In una calda sera d'estate
di Renzo
Montagnoli
Al ritorno dal lavoro, oggi più
faticoso del solito, perché è lunedì ed è sempre così l'inizio di ogni
settimana, dopo il riposo del sabato e della domenica, ho trovato sull'autobus
Graziano, un vecchio amico, vecchio perché ci
conosciamo ormai da molti anni e vecchio anche perché è in quell'età in cui
nulla più si attende, se non la fine del proprio ciclo.
Dopo le inevitabili domande e risposte
sulla salute e sugli eventi che nel frattempo sono accaduti (non lo vedevo da
quasi sei mesi), lui si è fatto serio, fissandomi negli occhi.
- Ieri sera sono venuto in paese per la
festa del patrono, ma tutto quel rumore, quelle luci,
quei suoni che quando ero giovane mi incantavano, mi disturbavano e allora sono
andato a trovare il Guercio.
- Come sta?
- Non è messo bene, il cuore, l'età
ormai sono diventati un peso insopportabile; respirava
a fatica, eppure ha gridato il mio nome, vedendomi, e si è anche commosso. La
nostra è un'amicizia che, anche per motivi anagrafici, è ben più lunga della
tua con me e con lui. Abbiamo parlato un po' del tempo andato, con quel
rimpianto che è proprio dei vecchi, abbiamo anche fatto i nomi dei comuni
amici, di chi ci è ancora, e sono pochi, e di chi non
c'è più, cioè quasi tutti.
Mi chiedeva di Tizio e di Caio, e mi
ascoltava, rattristandosi quando apprendeva che qualcuno ci aveva lasciato. La
lista non era poi così lunga e l'ultimo nome era il tuo. Gli tremava la voce,
quando lo ha fatto, perché è da tanto che non ti vede
e temeva per te.
- E tu che gli hai detto?
- Gli ho detto che, per quanto ne
sapevo, soprattutto da altri perché anche noi due è da
un po' che non ci vediamo, che la tua vita procede tranquilla: casa e lavoro,
lavoro e casa.
Sembrava rincuorato, ma al momento di
accomiatarmi mi ha preso il braccio e mi ha quasi pregato di dirti, qualora ti
avessi incontrato, che ti pensa sempre e che sarebbe lieto di una tua visita.
- Povero Guercio, l'ho un po'
trascurato e mi dispiace.
- Vacci, ma alla svelta, perché ho il
timore che ne abbia per poco.
- Ci andrò, anzi ci vado
questa sera stessa, dopo cena.
Anche se è sera inoltrata
fa un caldo terribile, con un'umidità che toglie il respiro, ma ho promesso e
vado. Finita la festa, il paese è ridiventato silenzioso e, se non fosse per la
luce che trapela dalle imposte delle case, si direbbe disabitato.
Non c'è
un'anima in giro e anche il bar appare desolato, con un paio di vecchi seduti
fuori a contar le stelle.
Il tragitto è breve, ma sono in un
bagno di sudore quando suono il campanello.
- Avanti, è aperto.
Ed è la sua voce, non stentorea come un
tempo, fioca come un lume che si spegne, lenta come la poca corrente di un
fiume quasi in secca.
Entro e la camera è in penombra,
illuminata solo da una lampada da tavolo, quella a due braccia che sta vicino
alla poltrona, su cui il Guercio è sempre seduto unicamente per leggere.
Lo scorgo, ma non ha né un libro, né un
giornale in mano, è un'ombra dai contorni quasi vaghi, ritratto di un vecchio
non in buona salute.
- Ciao, Guercio. Scusa se non mi sono
fatto vivo prima.
Il viso quasi non si nota con quella
poca luce, ma mi pare di vedere un guizzo nell'unico occhio, un lampo, un
riattaccamento improvviso alla vita.
- Amico mio, che tu sia il benvenuto.
La voce trema, ma è più forte.
- Non devi scusarti, perché so, per
esperienza, cosa vuol dire lavorare e poi dedicare il poco tempo libero alla
famiglia, ed è giusto che la moglie venga prima degli amici.
- Ho incontrato Graziano e mi ha detto…
- Sì, l'ho visto ieri sera, e allora
l'ho pregato di portarti un'ambasceria. Ora sei qua ed
è quel che conta. Siediti, dai, che parliamo un po'. Ho da dirti ancora tante
cose prima che…
- Prima che?
- Prima che quest'unico occhio si
chiuda per sempre.
- Non pensare a questo.
- Ci penso invece, perché alla mia età
e nelle mie condizioni di salute è inevitabile scorgere il buio che si
avvicina.
- Di che vogliamo parlare?
- Se mi permetti, parlerò soprattutto
io, ma ti chiedo una cortesia.
- Di non interromperti?
- No, ma di trascrivere un giorno
queste parole, queste riflessioni, utili per te e probabilmente anche per
altri.
- Stai tranquillo, che sarà fatto.
