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  Racconti  »  Storie di paese Prima Serie  »  La grande piena 01/06/2006
 

Correva il novembre 1951, tredici mesi esatti da che si erano concluse le elezioni amministrative comunali che avevano visto la vittoria, se pur per pochi voti, della lista civica, di fatto creata e sostenuta dalla Democrazia Cristiana. Anche in quell'occasione il Fronte Popolare, riunito sotto l'insegna di Civiltà e Progresso, aveva fallito, nonostante l'attivismo a tutto campo del Guercio. I motivi di questa sconfitta erano molteplici, ma su tutti pesava la personalità del sindaco della lista vincitrice, il prof. Teofilo Romani, considerato, non a torto, il cittadino più illustre. Laureato in filosofia a pieni voti, insegnante della stessa al liceo classico della vicina città, era l'autore di un saggio su Sant'Agostino che aveva attirato l'attenzione del Vaticano al punto da meritare un'ampia e positiva recensione sull'Osservatore Romano.

Benché non fosse politicizzato di fatto gli fu imposto di candidarsi, cosa che fece con una certa riottosità, perché uomo avulso dai problemi contingenti del mondo, sempre assorto nei suoi pensieri, tutto lavoro, libri e chiesa. Poco importava che si curasse assai di rado della moglie e che questa, insoddisfatta, lo tradisse; la circostanza gli era nota, ma il suo quasi fanatismo religioso gli impediva di prendere, anche solo in considerazione, l'ipotesi di una separazione.

Così la coppia era assidua alle messe festive, ma poi, usciti di chiesa, ognuno se ne andava per la sua strada, il che voleva dire per lei gli appuntamenti con gli amanti e per lui le lunghe letture nella biblioteca di casa.

La sua astrazione dai problemi correnti era altresì un vantaggio per gli altri eletti della sua lista, per quegli assessori che tranquillamente facevano solo i loro comodi, come il geom. Francesco Archibugi, delegato all'urbanistica, titolare di una ditta di costruzioni e quindi in chiaro conflitto di interessi. Appena assunto il suo mandato, aveva fatto briciole del progetto del precedente governo, e con la scusa di migliorare la viabilità interna e di modernizzare il paese si era costruito un piano regolatore a hoc. Erano iniziati così gli espropri che avevano interessato una decina di famiglie, guarda caso quelle che avevano casa proprio in centro. Nella circostanza, il geometra con una sensibilità rara si era accollato l'onere di sistemare gli sfrattati in una nuova palazzina in corso di costruzione, ultimata in fretta e furia nell'ottobre del 1951, con un'inaugurazione in pompa magna.

Presenti tutti i consiglieri comunali e anche il sindaco, il parroco, Don Zeffirino, aveva impartito la benedizione all'opera e già nell'occasione si era potuto notare l'eccelsa qualità della costruzione, poiché gli schizzi dell'aspersorio, raggiunti i muri, avevano quasi istantaneamente sciolto l'intonaco, mettendo a nuda il rosso dei mattoni sottostanti. Le piogge di quell'autunno poi avrebbero fatto il resto, con gli inquilini dell'ultimo piano a raccogliere in secchi l'acqua che filtrava dal soffitto e quelli del piano terra intenti invece a combattere con i riflussi dello scarico fognario.

Si è parlato di pioggia e quello fu un anno ricco d'acqua, anche troppa. Già dai primi di novembre il Po cominciò ad ingrossarsi, dapprima in modo quasi impercettibile, poi dal giorno 11 in maniera evidente. Più l'acqua cresceva, più serpeggiava la paura, ma, a parte l'istituire delle ronde di controllo anche notturne, non vennero presi dalle autorità altri provvedimenti. Fu proprio in questa occasione che ancora una volta emerse lo spirito organizzativo del Guercio.

Grazie a un amico ingegnere, che aveva ispezionato con lui gli argini, furono individuati i punti critici, che avrebbero dovuto essere rafforzati, almeno con dei sacchi riempiti di terra, ma le autorità puntualmente disattesero le richieste in tal senso.

E il Po si gonfiava sempre di più, sbattendo contro i vecchi piloni del ponte ferroviario che gemeva sotto quella spinta.

