Correva
il novembre 1951, tredici mesi esatti da che si erano concluse le elezioni
amministrative comunali che avevano visto la vittoria, se pur per pochi voti,
della lista civica, di fatto creata e sostenuta dalla Democrazia Cristiana.
Anche in quell'occasione il Fronte Popolare, riunito
sotto l'insegna di Civiltà e Progresso, aveva fallito, nonostante l'attivismo a
tutto campo del Guercio. I motivi di questa sconfitta erano molteplici, ma su
tutti pesava la personalità del sindaco della lista vincitrice, il prof.
Teofilo Romani, considerato, non a torto, il cittadino più illustre. Laureato
in filosofia a pieni voti, insegnante della stessa al liceo classico della
vicina città, era l'autore di un saggio su Sant'Agostino
che aveva attirato l'attenzione del Vaticano al punto da meritare un'ampia e
positiva recensione sull'Osservatore Romano.
Benché
non fosse politicizzato di fatto gli fu imposto di
candidarsi, cosa che fece con una certa riottosità, perché uomo avulso dai
problemi contingenti del mondo, sempre assorto nei suoi pensieri, tutto lavoro,
libri e chiesa. Poco importava che si curasse assai di rado della moglie e che
questa, insoddisfatta, lo tradisse; la circostanza gli era nota, ma il suo
quasi fanatismo religioso gli impediva di prendere, anche solo in
considerazione, l'ipotesi di una separazione.
Così
la coppia era assidua alle messe festive, ma poi, usciti di chiesa, ognuno se
ne andava per la sua strada, il che voleva dire per lei gli appuntamenti con
gli amanti e per lui le lunghe letture nella biblioteca di casa.
La
sua astrazione dai problemi correnti era altresì un vantaggio per gli altri
eletti della sua lista, per quegli assessori che tranquillamente facevano solo
i loro comodi, come il geom. Francesco Archibugi, delegato all'urbanistica,
titolare di una ditta di costruzioni e quindi in chiaro conflitto di interessi.
Appena assunto il suo mandato, aveva fatto briciole del progetto del precedente
governo, e con la scusa di migliorare la viabilità interna e di modernizzare il
paese si era costruito un piano regolatore a hoc. Erano iniziati così gli
espropri che avevano interessato una decina di famiglie, guarda caso quelle che
avevano casa proprio in centro. Nella circostanza, il geometra con una
sensibilità rara si era accollato l'onere di sistemare gli sfrattati in una
nuova palazzina in corso di costruzione, ultimata in fretta e furia
nell'ottobre del 1951, con un'inaugurazione in pompa magna.
Presenti
tutti i consiglieri comunali e anche il sindaco, il parroco, Don Zeffirino, aveva
impartito la benedizione all'opera e già nell'occasione si era potuto notare
l'eccelsa qualità della costruzione, poiché gli schizzi dell'aspersorio,
raggiunti i muri, avevano quasi istantaneamente sciolto l'intonaco, mettendo a
nuda il rosso dei mattoni sottostanti. Le piogge di quell'autunno
poi avrebbero fatto il resto, con gli inquilini dell'ultimo piano a raccogliere
in secchi l'acqua che filtrava dal soffitto e quelli del piano terra intenti
invece a combattere con i riflussi dello scarico fognario.
Si
è parlato di pioggia e quello fu un anno ricco d'acqua, anche troppa. Già dai
primi di novembre il Po cominciò ad ingrossarsi, dapprima in modo quasi
impercettibile, poi dal giorno 11
in maniera evidente. Più l'acqua cresceva, più
serpeggiava la paura, ma, a parte l'istituire delle ronde di controllo anche
notturne, non vennero presi dalle autorità altri
provvedimenti. Fu proprio in questa occasione che ancora una volta emerse lo
spirito organizzativo del Guercio.
Grazie
a un amico ingegnere, che aveva ispezionato con lui gli argini, furono
individuati i punti critici, che avrebbero dovuto
essere rafforzati, almeno con dei sacchi riempiti di terra, ma le autorità
puntualmente disattesero le richieste in tal senso.
E
il Po si gonfiava sempre di più, sbattendo contro i vecchi piloni del ponte
ferroviario che gemeva sotto quella spinta.
