La
mia famiglia patriarcale
di
Sergio Menghi
Voglio
subito premettere che io disconoscevo il significato di questo
aggettivo, patriarcale, fino a quando lo trovai scritto in una nota
di referenza fattasi in occasione della mia assunzione al lavoro
dall'allora proprietario del fondo dove mio nonno aveva lavorato con
la sua famiglia per oltre quaranta anni.
Mio
nonno io non lo vedevo proprio come un patriarca, questo aggettivo lo
coniugavo piuttosto alla figura del patriarca di Venezia che poi
divenne Papa Giovanni XXIII. Però, a ben guardare, i tratti
salienti del Papa appena accennato, bontà, poesia, allegria
erano comuni con quelli di mio nonno, specialmente con i nipoti,
forse in modo particolare con me che ero il primo arrivato in
famiglia.
È
il caso di precisare che altri nipoti c'erano prima di me, ma nati da
figlie che, sposate, si erano poi trasferite nell'hinterland romano a
seguito di quel processo di spopolamento delle campagne ed al
conseguente trasferimento in grandi città come Roma che,
restando relativamente vicina al mio paese di origine, permetteva di
mantenere facili relazioni con il nucleo centrale.
Tale
nucleo si costituì intorno ai primi del novecento con
l'assegnazione in conduzione a mezzadria di un fondo di circa 17
ettari in località Mergnano San Savino nel Comune di Camerino.
Era composto da tre figli maschi, requisito fondamentale per condurre
manualmente un fondo di quelle dimensioni, e da una femmina,
rispettivamente in ordine di età: Nazzareno, Ulderico, Gino e
Anna.
Era
una famiglia orfana di padre, prematuramente scomparso, non so se
avessero tutti contratto matrimonio quando avviarono questa attività,
nonno però raccontava che la più piccolina, Anna, mal
si adattava a quella vita piuttosto dura e quindi decisero di farla
educare in un collegio nel capoluogo di provincia che dista una
cinquantina di km. Quel distacco, come tutti i distacchi, non deve
essere stato piacevole, ma lo spirito di sacrificio non è mai
mancato nella nostra famiglia ed alla fine non sono mai venuti meno i
risultati.
Nel
caso specifico la zia Anna, Annina perché piccola di statura,
conseguì il diploma magistrale, insegnò a Macerata
conquistando una notevole stima ed una rispettata posizione sociale,
ma soprattutto è stata la mia mentore per farmi ingranare
negli studi, instaurando un rapporto epistolare, quasi settimanale
per abituarmi alla scrittura ed ai modi gentili, come si conviene in
una società civile. Diceva sempre che avrei dovuto essere di
esempio per gli altri nipoti. Nei pochi incontri che abbiamo avuto mi
trattava come un principe, mi accompagnava nei migliori negozi, mi
presentava come il suo primo nipote e mi acquistava regali, per lo
più articoli di abbigliamento.
Il
passaggio alle scuole medie è stato duro per me che venivo
dalla campagna e mi ero formato un carattere un po' poco
comunicativo, tanto diverso da quello vivace e preparato dei ragazzi
di città; lei mi procurò una supplente, sua ex allieva,
in grado di comprendere la mia cultura e di permettermi di aver
maggior profitto dalle lezioni che mi impartiva. Lei scelse anche
l'indirizzo da seguire nelle scuole superiori.
Mio
nonno era molto contento della premura mostrata da questa sua sorella
che per molto tempo e per motivi contingenti era rimasta lontana
dalla cultura rurale; non mancava di ricordare che il suo successo
era in parte dovuto anche al sostegno economico dato dai fratelli nel
periodo della vita collegiale. Dopo sposata i contatti erano stati
più frequenti perché il marito possedeva una bella
automobile, credo Fiat 509, amava la vita di campagna ed il modello
di famiglia agricola, la zia Annina, invece, era di indole riservata
e distaccata nonostante le mode esuberanti che cominciavano a
proliferarsi con l'avvento del fascismo.