Finalmente, alla sede provinciale della Democrazia Cristiana si accorsero del problema e fu dato ordine al sindaco, prof. Teofilo Romani, di provvedere con la massima urgenza. Il poveraccio, che manco s'era accorto di tutti quei giorni di pioggia, delegò l'incarico all'assessore all'urbanistica che non trovò di meglio che abbozzare un progetto di sfollamento del tipo “Si salvi chi può”.

Don Zeffirino non poté non accorgersi di questo sfacelo e pensò bene di interessare l'unico che avrebbe potuto fare qualche cosa.

L'incontro avvenne dietro la canonica e fu incisivo e rapido, come richiedeva la situazione.

-         Annibale, con la politica ci siamo tirati la zappa sui piedi, con un sindaco onesto, ma incapace, e un assessore all'urbanistica capace, ma disonesto. E' per il bene di tutti che ti chiedo di trovare una soluzione.

Il Guercio fissò con l'unico occhio il parroco, si grattò il mento, poi rispose – E va bene, ma lo faccio perché sono parte di questo paese, perché il pericolo è comune. Organizzerò i miei uomini, ma mi servono degli aiuti: ho bisogno di terra, di sacchi che possano contenerla, di autocarri che la portino sull'argine dove dirò io, e tutta questa roba me la deve dare chi ce l'ha, cioè quel porco del geom. Archibugi.

-         Non preoccuparti, provvedo subito.

E infatti, dopo nemmeno due ore, il responsabile di cantiere del geometra si mise a disposizione del Guercio.

Come fosse riuscito Don Zeffirino a convincere l'imprenditore non si seppe mai, anche se qualcuno malignò, ipotizzando una sorta di ricatto per tutta quella ricchezza che gli era venuta dalla guerra.

Il Guercio si mise all'opera e, grazie a un rapido passa parola, riuscì a raccogliere intorno a sé un migliaio di volenterosi.

Li divise in squadre di sorveglianza e di pronto intervento e prese ad andar avanti e indietro sull'argine pedalando come un dannato, misurando spesso il livello dell'acqua.

Il giorno successivo la situazione si fece quasi all'improvviso di assoluta drammaticità; l'acqua correva con un rumore sinistro, sbatteva contro gli argini nelle anse, distruggeva sistematicamente tutti i pennelli, strappava alberi dalle rive, si allargava nelle golene. Portava con sé un incredibile varietà di rottami, quali tronchi, barche e barconi, usati poi come arieti contro le sponde, quasi che il fiume cercasse disperatamente una via di fuga dove poter espandersi.

Ogni tanto, anche a distanza di qualche centinaio di metri, l'acqua riusciva a passare sotto gli sbarramenti ed esplodeva in giganteschi fontanazzi, prontamente circoscritti dagli uomini del Guercio con i sacchi.

Sotto una pioggia incessante, quasi immersi nel fango, questi sconosciuti volontari avevano ben poco tempo per mangiare e per dormire e ogni tanto capitava chi, fra i meno robusti, si lasciasse cadere a terra, vinto dalla stanchezza e dallo sconforto.

Il giorno 13 novembre il Guercio cominciò a pensare che “Il si salvi chi può” restasse l'unica possibile soluzione; infatti, l'acqua già lambiva la sommità dell'argine e, se non ci fossero stati i sacchi di terra, si sarebbe riversata con tutta la sua furia e potenza a inondare la valle, abbattendo case, distruggendo raccolti, rendendo lunare il paesaggio della fertile pianura padana.

Nel primo pomeriggio fu raggiunto dal sindaco.

-         Come va Annibale?

-         Come vuoi che vada…lo vedi anche tu; se cresce con lo stesso ritmo delle ultime ore non basta un muro di sacchi alto tre metri.

-         Mi devi scusare, se sono un incapace. Ho deciso che, finita questa catastrofe, mi dimetto e cedo il mio posto a te.

-         Ma dai! Lo sai che non è possibile, anche perché siamo di partiti opposti.

-         E allora, come posso fare per dare una mano?

-         Teofilo, non so se conterà, ma fa l'unica cosa che sai fare bene. Va in chiesa e prega, prega continuamente e speriamo che ci sia qualcuno che ti ascolti.

Verso sera cominciarono ad arrivare dalla città gli autocarri dell'esercito per portare in salvo la popolazione. Il Guercio, però, non si diede per vinto e scongiurò il comandante di mettere i mezzi a disposizione per quella grande battaglia. Questi parlottò via radio con il suo comando e poi diede la sua disponibilità.

