Quando
il nonno raccontava, ascoltavo estasiato come se udissi le più belle fiabe, ma
in verità non si trattava di invenzioni, ma di fatti reali, esperienze di vita
vissuta, forse implementate con un po' di fantasia per sopperire al calo di
memoria dovuto all'età.
Si
trattava di episodi della sua vita, in tempo di pace ed in tempo di guerra, una
specie di cronaca vera, lo spaccato di un'epoca.
E
quello che mi appresto a ricordare è sintomatico delle condizioni di vita della
povera gente ai primi del novecento.
Correva l'anno 1910 ed ero un ragazzino in piena
pubertà; mi guardavo intorno e tutte, dico tutte, le fanciulle mi
interessavano; nessuna mi sembrava brutta, anche perché morivo dalla voglia di
abbracciarle e di fare quello che i grandi, con mezze frasi ed ammiccamenti,
andavano ripetendo. Già
lavoravo; ultimata la quinta elementare avevo cominciato ad andare in campagna
a sgobbare sotto il sole dell'estate, sferzato dalla pioggia dell'autunno,
battendo i denti per il freddo in inverno, ma con il cuore caldo e forte in
primavera, ed accadde appunto in quella primavera, in occasione della festa del
patrono. In paese c'era movimento, era venuta una giostra mossa da un povero
ronzino; in programma c'erano le corse con i sacchi e, soprattutto, l'albero
della cuccagna. Allora si mangiava una volta al
giorno: un uovo con insalata, o un'insalata con un uovo, e così per sette
giorni, per un mese, per un anno, per tutta la vita; qualche rara volta, per
Pasqua o per Natale, si cambiava con una minestra di brodo di carne di pollo,
carne poi che mangiavamo: ci sembrava in quelle occasioni di essere ricchi, ma
già il giorno dopo ricomparivano nel piatto l'uovo e l'insalata. Scusami, mi
stavo perdendo con il ricordo; eravamo dove? Ah, sì, all'albero della cuccagna,
un lungo palo infisso nel terreno e cosparso di grasso con in
cima una ruota di carro da cui pendevano in genere un paio di salami, una
pancetta e, a volte, anche un prosciutto crudo; prelibatezze da ricchi, si
diceva, e non per noi che eravamo poveri. Tuttavia, ai poveri era concesso di
poter beneficiare di queste meraviglie, a patto che riuscissero ad arrampicarsi
lungo il palo – e ti assicuro che non era facile – e ad afferrarle.
Nella
competizione si misuravano tutti, perché troppo grande era il premio: carne,
quella carne così indispensabile di cui sentivamo tanto il bisogno. Ci si
allenava, a volte anche per mesi, ed io quell'anno mi
sentivo in una forma smagliante.
La
sera prima della gara, gironzolando intorno alla giostra, buttai gli occhi
sulla Marianna, una ragazzina tutto pepe, con due splendidi occhi neri che
ricambiarono maliziosi il mio sguardo. Mi feci avanti e “Ciao, Marianna, che fai da queste parti?”
“Giro.”
“Giriamo insieme?” E lei annuì. Non c'era molto da vedere e ben presto ci
stancammo della giostra che ruotava e del ronzino che stancamente la muoveva;
mi avviai verso la campagna, tenendola per mano, e lei mi seguì. Appena fummo
al buio l'abbracciai, la strinsi a me con tutta la forza che avevo e lei mi
diede un bacio sul collo. Poi…non ti racconto altro: un giorno anche tu capirai
e proverai le stesse emozioni; ti dico però una cosa
che è importante per comprendere la storia: non facemmo quelle cose che
facevano i grandi, perché lei si rifiutò, nonostante i miei tentativi, le mie
suppliche; riuscii però a strapparle una promessa, anche se condizionata “Se
domani riuscirai a salire sull'albero della cuccagna e mi porterai tutte quelle
buone cose, sarò tua.”, e corse via ridendo.
Giuro
che quella notte non dormii; mi sentivo emozionato, mi sembrava di aver
tagliato per primo il traguardo di una gara importante e, soprattutto, mi
pareva di essere un grande e non un ragazzino di 15 anni.
Il
giorno dopo, che era domenica, non si lavorò ed io passai il tempo ad
allenarmi; andavo su e giù lungo quell'albero con una
velocità che mi stupiva, assai maggiore di quella degli altri concorrenti,
tranne uno, il Ratti, un uomo sui trent'anni,
già sposato, con quattro figli da sfamare ed una moglie che non riusciva a dare
il latte al quinto di soli pochi mesi.
Mi
fissava mentre mi arrampicavo, scorgevo in quello
sguardo una speranza rassegnata, e quando toccava a lui metteva tutte le sue
forze; era veloce, ma non quanto me. La moglie, con i quattro bimbi a lato ed
il quinto in braccio, lo osservava con trepidazione e gli ripeteva “Sta
attento; non cadere; non farti male; non abbiamo che te.”
All'imbrunire
gli allenamenti cessarono ed andammo a lavarci nel fosso dal grasso che ci
avvolgeva.
Il Ratti mi venne vicino e, a bassa voce “ Ti prego, lascia che vinca io; mia
moglie non ha più latte per il poco mangiare ed il piccolo potrebbe morire; hai
tanti anni davanti tu, per vincere.” Non era una preghiera, era
un'implorazione. Mi voltai a guardare sua moglie, con il bimbo attaccato al
seno avvizzito e dissi solo “Ci penserò.”
Ed infatti ci pensai fino all'ora della gara; davanti a me
scorrevano due immagini: quella della Marianna che mi si concedeva e quella del
Ratti che, trionfante, scendeva con i salumi. Non riuscii a prendere una
decisione ed arrivai in quello stato alla tenzone. Prima che iniziasse
la moglie del Ratti mi si accostò, mormorandomi “Non abbiamo che lui…”
Mi
ritirai in un angolo a piangere: di fronte a me non c'era la Marianna, non
c'era più nessuno, c'era solo l'immagine vivente delle sofferenze per la
miseria, e così presi la mia decisione.
Quando
toccò il mio turno, mi avvinghiai al legno come un felino, presi a salire con
una velocità incredibile e quando ero quasi arrivato in cima finsi di scivolare
e caddi quasi di sasso, fra le risate generali.
Rimasi
ancora quel tanto che mi consentì di vedere la vittoria del
Ratti, poi mi allontanai. Dietro un cespuglio mi attendeva la Marianna.
“Sono scivolato, non so neppure io come ho fatto.” “Lo
so io e sono fiera di te”.
Vuoi
sapere come andò a finire?
Valentina
è il nome della nonna, ma è il suo secondo nome e il primo è, è?: è Marianna.