Finalmente,
alla sede provinciale della Democrazia Cristiana si accorsero del problema e fu
dato ordine al sindaco, prof. Teofilo Romani, di provvedere con la massima
urgenza. Il poveraccio, che manco s'era accorto di tutti quei giorni di
pioggia, delegò l'incarico all'assessore all'urbanistica che non trovò di
meglio che abbozzare un progetto di sfollamento del tipo “Si salvi chi può”.
Don
Zeffirino non poté non accorgersi di questo sfacelo e pensò bene di interessare
l'unico che avrebbe potuto fare qualche cosa.
L'incontro
avvenne dietro la canonica e fu incisivo e rapido, come richiedeva la
situazione.
-
Annibale, con
la politica ci siamo tirati la zappa sui piedi, con un sindaco onesto, ma incapace, e un assessore all'urbanistica capace,
ma disonesto. E' per il bene di tutti che ti chiedo di trovare una soluzione.
Il Guercio fissò con l'unico occhio il parroco, si
grattò il mento, poi rispose – E va bene, ma lo faccio perché sono parte di
questo paese, perché il pericolo è comune. Organizzerò i miei uomini, ma mi
servono degli aiuti: ho bisogno di terra, di sacchi che possano contenerla, di
autocarri che la portino sull'argine dove dirò io, e tutta questa roba me la
deve dare chi ce l'ha, cioè quel porco del geom.
Archibugi.
-
Non
preoccuparti, provvedo subito.
E infatti, dopo nemmeno due ore, il responsabile di cantiere
del geometra si mise a disposizione del Guercio.
Come
fosse riuscito Don Zeffirino a convincere l'imprenditore non si seppe mai,
anche se qualcuno malignò, ipotizzando una sorta di ricatto per tutta quella
ricchezza che gli era venuta dalla guerra.
Il
Guercio si mise all'opera e, grazie a un rapido passa parola, riuscì a
raccogliere intorno a sé un migliaio di volenterosi.
Li
divise in squadre di sorveglianza e di pronto intervento e prese ad andar
avanti e indietro sull'argine pedalando come un dannato, misurando spesso il
livello dell'acqua.
Il
giorno successivo la situazione si fece quasi all'improvviso di assoluta
drammaticità; l'acqua correva con un rumore sinistro, sbatteva contro gli
argini nelle anse, distruggeva sistematicamente tutti i pennelli, strappava
alberi dalle rive, si allargava nelle golene. Portava con sé un incredibile
varietà di rottami, quali tronchi, barche e barconi, usati poi come arieti
contro le sponde, quasi che il fiume cercasse
disperatamente una via di fuga dove poter espandersi.
Ogni
tanto, anche a distanza di qualche centinaio di metri, l'acqua riusciva a
passare sotto gli sbarramenti ed esplodeva in giganteschi fontanazzi,
prontamente circoscritti dagli uomini del Guercio con i sacchi.
Sotto
una pioggia incessante, quasi immersi nel fango,
questi sconosciuti volontari avevano ben poco tempo per mangiare e per dormire
e ogni tanto capitava chi, fra i meno robusti, si lasciasse cadere a terra,
vinto dalla stanchezza e dallo sconforto.
Il
giorno 13 novembre il Guercio cominciò a pensare che “Il si salvi chi può”
restasse l'unica possibile soluzione; infatti, l'acqua già lambiva la sommità
dell'argine e, se non ci fossero stati i sacchi di terra, si sarebbe riversata
con tutta la sua furia e potenza a inondare la valle, abbattendo case,
distruggendo raccolti, rendendo lunare il paesaggio della fertile pianura
padana.
Nel
primo pomeriggio fu raggiunto dal sindaco.
-
Come va
Annibale?
-
Come vuoi che
vada…lo vedi anche tu; se cresce con lo stesso ritmo delle ultime ore non basta
un muro di sacchi alto tre metri.
-
Mi devi scusare,
se sono un incapace. Ho deciso che, finita questa catastrofe, mi dimetto e cedo
il mio posto a te.
-
Ma dai! Lo sai
che non è possibile, anche perché siamo di partiti opposti.
-
E allora, come
posso fare per dare una mano?
-
Teofilo, non
so se conterà, ma fa l'unica cosa che sai fare bene. Va in chiesa e prega,
prega continuamente e speriamo che ci sia qualcuno che ti ascolti.
Verso
sera cominciarono ad arrivare dalla città gli autocarri dell'esercito per
portare in salvo la popolazione. Il Guercio, però, non si diede per vinto e
scongiurò il comandante di mettere i mezzi a disposizione per quella grande
battaglia. Questi parlottò via radio con il suo comando e poi diede la sua
disponibilità.
