Nascita
di
Daniela Raimondi
Sposa
di un vecchio.
Sposa
bambina.
Madre
di Dio.
Il
figlio scendeva,
solcava
un cammino nella mia carne.
Sentivo
le ossa incrinarsi, i nervi tesi,
la
mia voce chiedeva pietà.
Il
mio corpo aveva cessato di appartenermi.
Ubbidiva
a mio figlio,
al
suo incedere verso la vita.
Con
me solo il fiato del bue e il ragliare dell’asina.
Un
ultimo, lunghissimo grido.
Prima
la testa, poi, come un pesce,
il
bambino uscì dal mio corpo.
Nacque
muto,
bagnato
di umori e di sangue.
Mio
figlio.
Mia
carne.
Un
corpo minuto
germinato
da un corpo di donna,
un
essere nuovo, perfetto,
coniato
nel buio,
bagnato
dalle mie acque.
Tagliai
ciò che ancora ci univa con un pugnale.
Strofinai
la sua carne con lavanda e col sale,
infine
lo avvolsi in una coperta.
Lo
fissavo, colma di meraviglia, incredula,
scordata
ogni doglia.
Adoravo
il suo viso, i capelli,
i
piccoli pugni.
Non
aveva i miei occhi, e non aveva i suoi,
ma
il latte sgorgò tiepido e denso.
Portai
la sua bocca al capezzolo bruno,
quietai
la sua fame.
E
in quel momento lui non fu più il Salvatore
ma
solo un bambino
ed
io,
io
fui solo una madre.
Io
sazia d’amore. Lui sazio di me.
Io
madre, lui figlio.
E
in quell’attimo anche Dio attese nell’ombra.
Attese
in silenzio, lasciandoci soli.
Da
Maria di Nazareth (Puntoacapo, 2015)
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