo, ma era sempre
contento. Piano piano mise da parte un gruzzoletto
con cui rilevò la bottega; passavo di là e lui ribatteva i chiodi nelle suole,
ma aveva sempre pronta una battuta scherzosa, insomma era un piacere fargli
visita. Durante la guerra non fece il militare, perché soffriva di cuore, il
che non gli impedì però di condurre una vita normale. Si sposò durante il
conflitto con una bella ragazza, da cui ebbe un figlio. Era innamoratissimo e
me lo diceva tutte le volte che lo vedevo e la sua felicità mi era di conforto,
perché vedere uno che è pienamente contento della vita non è frequente. Poi, si
era nel 1954, una mattina non aprì bottega. Lo cercarono, per prima la moglie,
senza trovarlo, ma quando si aprì il negozio lui era
dentro, penzolante da una corda legata a una trave.
Fu un colpo per tutti e non avremmo mai
saputo il motivo di quel gesto estremo se la moglie, in lacrime, non avesse
parlato alla mia Tilde.
- Cos'era accaduto
di tanto grave?
- Alfredo era tornato improvvisamente a
casa dal negozio, o perché aveva dimenticato qualche cosa, o perché sospettava,
e aveva trovato la moglie a letto con un uomo. Non disse nulla, rimase un
attimo fermo sulla porta della camera da letto, poi
ritornò sui suoi passi, ma prima di uscire esplose in una risata sguaiata,
quasi agghiacciante.
Guardo, più che altro per abitudine,
l'orologio: segna le 21,30.
- Devi andare?
No – mi affretto a rispondere – posso
restare ancora un bel po', anche perché mi interessano
i personaggi di questa fotografia.
- Bene, allora vado avanti perché
adesso dovrebbe venire il meglio. Passiamo a quelli in piedi non sulla panca,
insomma a quelli in prima fila.
Il primo da sinistra, con quell'aria un
po' arrabbiata, e già allora sembrava che l'avesse a morte con tutti, è Aldo Marchetti.
- Questo nome l'ho già sentito.
- Appunto, quello a
cui ho dato un pugno il 9 settembre 1943, quello chiamato “Gerarchetto”. Già da bambino era un essere viscido, un
compagno di cui mai fidarsi e per questo isolato da tutti. Privo di una propria
personalità e di mediocri capacità pareva destinato a un avvenire in ombra, ma
prima il fascismo, poi la guerra e l'armistizio badogliano
gli vennero prontamente in soccorso. Erano tutte occasioni per lui di mettersi in luce
grazie a un minimo di potere che gli derivava dalla divisa e, finito il
conflitto, dopo essere stato ben nascosto in una paesino di montagna, calmatesi
le acque, riapparve, dedicandosi a una nuova e più proficua attività: la
politica, in cui ne combinò di cotte e di crude. Con questo curriculum si
presentò poi al Creatore, essendo arrivato al capolinea, e credo che Dio, nel
giudicarlo, abbia fatto fatica a restare calmo. E' un po' che è morto, ma credo
che se fosse ancora vivo farebbe parte della cerchia di amici ossequianti di quel piccoletto di Arcore che si crede una divinità e che
invece è una nullità.
- Comunque anche lui è arrivato al
capolinea, magari un po' tardi, se su considerano le
sue malefatte. Andiamo avanti.
- A essere sinceri mi sento un po'
affaticato e forse è meglio che proseguiamo un'altra sera.
Lo guardo: il respiro si è fatto
affannoso, le mani gli tremano.
- Sì, Guercio, ci vediamo alla stessa
ora e tu riposati, perché ci sono ancora un bel po' di
compagni di classe; buona notte, vecchio mio.
Gli esce un sibilo dalla bocca e
comprendo che è il suo commiato; mi prende le mani e cerca di stringerle, ma
non c'è più forza.
Vai – sospira.
Ed esco con il cuore in tumulto,
sperando che lui ancora ci sia domani sera.
-°-°-°-
Ritorno la sera dopo, con il conforto
di sapere che è ancora lì ad aspettarmi.
- Ciao.
- Ciao. Vogliamo proseguire?
- Ma certo.