C'era
un punto, vicino all'argine maestro, che più di tutti preoccupava il Guercio.
Lì il fiume faceva una curva stretta e la velocità e la massa dell'acqua
sbattevano sempre nello stesso posto. Le osservazioni, più volte effettuate
durante il giorno, dimostravano chiaramente che era in corso un'erosione
impressionante. Ci sarebbero voluti un bel po' di massi, precipitati in acqua,
per vincere la forza degli elementi, ma questi non c'erano e allora il Guercio
ne combinò una delle sue.
Propose infatti al capitano che comandava le truppe di soccorso di
utilizzare, al posto dei massi, i dieci autocarri che aveva a disposizione.
Questi ovviamente rifiutò, ma il Guercio, che aveva previsto la risposta, gli
puntò la sua vecchia pistola da partigiano, dicendogli:
-
Vuoi che li
butti in acqua con il tuo cadavere, o che li spingiamo dentro assieme?
La
risposta fu del tutto ovvia e insieme precipitarono nel fiume tutti e dieci gli
autocarri.
La
notte trascorse febbrilmente, con il Guercio, che ormai non dormiva da 48 ore,
intento ad andare su e giù, controllando, verificando, impartendo ordini.
Si
giunse così all'alba, con l'acqua ormai trattenuta a stento dagli infradiciati
sacchi di sabbia.
Il
Guercio si mise in disparte, dietro una pianta; guardò il suo paese, le vecchie
case che avevano visto la sua infanzia, l'officina dove aveva imparato a
lavorare, la chiesa con il campanile danneggiato dai fulmini, e si mise a
singhiozzare. Non gli importava più del partito, della sua attività, perché da
lì a poco il suo mondo sarebbe naufragato. Si accorse allora che la pioggia
stava cessando e che un pallido sole cercava di affacciarsi nel cielo grigio.
Udì il cinguettio di un passero, un suono debole e rimase stupito, perché non
si sentiva più il cupo mugghiare del fiume. Corse all'argine, si sporse oltre i
sacchi e guardò in basso. Incredibile, ma vero: il
livello stava scendendo. Con quanta forza gli era
rimasta gridò: - Cala! Cala! La piena è passata!
E
lungo tutti gli argini, in ogni paese, come un tam tam,
il grido fu ripetuto, tanto da diventare un unico coro, in concorrenza con le
campane che suonavano a festa.
Il
sindaco urlò anche lui, anzi gridò al miracolo, convinto che lo fosse.
La
radio intanto gracchiava dicendo di tre grosse falle prodottesi negli argini
maestri nella zona di Occhiobello, con l'acqua che
trovava sfogo nelle basse terre del Polesine, provocando numerose vittime e
danni incalcolabili.
Il
Guercio rientrò a casa: l'attendeva la moglie che l'abbracciò e lo sostenne
fino al letto, dove restò, quasi inanimato, per 24 ore.
Il
grande pericolo era passato, il fiume lentamente ritornava alla normalità, ma
la storia non finisce qui.
Infatti,
il capitano dell'esercito dovette giustificare la sparizione dei dieci
autocarri e ovviamente raccontò delle minacce del Guercio. Lo vennero a
prendere una mattina i carabinieri e, invero a malincuore, lo condussero alle
carceri della città. Fu riconosciuto colpevole di svariati reati e rinviato a
giudizio. Il processo, nonostante l'epoca refrattaria all'incalzare delle
notizie, assunse una notorietà incredibile, vista anche la figura politica
dell'imputato.
C'era
anche da considerare il gesto eroico dell'aver contribuito al salvataggio di
tante vite umane e così dall'alto si decise che non conveniva a nessuno
esacerbare gli animi.
Ci
furono quindi pressioni sulla Pubblica Accusa e sui giudici e infine si trovò
la soluzione, che avrebbe salvato capra e cavoli: non doversi ulteriormente
procedere, perché l'imputato aveva agito in stato di necessità e nel comune
interesse.
Insomma,
poco ci mancò che si arrivasse a un finale da fiaba, con la fatidica frase
“tutti vissero felici e contenti”.
Il
sindaco rimase al suo posto, come l'assessore all'urbanistica, il Guercio
ritornò alla sua officina, il capitano fu promosso maggiore, ma ci vollero anni
per sistemare i danni nel Polesine e, soprattutto, nessuno poté rimediare alle
84 vittime della grande piena.