Ebbe
due figlie entrambi professoresse, entrambi sposate con persone di
primo piano nel tessuto sociale maceratese, ed un nipote. Quando morì
al suo funerale ci andammo io e mio padre accompagnati da un amico
che possedeva una Fiat 500 chiamata topolino. Ora riposa nel deposito
di famiglia presso Urbisaglia, ridente cittadina che prende il nome
dal latino: 'urbis salviae', città della salvia. Mi sono molto
dilungato sulla zia Annina perché la credo, infrangendo la
regola che vede nel maschio più anziano il capo della famiglia
patriarcale, non l'unica ma una importante componente della mia
formazione iniziale che ancora mi accompagna nei miei giorni.
Adesso
mi corre l'obbligo di descrivere i ricordi degli altri componenti. Lo
zio Nazzareno sicuramente ricoprì la carica di capo per il
tempo in cui rimase nel podere. Era intelligente, astuto, di facile
comunicativa, affidabile. Per tutte queste qualità sarebbe
stato sprecato nel lavoro massacrante dei campi ed infatti svolse per
molto tempo il lavoro di fattore, in pratica un amministratore dei
fondi rustici di diversi proprietari che gli riconobbero stima e fama
in larga parte del territorio, anche a livello provinciale.
Era
sempre in movimento, forse i primi tempi, avrà usato quel
calesse trainato da cavalli che avevo trovato nella rimessa e con il
quale giocavo, poi fu il primo che portò nella casa rurale una
fiammante moto Guzzi 500 che risvegliò le menti dei figli e
nipoti maschi presenti e già grandicelli per sperimentare le
irrefrenabili emozioni. C'era Pietro, figlio, unico maschio, ma
ultimo di tre sorelle più grandi: 'Maria, Chiara detta
Chiarina poi abbreviata in Rinuccia, Laura detta Laurina' che avevano
lasciato la casa convolando a felici nozze.
Mio
padre Pacifico, primogenito di Ulderico, esperto di motori, il più
grande dei figli maschi, forse con l'ironia della classica volpe che
si consolava maldicendo se non riusciva a raggiungere il suo scopo,
raccontava che lo zio Nazzareno, detto Neno fece il primo viaggio in
moto da Sambucheto, vicino Macerata, a casa tenendo ingranata la sola
prima marcia, non sapendo come si facesse a cambiare; di conseguenza
all'arrivo' il motore era rovente ed emanava fumi da ogni parte. Già
tanto, aggiungo, che lo zio sapesse tenere l'equilibrio perché
di bici non se ne vedevano molte ed io, per poter imparare, dovetti
tirar giù dalla soffitta una vecchia Bianchi e ripararla.
Tutti temevano che mi rompessi l'osso del collo. Tuttavia la moto
piaceva anche a zio Venanzio e alle altre figlie di mio nonno
Ulderico che erano ancora in casa, in particolare alla zia Anna, di
carattere vivo, sportivo e forse anche un po' spericolato, mentre la
più piccola Nilde mostrava interesse per altre cose più
femminili: l'estetica, il ballo, la musica.
Per
completare il quadro delle figlie più grandi di nonno Ulderico
e nonna Fermina anche loro, all'epoca dei fatti, convolate a nozze,
cito, con i rispettivi consorti: Ersilia e Paolo, Marina e Lino,
trasferitesi rispettivamente nei pressi di Montecelio e Roma. Anche
su questi nuclei familiari dovrei dire molto per quanto concerne il
sostegno datomi in occasione del mio lungo peregrinare prima di
trovare una definitiva sistemazione a Roma con la mia famiglia.
Questo
lo dico per ribadire la forza di integrazione che conteneva la
famiglia patriarcale che va ben oltre la semplice definizione che
vede in essa un modello retrograde ed arcaico dove le libertà
e la crescita individuale era fortemente compromessa. Secondo me
erano le precarie condizioni economiche e sociali del periodo
postbellico a creare quelle situazioni di arretratezza e la famiglia
patriarcale ha contribuito a superarle nel migliore dei modi; come
pure a fronte dell' accresciuto benessere individuale dei nostri
giorni non ha fatto sempre seguito la ricchezza dei valori contenuti
nella famiglia.
