“Che
hai nonno? Mi sembri triste…”
“E'
la giornata, fredda e nebbiosa, con l'umidità che penetra in queste ossa
stanche.”
“Raccontami
qualche cosa, la tua vita che sembra un romanzo, fallo per me.”
“Non
sono dell'umore giusto, ma questa giornata me ne
ricorda un'altra dell'ottobre del 1945. E va bene, racconterò di allora”
Era
umido e freddo come oggi. La guerra era finita da pochi mesi, ma se non c'era
più la paura delle bombe c'era il solito problema della miseria, che mi ha
accompagnato per tutta la vita. E miseria non è solo non potersi comprare da
mangiare, è ancora peggio: è come vagare in un deserto senza una meta, è avere
la certezza che nulla potrà cambiare, che l'assillo quotidiano che c'è stato
ieri ci sarà anche oggi, domani, dopodomani e così per tutti i giorni a venire.
Ho
sempre davanti gli occhi le persone che hanno come fedele compagna la miseria:
sono spente, rassegnate, impotenti.
La
nonna era qualche giorno che non stava bene: una febbre iniziata con poche linee era via via cresciuta ed il dottore continuava a dire che era un
po' d'influenza, un comune malanno di stagione. Poi però la temperatura aveva
preso ad aumentare vertiginosamente: 39, 40 gradi; e l'accompagnava una tosse
roca. L'abbiamo portata all'ospedale: broncopolmonite, mi hanno detto sotto
voce, e poi il dottore mi
ha appoggiato una mano sulla spalla ed ho capito tutto. Sono
uscito nel corridoio ed ho appoggiato la testa al muro. Trent'anni
insieme, a lottare, a crescere i figli, ma sempre uniti, trent'anni
di miseria, ma anche di felicità, perché non è la ricchezza che ti rende
felice, è amare ed essere riamato. Non poteva finire così, in un letto
sgangherato di ospedale, in uno stanzone che puzzava di disinfettante. E allora
sono rientrato nell'ambulatorio…
“Dottore,
non si può proprio fare nulla? La prego, mi dica qualche cosa, la supplico…”
“E'
molto debole e la malattia è devastante; direi che non ci sono cure, o forse…”
“Forse,
cosa? Mi dica, sono disposto a tutto.”
“Gli
americani hanno un prodotto che cura le infezioni, e questa è un'infezione: si
chiama penicillina.”
“Penicillina?
Proviamo questo prodotto, proviamo…”
“Non
lo abbiamo nella farmacia e c'è solo sul mercato nero, a prezzi proibitivi. Si
vende in fiale da iniettare per via intramuscolare. Se vogliamo fare un
tentativo, ma senza certezza di risultato, direi che occorrono sei fiale: ieri
costavano… costavano uno sproposito: Lire
centomila cadauna, cioè in totale Lire seicentomila..”
“
Seicentomila?” e mi caddero le braccia. “Seicentomila, ma è un'enormità, io
prendo ventimila lire al mese e non bastano neppure
per il mangiare…”
“Non
so che dirle, ha tutta la mia comprensione.”
“Quanto
tempo ho?”
“Come?”
“Sì,
per quando al massimo Lei deve avere le fiale?”
“Prima
possibile, e comunque non oltre domani pomeriggio.”
“Va
bene, va bene”
Uscii
come tramortito, barcollando e con il chiodo fisso di trovare quei soldi. Ma
dove? Non avevamo una lira da parte e quelli che conoscevo erano tutti nelle
stesse condizioni, se non peggio.
Tornai
a casa, impietrito, i vicini capirono che era successo qualche cosa di grave e
vollero sapere. Raccontai piangendo, anche delle seicentomila lire, e mi misero
una mano sulla spalla.
Mi buttai sul letto,
affranto, cercando un po' di quiete per riordinare le idee e sperando in un
improbabile colpo di genio, ma dalla strada veniva un rumore incessante di
merci trasportate, di mobili spostati. Che diavolo succedeva? Mi affacciai alla
finestra: c'erano i Bianchi che mettevano su un carretto la loro vecchia
cassapanca, l'unico mobile che avevano di qualche
valore. Più in là, i Marchesi si caricavano sulle spalle dei materassi e la
signora Silvia, di cui non riesco mai a ricordarmi il
cognome, spingeva una carrozzella da neonato con sopra qualche chincaglieria.
“Ma che fanno! Si mettono a traslocare oggi, e poi chissà dove andranno, con le
poche case disponibili!” Mi ritrassi, perché ormai il fermento interessava
tutta la via: gente che stava lì da anni, che conoscevo da una vita, e che ora
di colpo se ne andava. Mi sembrava di impazzire: la nonna là in ospedale, già
quasi in agonia, io a casa a pensare all'impossibile, e tutti quelli che se
andavano. Era peggio di un incubo, anche se speravo che tutto fosse solo un
sogno.
Cominciai
a fare un po' di conti: se impegno questo mi possono dare tot, e per quest'altro tot,
ma alla fine la cifra che risultava era drammaticamente inferiore al
necessario. Non avevo nulla da poter dare in garanzia e uno strozzino mi
avrebbe riso in faccia… cercare qualcun altro che mi prestasse i soldi, sì, ma
chi, chi, se tutti quelli che conoscevo erano
squattrinati!
Gocce
di sudore mi scendevano dalla fronte e la testa mi scoppiava. Ritornai a letto
e, probabilmente sfinito, mi addormentai.
Poi
qualcuno bussò alla porta: mi alzai intorpidito ed andai ad aprire. Lungo le
scale c'era una moltitudine: i Bianchi, i Marchesi, la signora Silvia, tutto il
vicinato.
Che
fossero venuti a salutarmi prima di andarsene?
Il
brusio cessò quando si fece avanti il capofamiglia dei
Bianchi.
“Senti Pietro, noi vogliamo come te che tua moglie
viva; siete due gran brave persone, siete come di famiglia per tutti; lo sai
che siamo poveri come te ed allora abbiamo fatto una colletta, ma non siamo
arrivati a seicentomila lire, anzi siamo appena arrivati alla metà. Però si può, si deve tentare; tienile e speriamo
bene…”
“Non
so cosa dirvi, ma io quando mai potrò restituirvi questi soldi?”
“Non
importa; quando vorrai e se potrai; quel che conta è che tua moglie guarisca.”
E
se ne andarono in silenzio.
Quella
povera gente aveva impegnato tutto quel poco che aveva ed io seguii
il loro esempio: portai anche il letto al Monte di Pietà.
Alla
fine riuscii a comprare quattro fiale, ma si vede che la solidarietà dei poveri
è apprezzata in cielo e queste bastarono.
Mi
sento ora in debito con tutti, anche perché non sono in grado di ripagarli;
adesso capisci perché la porta di casa mia è sempre aperta: loro non vengono,
ma quello che ho qua è per loro.