Si sistema meglio sulla poltrona, beve
un goccio d'acqua dal bicchiere che è accanto alla lampada e si schiarisce la
gola.
- Ti ho sempre parlato del passato e lo
farò anche questa sera. In fin dei conti si tratta di fatti e di personaggi che
non hai potuto conoscere e che invece meritano di essere ricordati, non solo a
te, ma anche alle future generazioni. Vedi, io non ho mai creduto che esistano
uomini solo buoni e uomini solo cattivi. In noi ci
sono entrambe, cattiveria e bontà, e per quanto non si possa negare una certa
predisposizione per l'una o per l'altra, resta il fatto che
sta a noi la scelta, così che a volte ci comportiamo bene e altre invece male.
Perché ti dico questo? Perché sto per raccontarti una storia di tanto tempo fa,
ma tanto che tu non eri ancora nato. Me ne sono ricordato
domenica quando è venuto Graziano, perché lui ne è stato partecipe e me
l'ha raccontata. Ti ripeterò quindi le sue parole, ma prima occorre una breve
premessa.
Si fermò un attimo e bevve un sorso
d'acqua.
- Prima della guerra, la seconda guerra mondiale, vicino al paese abitava un uomo molto
ricco, grande proprietario terriero, un tipo collerico, tirchio, ma soprattutto
avido, volto a impossessarsi di più roba possibile, non con la forza, ma con i
suoi capitali. Giosué Menghini,
si chiamava, ma da tutti soprannominato Tallero proprio per quella sua mania di
accumulare ricchezza. Figlio di benestanti, grazie anche alla sua adesione fin
dagli inizi al fascismo, in breve diventò un'autentica potenza. Scorbutico,
violento anche con i suoi fittavoli, a cui imputava di
rubargli il pane, era insomma un tipaccio, un essere dal cuore duro, un
malvagio come veniva classificato. Di lui ho un ricordo che mi porto dietro,
perché un giorno mi sorprese a rubare qualche pera da un suo frutteto e,
anziché rimproverami, magari dandomi uno scapaccione (all'epoca avevo dodici
anni), mi sparò una fucilata; sparò in basso, ma la
rosa dei pallini fu tale che alcuni mi penetrarono nella natica e nella gamba
destra. All'ospedale, dove fui portato per essere operato, vollero sapere
com'era successo e lo denunciarono. Poiché era una fascista della prima ora e
peraltro assai in vista tutto finì in una bolla di sapone e anzi fui io a
essere minacciato dai carabinieri di essere rinchiuso in riformatorio.
Da allora lo evitai, disinteressandomi,
ma non poteva essere così per Graziano, perché i suoi erano fittavoli di un
fondo in cui Menghini aveva
anche la villa di proprietà.
Ho finito la premessa e vengo alla
narrazione fattami da Graziano.
Tallero era sposato, infelicemente,
anche perché la moglie lo cornificava; l'unica sua
gioia era il figlio, colui che avrebbe perpetuato il suo nome. Non che con il
pargolo fosse molto affettuoso, anzi lo allevava con durezza, come a prepararlo
più che a una vita a una battaglia. Poco prima dello scoppio della seconda
guerra mondiale la moglie morì di tisi e il legame con il figlio si rafforzò
ulteriormente; il giovane partì volontario e di ciò il padre fu orgoglioso, ma
durante una delle prima battaglie in Africa
Settentrionale rimase ucciso.
Menghini cambiò radicalmente, nel senso che
finì con il disinteressarsi della vita, sempre cupo, silenzioso, lo sguardo
assorto a chissà quali pensieri. Distrusse le numerose fotografie del duce che
teneva in casa, la divisa nera da fascista fu bruciata e si separò di fatto dalla realtà, come se intorno a lui ci fosse solo
il deserto e non gente che soffriva per una guerra scellerata e ingiusta.
Graziano, che allora era poco più di un
ragazzo, notò questo cambiamento e ne provò compassione, mentre altri
inevitabilmente ne gioirono per le male parole a suo
tempo ricevute e che avevano aperto ferite apparentemente insanabili.
La guerra continuava e continuò ancor più violenta dopo l'8 settembre 1943.
I tedeschi, con i loro sodali
repubblichini, spadroneggiavano, sempre pronti a gesti violenti per sfogare il
livore derivante dalla consapevolezza della prossima inevitabile sconfitta.
Accadde così che un giorno una
pattuglia della Wermacht rinvenne nel fondo di Menghini
il cadavere di un milite tedesco, ucciso a bruciapelo con una fucilata. Il
corpo era a circa duecento metri dalla casa padronale, intorno alla quale
sorgevano le abitazioni dei fittavoli e dei salariati.
Quello che comandava la pattuglia, con
ineffabile logica teutonica, pensò subito che se il colpevole o i colpevoli non si trovavano in quelle case, però qualcosa dovevano
sapere e che, non avendolo riferito alle autorità, erano da ritenersi in ogni
caso colpevoli.
