Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Narrativa generica  Noir  Storie di paese Prima Serie  I racconti del nonno  Fiabe  Horror  Storie di paese Seconda Serie  C'era una volta  Racconti di Natale 

  Racconti  »  I racconti del nonno  »  L'albero della cuccagna 07/04/2006
 

 

Quando il nonno raccontava, ascoltavo estasiato come se udissi le più belle fiabe, ma in verità non si trattava di invenzioni, ma di fatti reali, esperienze di vita vissuta, forse implementate con un po' di fantasia per sopperire al calo di memoria dovuto all'età.

Si trattava di episodi della sua vita, in tempo di pace ed in tempo di guerra, una specie di cronaca vera, lo spaccato di un'epoca.

E quello che mi appresto a ricordare è sintomatico delle condizioni di vita della povera gente ai primi del novecento.

 

 

Correva l'anno 1910 ed ero un ragazzino in piena pubertà; mi guardavo intorno e tutte, dico tutte, le fanciulle mi interessavano; nessuna mi sembrava brutta, anche perché morivo dalla voglia di abbracciarle e di fare quello che i grandi, con mezze frasi ed ammiccamenti, andavano ripetendo. Già lavoravo; ultimata la quinta elementare avevo cominciato ad andare in campagna a sgobbare sotto il sole dell'estate, sferzato dalla pioggia dell'autunno, battendo i denti per il freddo in inverno, ma con il cuore caldo e forte in primavera, ed accadde appunto in quella primavera, in occasione della festa del patrono. In paese c'era movimento, era venuta una giostra mossa da un povero ronzino; in programma c'erano le corse con i sacchi e, soprattutto, l'albero della cuccagna. Allora si mangiava una volta al giorno: un uovo con insalata, o un'insalata con un uovo, e così per sette giorni, per un mese, per un anno, per tutta la vita; qualche rara volta, per Pasqua o per Natale, si cambiava con una minestra di brodo di carne di pollo, carne poi che mangiavamo: ci sembrava in quelle occasioni di essere ricchi, ma già il giorno dopo ricomparivano nel piatto l'uovo e l'insalata. Scusami, mi stavo perdendo con il ricordo; eravamo dove? Ah, sì, all'albero della cuccagna, un lungo palo infisso nel terreno e cosparso di grasso con in cima una ruota di carro da cui pendevano in genere un paio di salami, una pancetta e, a volte, anche un prosciutto crudo; prelibatezze da ricchi, si diceva, e non per noi che eravamo poveri. Tuttavia, ai poveri era concesso di poter beneficiare di queste meraviglie, a patto che riuscissero ad arrampicarsi lungo il palo – e ti assicuro che non era facile – e ad afferrarle.

Nella competizione si misuravano tutti, perché troppo grande era il premio: carne, quella carne così indispensabile di cui sentivamo tanto il bisogno. Ci si allenava, a volte anche per mesi, ed io quell'anno mi sentivo in una forma smagliante.

La sera prima della gara, gironzolando intorno alla giostra, buttai gli occhi sulla Marianna, una ragazzina tutto pepe, con due splendidi occhi neri che ricambiarono maliziosi il mio sguardo. Mi feci avanti e “Ciao, Marianna, che fai da queste parti?”

“Giro.” “Giriamo insieme?” E lei annuì. Non c'era molto da vedere e ben presto ci stancammo della giostra che ruotava e del ronzino che stancamente la muoveva; mi avviai verso la campagna, tenendola per mano, e lei mi seguì. Appena fummo al buio l'abbracciai, la strinsi a me con tutta la forza che avevo e lei mi diede un bacio sul collo. Poi…non ti racconto altro: un giorno anche tu capirai e proverai le stesse emozioni; ti dico però una cosa che è importante per comprendere la storia: non facemmo quelle cose che facevano i grandi, perché lei si rifiutò, nonostante i miei tentativi, le mie suppliche; riuscii però a strapparle una promessa, anche se condizionata “Se domani riuscirai a salire sull'albero della cuccagna e mi porterai tutte quelle buone cose, sarò tua.”, e corse via ridendo.     

Giuro che quella notte non dormii; mi sentivo emozionato, mi sembrava di aver tagliato per primo il traguardo di una gara importante e, soprattutto, mi pareva di essere un grande e non un ragazzino di 15 anni.

Il giorno dopo, che era domenica, non si lavorò ed io passai il tempo ad allenarmi; andavo su e giù lungo quell'albero con una velocità che mi stupiva, assai maggiore di quella degli altri concorrenti, tranne uno, il Ratti, un uomo sui trent'anni, già sposato, con quattro figli da sfamare ed una moglie che non riusciva a dare il latte al quinto di soli pochi mesi.

Mi fissava mentre mi arrampicavo, scorgevo in quello sguardo una speranza rassegnata, e quando toccava a lui metteva tutte le sue forze; era veloce, ma non quanto me. La moglie, con i quattro bimbi a lato ed il quinto in braccio, lo osservava con trepidazione e gli ripeteva “Sta attento; non cadere; non farti male; non abbiamo che te.”

All'imbrunire gli allenamenti cessarono ed andammo a lavarci nel fosso dal grasso che ci avvolgeva.

Il Ratti mi venne vicino e, a bassa voce “ Ti prego, lascia che vinca io; mia moglie non ha più latte per il poco mangiare ed il piccolo potrebbe morire; hai tanti anni davanti tu, per vincere.” Non era una preghiera, era un'implorazione. Mi voltai a guardare sua moglie, con il bimbo attaccato al seno avvizzito e dissi solo “Ci penserò.

Ed infatti ci pensai fino all'ora della gara; davanti a me scorrevano due immagini: quella della Marianna che mi si concedeva e quella del Ratti che, trionfante, scendeva con i salumi. Non riuscii a prendere una decisione ed arrivai in quello stato alla tenzone. Prima che iniziasse la moglie del Ratti mi si accostò, mormorandomi “Non abbiamo che lui…”

Mi ritirai in un angolo a piangere: di fronte a me non c'era la Marianna, non c'era più nessuno, c'era solo l'immagine vivente delle sofferenze per la miseria, e così presi la mia decisione.

Quando toccò il mio turno, mi avvinghiai al legno come un felino, presi a salire con una velocità incredibile e quando ero quasi arrivato in cima finsi di scivolare e caddi quasi di sasso, fra le risate generali.

Rimasi ancora quel tanto che mi consentì di vedere la vittoria del Ratti, poi mi allontanai. Dietro un cespuglio mi attendeva la Marianna. “Sono scivolato, non so neppure io come ho fatto. “Lo so io e sono fiera di te”.

Vuoi sapere come andò a finire?

Valentina è il nome della nonna, ma è il suo secondo nome e il primo è, è?: è Marianna. 

 

 
©2006 ArteInsieme, « 014982640 »