Nel corso della prima guerra mondiale si combatté
molto, e duramente, anche sulle alte cime; i crinali furono contesi aspramente
dai due contendenti e le difficoltà del terreno, le condizioni climatiche
repentinamente mutevoli e l'alta quota determinarono perdite incalcolabili.
Sono passati tanti anni da quando
il nonno mi ha lasciato ed io ero ancora bambino, ma non ho dimenticato i suoi
racconti di vita, le esperienze drammatiche che lo coinvolsero in quella grande
tragedia che lo videro umile alpino combattere sulle nevi eterne dell'Adamello.
Quello che mi appresto a raccontare è un episodio
che al nonno, nel rammentarlo, provocava un'emozione così forte da riuscire a
trasmetterla anche a me e che tuttora provo, per la nota dolente che lo
contraddistingue.
L'anno, mi pare fosse il 1916. La guerra era già entrata nel secondo anno e
le nostre speranze di una rapida vittoria erano già svanite. Eravamo partiti da
Mantova in otto ed ero rimasto solo io (Cavedaschi
era caduto nei primi giorni, Moretti non si era più svegliato una mattina ed il
freddo se l'era portato con sé, gli altri… gli altri? Sì, gli altri non mi
erano sconosciuti, ma ho imparato presto che è meglio dimenticare l'amicizia
per evitare la sofferenza per la perdita di un caro compagno).
Eravamo incavernati su un bastione di roccia che guardava sul
ghiacciaio del Mandrone, uno spazio angusto, scavato
con il piccone, vivevamo in mezzo ai nostri stessi escrementi. Si mangiava ogni
tanto, quando la corvé riusciva a raggiungerci, e il
freddo era sempre intenso e non potevi dormire più di un'ora di seguito,
altrimenti ti si congelavano gli arti.
Gli austriaci erano
dall'altra parte, fra le rocce fronteggianti, ad una distanza non superiore ai 200 metri, in una posizione
di fatto imprendibile, perché noi avremmo dovuto
uscire dalla caverna, calarci con le funi sul bordo del ghiacciaio,
attraversarlo, aggirando i crepacci, e risalire il pendio per attaccare il
nemico. E la stessa cosa era per loro: di fatto, eravamo entrambi immobilizzati
e le scaramucce quotidiane si concretizzavano in salve di fucileria e nei tiri
dei cecchini. Nonostante questo, le perdite erano elevate da entrambe le parti
per l'inclemenza del tempo, per il freddo, per il vestiario inadeguato e per il
cibo, poco e di poca sostanza.
Ricordo ancora: era un
giorno di aprile. La primavera, che in valle rinverdiva tutto, da noi non si
avvertiva e solo il sole, più alto, ci avvisava della nuova stagione. Era quasi
sera e le cime riverberavano della luce rossastra dell'astro che calava: una
visione stupenda contrastante con l'immane tragedia. Su di noi era scesa una
malinconia indicibile nell'emozione provocata dallo spettacolo della natura.
Andavano riaffiorando i ricordi della casa lontana, dei nostri cari, della vita
di ogni giorno prima della guerra, insomma della normalità così noiosa quando c'è, ma così agognata quando manca. Garrusu, un sardo piccolino e sempre con gli occhi tristi,
si alzò e cominciò a cantare, prima con voce bassa, poi sempre più forte: erano
parole che rievocavano giorni lontani, donne che andavano a prender acqua alla
fontana, scene di vita di un paese come tanti. Ascoltavamo in silenzio, gli
occhi umidi, e quando Garrusu finì notai che tutti,
me compreso, avevano le guance bagnate. Nessuno disse nulla, nessuno applaudì:
la commozione aveva preso tutti, e non solo noi. Dall'altra parte iniziò un
coro incomprensibile per la lingua diversa, ma la melodia ci percuoteva il
cuore, univa i nostri animi a quelli degli ignoti cantori. Il tenente, che
parlava un po' il tedesco, ogni tanto borbottava, traduceva: “Mia sposa lontana
che aspetti il tuo uomo….; casa, casa mia, quanto sei
bella…”. Poi si interruppe singhiozzando. Il canto cessò ed allora dalla
trincea nemica si levò un grido “Taliani, cantate
ancora e che oggi non ci sia guerra”. E Garrusu
riprese con un'altra canzone e quando finì cominciarono gli altri; l'intermezzo
musicale andò avanti per un paio d'ore, fino a quando
il buio avvolse tutte le cime, le valli, le caverne, le trincee, penetrò negli
uomini, accrebbe la loro angoscia, devastò i loro cuori. Poi, fu tutto silenzio
e le stelle presero a brillare.
Garrusu si rannicchiò in un
angolo, poi mi si avvicinò: “Fai tu la guardia per primo?” “Sì” “Non riesco più
a stare in questo posto; voglio, devo tornare a casa.”
“Ma come farai? Se anche riuscissi a calarti, a costeggiare il ghiacciaio ed a
scendere al Tonale, là i nostri ti prenderebbero e per te sarebbe la morte.” Non rispose, ma quel silenzio, quegli occhi cupi e
disperati, parlavano più di qualsiasi discorso.
Appena iniziato il turno
di guardia, lo vidi scivolare accanto a me, gettare la fune, aggrapparsi ad essa e balzare oltre il parapetto. Mi parve di vederlo
arrivare alla base del bastione, poi non scorsi più nulla. In cuor mio pregavo
perché Garrusu ce la facesse e, quando sorse il sole,
pur nel timore dei cecchini, mi affacciai e sotto non vidi nessuno. Ne fui
contento, per lui, per me, per tutti, perché se tutti, noi e gli austriaci, ci
fossimo ammutinati la guerra sarebbe finita, saremmo tornati a casa e la pace
sarebbe tornata nei nostri cuori.
Al tenente dissi che Garrusu si era affacciato ed era caduto; non so se mi credette, però non volle guardar giù.
Gli anni passarono e nel
novembre del 1918 ci fu l'armistizio. Ci calammo giù dal bastione con le corde
con una felicità che mai potrò dimenticare; gli
austriaci ci vennero incontro sul ghiacciaio, lentamente, nel timore dei
crepacci.
“Taliani,
venite, in questo crepaccio c'è qualche cosa.” la voce mi fece trasalire. Andammo, e in effetti, ad una
profondità di circa tre metri, si vedeva qualche cosa che sembrava un fagotto.
Ci calammo e quegli stracci erano una divisa d'alpino che racchiudeva un povero
corpo, ancora ben conservato. Garrusu, irrigidito,
sembrava guardarci stringendo in mano qualche cosa: una fotografia di una donna
con un bimbo in fasce.
Italiani ed austriaci se
ne stavano muti all'intorno: Garrusu aveva ritrovato
la sua casa in quella gelida notte d'aprile.