Mi siedo accanto a lui con la
fotografia in mano e noto – prima non ci avevo fatto caso – un bambino dal
volto malinconico che si regge sulle stampelle.
Glielo indico.
- Guercio, chi è questo?
Non mi risponde e una lacrima fa
capolino dall'occhio sano.
- Ti dispiace parlarne?
- No, solo che è una storia molto
lunga.
- Va bene, racconta, magari saltiamo
gli altri.
- E perché non nominarli? Ci accorgiamo
degli altri solo quando le nostre strade si incrociano
e allora comprendiamo che la vita di ognuno di noi è unica e irripetibile,
anche la più oscura.
Per loro comunque sarò breve: questo
biondino con la frangetta è Aldo Mercanti; subito dopo la scuola si è trasferito con i suoi a Varese e da allora non ne so più
nulla. Ricordo solo che era tutto casa, scuola e
chiesa.
- E il suo vicino, questo ciccione un
po' strabico?
- Quello non è morto, abita da un po'
di tempo in città; si chiama Alberto Gradi, più conosciuto, anche successivamente, come Pancho, e puoi ben capire il perché: l'ho
sempre considerato un po' tonto, ma mi sbagliavo, perché ha studiato con
profitto e si è addirittura laureato in lettere, insegnando a lungo italiano al
liceo.
- E quello dopo?
- Ne ho un vago ricordo; mi pare si
chiamasse Giorgio, ma non mi viene in mente il cognome. Una brava persona che
la campagna di Albania si è portata via.
Osservo attentamente il bimbo con le
grucce e mi sembra quasi fuori posto fra quei suoi coetanei che potevano
correre e giocare.
- Hai notato anche tu, vero, quegli
occhi malinconici'
- Sì, e posso anche immaginare che il
peso della sua disgrazia, per quanto accettata, lo ponesse sempre di fronte
alla sua diversità, a quanto avevano gli altri che a lui era
precluso.
- Hai detto bene. Diego, si chiamava
Diego Accorsi, era stato colpito ancora in fasce dalla poliomielite. Allora non
c'era il vaccino e i casi erano abbastanza frequenti, e lui era uno di questi.
Bambino sensibile e anche intelligente portava in silenzio il suo dolore; mai
che abbia percepito, anche dopo, un minimo d'invidia per la mia più fortunata
condizione. Era buono e avendo compreso che dalla vita avrebbe potuto avere ben
poco, viveva in funzione del suo fratello maggiore Piero, che venerava per la
sua franchezza e la sua decisione. E questi stava quasi
sempre con lui e se usciva di casa se lo portava dietro, cercando di
fargli vivere la sua normalissima vita, cosa ovviamente spesso impossibile,
soprattutto per certi eventi. Così Piero prese sempre meno ad
uscire con Diego, quando trovò una ragazza che gli piaceva e che prese a
frequentare. L'altro, poco a poco, finì per isolarsi in casa, pur continuando a
venerare il fratello, ma credo che non sia difficile
immaginare quanto anche lui desiderasse la carezza di una mano femminile, un
profumo di donna che lo avvolgesse come in un bozzolo.
Trasse di tasca un fazzoletto e si
asciugò una lacrima; ormai la sua voce era rotta dall'emozione. -Povero,
Diego, una vita senza anche il più piccolo di quei
rari piaceri che ci vengono riservati, tanto che penso sempre – e Dio mi
perdoni – che era meglio se moriva da piccolo. La storia, però, è lunga per un
altro motivo.
- Racconta, ma senza agitarti.