C'era un punto, vicino all'argine maestro, che più di tutti preoccupava il Guercio. Lì il fiume faceva una curva stretta e la velocità e la massa dell'acqua sbattevano sempre nello stesso posto. Le osservazioni, più volte effettuate durante il giorno, dimostravano chiaramente che era in corso un'erosione impressionante. Ci sarebbero voluti un bel po' di massi, precipitati in acqua, per vincere la forza degli elementi, ma questi non c'erano e allora il Guercio ne combinò una delle sue.

Propose infatti al capitano che comandava le truppe di soccorso di utilizzare, al posto dei massi, i dieci autocarri che aveva a disposizione. Questi ovviamente rifiutò, ma il Guercio, che aveva previsto la risposta, gli puntò la sua vecchia pistola da partigiano, dicendogli:

-         Vuoi che li butti in acqua con il tuo cadavere, o che li spingiamo dentro assieme?

La risposta fu del tutto ovvia e insieme precipitarono nel fiume tutti e dieci gli autocarri.

La notte trascorse febbrilmente, con il Guercio, che ormai non dormiva da 48 ore, intento ad andare su e giù, controllando, verificando, impartendo ordini.

Si giunse così all'alba, con l'acqua ormai trattenuta a stento dagli infradiciati sacchi di sabbia.

Il Guercio si mise in disparte, dietro una pianta; guardò il suo paese, le vecchie case che avevano visto la sua infanzia, l'officina dove aveva imparato a lavorare, la chiesa con il campanile danneggiato dai fulmini, e si mise a singhiozzare. Non gli importava più del partito, della sua attività, perché da lì a poco il suo mondo sarebbe naufragato. Si accorse allora che la pioggia stava cessando e che un pallido sole cercava di affacciarsi nel cielo grigio. Udì il cinguettio di un passero, un suono debole e rimase stupito, perché non si sentiva più il cupo mugghiare del fiume. Corse all'argine, si sporse oltre i sacchi e guardò in basso. Incredibile, ma vero: il livello stava scendendo. Con quanta forza gli era rimasta gridò: - Cala! Cala! La piena è passata!

E lungo tutti gli argini, in ogni paese, come un tam tam, il grido fu ripetuto, tanto da diventare un unico coro, in concorrenza con le campane che suonavano a festa.

Il sindaco urlò anche lui, anzi gridò al miracolo, convinto che lo fosse.

La radio intanto gracchiava dicendo di tre grosse falle prodottesi negli argini maestri nella zona di Occhiobello, con l'acqua che trovava sfogo nelle basse terre del Polesine, provocando numerose vittime e danni incalcolabili.

Il Guercio rientrò a casa: l'attendeva la moglie che l'abbracciò e lo sostenne fino al letto, dove restò, quasi inanimato, per 24 ore.

Il grande pericolo era passato, il fiume lentamente ritornava alla normalità, ma la storia non finisce qui.

Infatti, il capitano dell'esercito dovette giustificare la sparizione dei dieci autocarri e ovviamente raccontò delle minacce del Guercio. Lo vennero a prendere una mattina i carabinieri e, invero a malincuore, lo condussero alle carceri della città. Fu riconosciuto colpevole di svariati reati e rinviato a giudizio. Il processo, nonostante l'epoca refrattaria all'incalzare delle notizie, assunse una notorietà incredibile, vista anche la figura politica dell'imputato.

C'era anche da considerare il gesto eroico dell'aver contribuito al salvataggio di tante vite umane e così dall'alto si decise che non conveniva a nessuno esacerbare gli animi.

Ci furono quindi pressioni sulla Pubblica Accusa e sui giudici e infine si trovò la soluzione, che avrebbe salvato capra e cavoli: non doversi ulteriormente procedere, perché l'imputato aveva agito in stato di necessità e nel comune interesse.

Insomma, poco ci mancò che si arrivasse a un finale da fiaba, con la fatidica frase “tutti vissero felici e contenti”.

Il sindaco rimase al suo posto, come l'assessore all'urbanistica, il Guercio ritornò alla sua officina, il capitano fu promosso maggiore, ma ci vollero anni per sistemare i danni nel Polesine e, soprattutto, nessuno poté rimediare alle 84 vittime della grande piena.

                

 

 

 

 

 
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