Da
quanto fino ad ora detto emerge che la famiglia patriarcale, proprio
per la sua natura ampia, cioè composta da numerosi componenti,
tenuti uniti da uno scopo, in prevalenza quello della coltivazione di
un fondo non di proprietà, con un contratto di mezzadria dove
il compenso era l'abitazione per i componenti della famiglia e la
metà dei frutti del fondo, era molto esposta ai mutamenti
ambientali e sociali peraltro in rapida evoluzione. Già il
semplice fatto che non nascessero maschi era elemento perturbante e
causa di scissioni all'interno del nucleo familiare allargato che la
componeva.
L'avvento
della meccanizzazione, poi, determinò il crollo definitivo
della mezzadria ed il passaggio alla conduzione diretta, con una
breve parentesi nelle zone montane dove si sviluppò, con il
favore di una politica momentanea, la piccola proprietà
contadina che consentì alle famiglie agricole, ma sempre meno
patriarcali, di sopravvivere, non senza crescenti difficoltà,
fino alla definitiva scomparsa dei componenti più anziani. Le
nuove generazioni avviarono attività nel terziario,
artigianali e commerciali, favorite dal boom economico degli anni
'60, oppure, e questo è il mio caso, terminati gli studi e
conseguito il diploma, migrarono nei centri urbani più grandi
che richiedevano personale.
Tornando
a parlare della mia famiglia direi che il primo dei tre fratelli a
dover decidere per la divisione fu Gino che, guarda caso, aveva tre
figlie femmine: Maria, Ines e Amelia e che io, purtroppo, non ho
nemmeno conosciuto. Poi seguì Nazzareno che con la sua
prevalente attività di fattore aveva avuto l'opportunità
di acquisire un palazzo nel centro di Camerino ed un piccolo terreno
nelle immediate vicinanze, dove trasferì la sua famiglia per
il tempo necessario al figlio Pietro di trovare una nuova occupazione
in attività commerciali. Io ricordo, in particolare, che mio
nonno mi portò insieme a lui al capezzale di suo fratello
agonizzante, forse volendomi far comprendere come deve essere
affrontata la vita nei momenti più difficili. Dico pure che
non mancai di giocare un po' con la cugina Gabriella di quattro anni.
Mio
nonno ora era divenuto lui il capo della famiglia patriarcale ed
insieme alla nonna Fermina, ai due figli maschi e relative consorti,
mia madre e zia Lina, le ultime due figlie ancora da sposare, zia
Anna e zia Nilde, io e mio cugino Raoul, mia sorella Anna e mia
cugina Maria Rosita siamo rimasti nella casa colonica di Mergnano San
Savino fino al 1956. Questo periodo non é alieno di ricordi,
proverò a descrivere i più significativi. Tra questi,
c'era il matrimonio delle due zie Anna e Nilde e, come d'uso, il
primo pensiero di mia nonna era quello di provvedere al corredo
nuziale che veniva prevalentemente preparato e lavorato in casa.
Si
iniziava con la semina del lino e della canapa in primavera in
prossimità del campo denominato 'i rotelli' che aveva le
necessarie qualità per far crescere ed essiccare bene al sole
le coltivazioni. Di queste piante si scartava l'inflorescenza, o
forse si usavano come mangime per il pollame, non si conoscevano gli
effetti analgesici dei semi di canapa e non era proibita la
coltivazione, mentre i semi di lino venivano usati per impacchi come
antidolorifico, oggi sono largamente usati nell'alimentazione
biologica. Alla raccolta si confezionavano dei grossi fasci che
venivano portati a macerare nell'acqua del fiume Palente, che scorre
al confine con il campo allora denominato 'li piani', oggi
interamente coperto da impianti sportivi.
La
macerazione durava qualche mese, quindi ad Agosto dopo l'essiccazione
al sole, si estraeva la fibra con un attrezzo chiamato 'ciaola' dal
suono che emettevano le fibre, come se ciacolassero, cioè
discutessero mentre erano battute. Le fibre, annodate in mazzi,
venivano poi lavorate nei mesi invernali con la filatura e la
torcitura, sempre con attrezzi fatti in casa, 'la conocchia e lu
birillu' e con l'abilità di esperte mani femminili. Il filo
veniva attorcigliato in matasse e poi, con un altro attrezzo, 'lu
filarellu' si ottenevano dei rocchetti che entravano nella 'spoletta'
del telaio e costituivano la trama, mentre l'ordito era fatto da fili
di cotone acquistati in grossi pacchi alla fiera del 25 Agosto a
Castelraimondo.