- Senza agitarmi…è una parola. Tutto ha
inizio una sera del novembre del 1944. Piero era da tempo
con i partigiani, mentre Diego era rimasto alla vecchia casa colonica con il
padre (la madre era morta di tubercolosi un paio di anni prima). C'era freddo e
una nebbia fitta avvolgeva ogni cosa, una condizione ideale per spostarsi senza
essere scoperti ed è quello che deve aver pensato Piero, sceso al paese per
incontrarsi con la fidanzata, il che effettivamente avvenne. Dopo un po' di
scambi di tenerezze, a notte ormai inoltrata, pensò che era giusto
fare un salto a casa a salutare il padre e Diego, e così fece. Mentre
raccontava ai congiunti la sua vita da patriota, la casa fu circondata dalle
Brigate nere, che evidentemente dovevano avere avuto una soffiata. I tre fecero
appena in tempo a rifugiarsi nel fienile, il vecchio padre in alto coperto
dalla paglia, Piero sotto un vecchio trattore e Diego rimase lì, per le sue difficoltà
deambulatorie e anche perché contava sul fatto che la
sua disgrazia avrebbe costituito una remora per le violenze degli sgherri. Non
fu così: entrarono in dieci, capeggiati dai due fratelli
Giovanni e Benito Aristarco e da Franco Bonvini, nomi all'epoca tristemente noti per i loro crimini
efferati.
Gli chiesero del fratello e lui rispose
che non lo vedeva da mesi; gli domandarono del padre e lui dichiarò che era a
letto a dormire. Ovviamente non fu creduto e, prima gli spezzarono le grucce,
di modo che ruzzolò a terra, e poi lo presero a calci e a pugni, gli
saltarono perfino sulla testa, fino a quando esalò l'ultimo respiro.
Piero vedeva e non poteva intervenire,
perché disarmato; il padre, invece, fu colto da infarto alle prime sevizie
inferte al figlio e morì così, coperto dalla paglia. Poi i criminali se ne
andarono, non senza aver dato fuoco prima alla casa.
Piero fece appena in tempo a mettersi
in salvo, pur con i capelli bruciacchiati e, mentre ritornava al suo reparto
partigiano, fra un singhiozzo e l'altro, giurò che si sarebbe vendicato. E così
fu.
Il giorno 6 gennaio 1945 fu ritrovato
in riva al Po quel che restava di Franco Bonvini;
secondo il maresciallo dei carabinieri l'uomo era stato torturato e infine
tagliato in pezzi, con una sega, forse quando era ancora vivo. Non c'erano
tracce, tranne un biglietto con su scritto: e ora tocca ai fratelli Aristarco.
Il militare sapeva a cosa si riferiva
quella scritta e chi era stato l'omicida, lo sapeva come lo sapevano
tutti in paese, ma erano tempi bui, pericolosi e poi era già chiara l'imminente
fine del regime, così che avviò le indagini con lo stesso zelo e celerità di
una brigosa pratica amministrativa.
Per quanto ovvio i fratelli Aristarco
cominciarono a trascorrere dei giorni tremendi, spesso asserragliati in casa,
oppure in giro con una scorta armata.
Giovanni Aristarco
il 20 gennaio dovette uscire per motivi indifferibili di servizio e portò con
sé cinque sgherri, ma alla sera non tornò nessuno e
non se ne sarebbe saputo più nulla se ai primi di febbraio un contadino non
avesse trovato nel suo campo una testa recisa dal tronco che il solito
maresciallo identificò per quella di Giovanni Aristarco.
Poi non accadde più nulla, venne il XXV
aprile con la liberazione e iniziò la caccia ai fascisti. Benito Aristarco fu arrestato con gravi accuse, ma mentre veniva trasportato alla casa circondariale della città alla
scorta fu intimato l'alt da un gruppo numeroso e agguerrito di partigiani.
Deposero le armi e consegnarono il prigioniero, come fu loro intimato. Questi venne interrogato da un uomo che qualcuno riconobbe come
Piero Accorsi, poi fu ammazzato di botte.
Perché interrogarlo, ti chiederai? Per
sapere chi aveva fatto la soffiata ed ebbe la risposta: il farmacista del paese, un delatore per
vocazione. Io lo so, perché Piero mi ha raccontato tutto.
Poi, passati i primi mesi di pace, con
il progressivo ristabilirsi dell'ordine, vendicarsi sul farmacista diventava problematico. Piero, però, escogitò un sistema del tutto
ingegnoso, contando sul fatto che la sua futura vittima temesse di essere
identificata come l'ignoto delatore e fece in modo che questo avvenisse in via
del tutto casuale.
Il farmacista viveva pressoché
barricato nel suo negozio e Piero, come qualsiasi persona del paese, non
mancava di fargli visita per le sue necessità.