Vigeva allora quell'assurda
rappresaglia che prevedeva per ogni tedesco ucciso l'eliminazioni
di dieci italiani, anche scelti a caso.
Si precipitarono, quindi, alla casa
padronale e radunarono sull'aia dieci maschi, fra i quali Graziano. Le
intenzioni erano evidenti, tanto che si andava già formando il plotone di
esecuzione, quando arrivò sul suo calesse Menghini.
- Che succede?
Il tenente tedesco, che sapeva un po' di italiano, rispose che a duecento metri da lì era stato
rinvenuto, ucciso, un loro commilitone e che quindi, non avendo trovato il
colpevole, come previsto dalle ordinanze, avrebbe fucilato quei dieci italiani.
Al che il Menghini
disse, con assoluta tranquillità, di essere l'esecutore di quell'assassinio.
Adesso seguimi
con attenzione, perché la cosa si fa interessante.
Il tedesco non sembrava convinto, al
punto che gli domandò: - - - Come avere ucciso?
Menghini, che non era di certo il colpevole,
sfuggì al tranello rispondendo:
- Non ho voglia di parlarne. L'ho
ucciso e basta, e quindi lasci liberi questi uomini, miei lavoranti, brava
gente e di certo non in contatto con i partigiani.
- Ma perché
avere ucciso, soprattutto voi che mi dicono essere buon fascista?
Menghini ebbe la risposta pronta:
- Mi stava rubando le pere; gli ho detto di smetterla e lui mi ha guardato
sprezzante definendomi italiano traditore; sì, italiano traditore, io che per
non tradire gli altri tradisco anche me stesso, astraendomi da questa assurda
guerra che mi ha tolto l'unica ragione della mia vita.
Il tenente rimase perplesso, si grattò
in testa come a cercare una soluzione e poi ebbe l'idea: - Mando una staffetta
dai miei superiori, per esporre il caso e agirò come loro decideranno.
- I suoi superiori? Uomini assetati di
sangue, convinti di essere unici al mondo, uomini che fra poco saranno
coinvolti nel crollo del Reich. Mi fate pena, perché già si legge in voi
l'epitaffio che verrà scritto sulle vostre tombe: Credemmo di essere degli dei e invece
eravamo polvere.
- Staffetta, hai capito? Aggiungi anche quanto ha detto questo ex fascista. E tu
mettiti con gli altri!
Menghini raggiunse gli altri e si posizionò di fianco a Graziano, chiedendogli subito: - E'
stato uno di voi?
- Macché, manco sapevamo che a duecento
metri da qui c'era un tedesco morto. Ma allora non siete stato
neppure voi?
Menghini rimase in silenzio per un paio di
minuti, come a pensare a qualche cosa di lontano, poi sussurrò: - No, non sono
stato io.
- Ma allora
perché prendersi la colpa e avere così morte sicura?
- Dopo di me, che non ho eredi, ci sarà
così ancora qualcuno che starà dietro a questa terra.
- Ma non
potete, non dovete…
Menghini non parlò più, sempre più assorto nei
suoi pensieri.
Ritornò la staffetta, parlottò con il
tenente e questi fece uscire dal gruppo tutti e dieci gli originari ostaggi,
invitandoli a posizionarsi sulla grande scala esterna
della casa, dietro il plotone di esecuzione.
Menghini capì, rifiutò la benda, guardò fisso
davanti a sé e lì incontrò gli occhi di Graziano.
Poco prima che il tenente gridasse “Feuer”, al mio buon amico parve di vedere in quelle pupille
un sorriso e comunque né odio, né paura, ma quasi una profonda serenità.
Spararono, mirarono bene e non servì il
colpo di grazia.
- Bello, sembra quasi un romanzo, anzi sembra inventato.
- E invece non lo è e chi avrebbe mai
detto che in quella scorza dura potesse annidarsi una luce di bontà. Menghini, ormai finito come uomo, ha scelto di morire da uomo, salvando altri uomini.
Ha riabilitato così tutta la sua vita e io non posso che perdonarlo per quella fucilata che mi ha
sparato.
L'essere umano è un miscuglio di bene e
di male e sta solo a lui scegliere l'uno o l'altro.
- E come mai di questo eroico
comportamento non si sa nulla, non viene commemorato?
- Graziano e i suoi, finita la guerra,
riferirono il fatto alle autorità, ma non sortì nulla, perché le parti in causa
avevano tutto l'interesse a tacere: i partigiani, perché Menghini
non era uno di loro, i fascisti perché non era più un fascista.
- I soliti interessi di parte…
-Beh, si è fatto tardi e ti lascio tornare a
casa. Verrai anche domani sera?
- Spero.
- Buona notte.
- Altrettanto.
Esco rinfrancato, con un po' di quella
serenità provata da Menghini nel momento supremo, e
nemmeno sento più così tanto il caldo; solo le zanzare,
implacabili, mi perseguitano fino a
casa.
Da Storie
di paese