Con
questi fili ed altrettanti attrezzi veniva montata la trama del
telaio. Mia madre e mia nonna erano le persone più adatte a
tessere la tela e, nei mesi invernali fino all'inizio della primavera
si alternavano, anche per lunga parte delle ore notturne, in questo
lavoro, riscaldandosi con catini di brace. Talvolta io andavo a far
compagnia a mia madre che mi faceva sedere al suo fianco e mi dava
qualche spiegazione, pregandomi di non avvicinarmi tanto per evitare
che mi colpisse con gli energici movimenti delle braccia.
Venivano
prodotti metri e metri di tessuto grezzo che poi, nei mesi
primaverili, dovevano essere sbiancati a base di lavaggi con la
'liscivia', un composto di sapone e cenere in cui si bolliva il
tessuto grezzo. Il lavaggio ed i risciacqui venivano fatti ancora
presso il fiume Palente, nei pressi di un vecchio Mulino dove le
acque erano poco profonde e si espandevano in larghe pozze cosparse
di grosse pietre sulle quali venivano battuti i teli.
Poi
c'era l'esposizione al Sole caldo di fine giugno che conferiva al
tessuto un bianco immacolato e spiccava da lontano sui prati ancora
verdeggianti. Qualche volta poteva accadere che mamma oca o mamma
papera, portando a passeggio la loro nidiata di giovani anatroccoli,
attratti dalla freschezza e dal candore di quei teli, andassero a
depositare le loro impronte, ma accadeva di rado perché mia
nonna, che li accudiva, sapeva dare i giusti comandi e loro li
rispettavano.
Quei
teli sarebbero poi diventati lenzuola ricamate ed altri indumenti del
corredo nuziale. Io ho ancora la fortuna di dormire su alcuni di
questi teli che, specialmente nei mesi caldi, danno una sensazione di
freschezza incomparabile con quelli commerciali.
Un
ultimo ricordo prima di chiudere lo vorrei riservare
all'abbigliamento femminile che è stato da sempre una
passione, ma anche una preoccupazione per la giusta scelta in
occasione delle feste ricorrenti, tenendo conto dei cambiamenti della
moda e delle sensazioni che il personaggio femminile voleva procurare
nelle persone che avrebbe incontrato.
Ebbene
il crogiolo in cui si fondevano e si realizzavano i sogni era il
laboratorio artigianale delle signorine Maria e Lucia, detta
Luscetta, quest’ultima, leggermente claudicante, era destinata
dalla sorella ai compiti prettamente esecutivi, infilare l'ago,
imbastire, scucire, adempiere alle faccende domestiche, mentre Maria
si riservava i compiti di consulenza alle clienti, aveva argomenti
convincenti per ciascun tipo di persona. Era difficile che le clienti
uscissero insoddisfatte, anche perché nel paese non vi era
concorrenza. Quando il lavoro era fatto partecipava in pompa magna,
insieme alla sorella, alle funzioni religiose, che erano il luogo
principale d'incontro, ed al termine, sulla scalinata della chiesetta
gremita di persone, si congratulava con ciascuna delle sue clienti
enfatizzando l'ottima figura dell'abito da loro confezionato.
Io
venivo spesso portato dalle mie zie o da mia madre e mia nonna a
questi incontri e avevo il tempo di memorizzare tutto, ed ero anche
divertito come si evince da questi particolari che sono una piccola
parte, e più scavo più affiorano.
Così,
nel piccolo borgo del mio paese rurale brillavano due stelline: le
sorelle Maria e Lucia, che facevano già parte di quel più
ampio universo del mondo della moda, a cui potrei aggiungere le
sorelle Cianni che, a Camerino, confezionavano camicie su misura ed
anch'io ho avuto il pregio di indossare, per finire citando, solo a
titolo di massima gloria, le sorelle Fendi delle quali, tra l'altro,
opera qui a Roma l'omonima fondazione, a rendere d'imperitura memoria
quel mondo galattico.
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