Entrava e ordinava un cachet contro
l'emicrania, aggiungendo “Ho un mal di testa che me la
taglierei. Forse anche Giovanni Aristarco
soffriva di emicrania”. Si divertiva a guardare l'uomo dall'altra parte
del banco che sbiancava e che gli consegnava il medicinale con mano tremante.
Non mancavano poi le minacce anonime,
biglietti fatti trovare sulla porta, del tipo “Manchi solo tu.”, oppure “i
traditori finiscono tutti male.”.
Era un autentico bombardamento e l'acme avvenne
sotto Natale. Approfittando del fatto che in negozio non c'era nessuno, Piero entrò con gli
occhi sbarrati, fissò il farmacista e disse solo due parole: a presto.
Per Natale e Santo Stefano il negozio
resto chiuso, ma non aprì nemmeno quando finirono le feste, la gente, che necessitava di medicinali, era impaziente e bussava alla
saracinesca, senza ottenere risposta.
Fu chiamato il maresciallo dei
carabinieri e il fabbro, cioè io, e si decise di forzare la serranda. Così feci
e una volta entrati non potemmo che guardare sgomenti il farmacista penzolare
da una corda legata a una trave del soffitto. Sul banco c'era un biglietto,
vergato con una grafia tremante, con su scritto “chiedo perdono.”.
Ovviamente non ci furono altre vittime,
la vendetta era compiuta e Piero venne da me con le lacrime agli occhi,
dicendomi: << Dovevo farlo, per mio padre, soprattutto per Diego, ma ora mi sento la bocca amara, come se avessi
mangiato del fiele. Guercio, credevo che vendicandomi
tutta questa rabbia che mi era nata dentro se ne uscisse senza mai più tornare
e invece mi accorgo che ora ho un vuoto che mi rode dentro. Forse è il rimorso,
è come se la vendetta avesse colpito anche me. >>
- Posso capirlo. E poi com'è andata a
finire'
- Dopo un paio di mesi è andato via.
C'è chi dice che è emigrato in Australia, c'è chi invece sostiene che è andato
a cercar fortuna, e forse pace, in Canada. Comunque da allora di lui non ho
saputo più nulla.
- È partito con la fidanzata?
- No, si erano già lasciati alla fine
del 1944. Piero Accorsi era diventato ormai un uomo incapace di amare.
- Una storia triste, che lascia appunto
l'amaro in bocca.
- È vero, con tutti quei morti, fra i
quali metto anche Piero, morto dentro.
- Beh, si è fatto tardi. Vado a casa.
Buona notte.
- Tornerai un'altra sera?
- Lo spero.
- Buona notte amico
mio.
Esco, l'aria è opprimente, c'è un puzzo
di erba marcia, di materiale biologico in decomposizione. Penso a Piero, che
non ho mai conosciuto, e spero per lui che, ovunque sia, abbia ritrovato il
senso e il piacere di amare. Affretto il passo, ho bisogno di respirare un'aria
diversa, non solo quella gradevole che esce dal climatizzatore, ma un aria che sappia di vita, di speranza, di amena e
ineguagliabile serenità Arrivo alla
farmacia ed è aperta per turno. Entro e mi viene
chiesto: - Di che ha bisogno?
- Di niente, mi scusi.
E guardo il mio interlocutore, una
graziosa biondina che ha un sorriso fra il meravigliato e l'incredulo.
- E allora perché è entrato?
- È una storia troppo lunga, di tanti
anni fa, e poi sono sicuro che non la interesserebbe.
Mi scusi ancora e buona notte.
- Si riferisce a mio nonno che qui si è
ucciso? Poveretto, all'epoca era già
vedovo e aveva perso la testa per una donna che non contraccambiava.
La guardo, la verità non è quasi mai
bella e non voglio che altri abbiano motivo di soffrire.
- Sì, una vicenda triste, ormai lontana.
Piuttosto, mi sta venendo l'emicrania. Avrebbe un cachet?
Me lo porge, pago ed esco, non senza
che ci siamo scambiati la buona notte.
Affretto il passo, si è fatto tardi, è
ora che vada a dormire.
Da Storie
di paese