Che il Guercio amasse parlare poco della sua
esperienza partigiana era un fatto risaputo: poche e vaghe le risposte a chi
gli chiedeva di quel periodo alla macchia, tanto da sembrare quasi scortese.
Quando spiaccicava quelle poche parole si poteva
notare nel suo unico occhio una sofferenza antica, quasi un vento del ricordo
che, invece di addolcire, lo irritava, facendolo quasi trascendere.
E fu un evento del tutto inaspettato
quando una nebbiosa sera del novembre del 1948 si rivolse agli amici del
bar:
- Chiedete, chiedete continuamente e io quasi non
vi rispondo; voi lo fate perché volete sapere, volete conoscere com'è stata la
resistenza e io mi sono quasi sempre negato, perché di quel periodo triste mi
porto dentro ancora il peso. Questa sera, però, e a patto che poi non mi chiediate più nulla, vi racconterò un episodio, un fatto di
cui io malgrado sono stato protagonista. Perché lo faccio? Un po' per venire
incontro ai vostri desideri e molto perché voglio liberarmi di questo peso che
mi opprime. So che parlarne con voi non cambierà molto il mio stato di
sofferenza, ma sono anche conscio che così potrete capire quale grande sacrificio
e tragedia sia stata la resistenza.
Così, nel silenzio più generale, iniziò il suo
racconto.
“Dopo la fuga dal paese per essermi inviso ai
fascisti andai a Vignola, dove abitava mio cugino e
lì venni a sapere che su in montagna, verso l'Abetone,
si andavano raccogliendo gli sbandati dell'8 settembre. E' inutile che vi dica
che mi unii a loro, che ci aggregammo in bande e che trascorremmo il freddo
inverno alla macchia, patendo freddo e mangiando poco e niente. Eppure quella
stagione fu importante, ci fortificò, perché restarono solo quelli, e non erano
molti, che volevano dare all'Italia un volto nuovo; lì diventai anche
comunista, lì appresi che i discorsi dell'onore sono solo retorica e che la
vera dignità è la libertà degli uomini.
Ma veniamo al fatto, un episodio dei tanti, anche
se non preso a caso.
Era uno dei primi giorni della primavera del 1944,
con il sole che si azzardava sempre di più a farsi vedere e che mitigava, anche
se poco, il freddo; già le nevi invernali cominciavano a sciogliersi e il
nostro intorpidimento scemava di giorno in giorno, anche per il proposito di
dimostrare a noi e ai tedeschi che non eravamo lì solo per sfuggire alle
deportazioni.
Il comandante del gruppo, Nero, questo era il suo
nome di battaglia, ci riunì e ci fece un bel discorso:
- E' arrivato il momento di entrare in azione. I
nostri compiti sono di intralciare il movimento del nemico, di rallentare le
sue comunicazioni, di assillarlo con frequenti colpi di mano, di modo che il
suo pensiero non sia rivolto solo al fronte, ma che abbia
a cominciare a temere anche nelle retrovie.
Domani mattina faremo saltare il ponte sulla
statale, a 15
chilometri da noi. Abbiamo esplosivo da cava e la zona
ancora non è presidiata. Un'azione quindi che si presenta facile e come prima è
giusto che lo sia, ma mi raccomando la massima attenzione.
Partimmo in dieci che ancora non albeggiava e in
tre ore, quando il sole già cominciava a illuminare le montagne, fummo al
ponte. Io ero di retroguardia e per questo mi salvai, perché ad aspettarci
c'erano un drappello di tedeschi e una ventina di camicie nere. Ai primi spari
mi fermai e dato che io ero più indietro ebbi la disgraziata occasione di
vedere tutta la scena.
Subito tre dei nostri furono colpiti e restarono a
terra privi di vita, mentre gli altri sei furono fatti prigionieri e, dopo che
il nemico si accanì su di loro con pugni e calci, furono gettati vivi dal ponte
e si sfracellarono sul greto del torrente sottostante.
Ritornai al campo piangendo e raccontai a Nero
quello che era accaduto.
- Dici che ci aspettavano? Non è possibile, perché
l'azione e l'obiettivo l'ho congegnato pochi minuti prima
che vi parlassi.
- Sarà così, ma sta di fatto che tutte quelle
truppe non erano lì per caso e io mi sono salvato solo
perché ero di retroguardia.
Gli altri compagni mi stavano intorno e non
riuscivo a capire se mi guardassero come un fortunato,
o come uno che si era salvato perché aveva tradito.
- Nero, ho paura che qualcuno abbia fatto la spia.
- Ma non dire sciocchezze, Guercio…
Era la prima volta che mi si chiamava così, perché,
per quanto strano, avevo preferito come nome di battaglia il mio: Annibale infatti mi ricordava imprese epiche e gloriose.
Quell'appellativo, detto in
quel momento, mi infastidì, anche per via delle tante dicerie sui vari Guercio,
visti sempre come brutti ceffi.
La cosa finì lì, ma non per me, perché mi ero messo
in testa che doveva esserci per forza una spia.
Sette giorni dopo si decise di ripetere l'azione,
anche perché si disse che dove cade una bomba non ne cade un'altra ed infatti questa volta tutto filò liscio e il ponte andò giù.
I colpi di mano si susseguirono senza intoppi e ben
presto mi dimenticai della spia, o meglio mi resi conto che doveva essere solo
un parto della mia mente.
Arrivammo così al 5 maggio, una data che resterà sempre impressa nella mia mente. Quel giorno al
campo non ‘ero, perché con la mia squadra di nove
uomini eravamo andati a far saltare alcuni tralicci delle linee elettriche e,
dato che avevamo fatto più alla svelta del previsto, ritornammo un po' in
anticipo. Già quando mancavano circa un paio di chilometri udimmo gli spari, i
colpi di mortaio e vedemmo uno Stuka che si gettava
in picchiata per sganciare le bombe.
Era inequivocabile: la nostra base era sotto
attacco. I miei uomini volevano correre per soccorrere i compagni, ma li trattenni: vista la disparità di forze in gioco, non c'erano
possibilità concrete di dare una mano e anzi avrebbe voluto dire andarci a far
massacrare. Raggiungemmo alla svelta un piccolo rilievo e, protetti dagli
alberi, benché a distanza potemmo vedere tutta la
scena, con i nostri, sorpresi e numericamente assai di menoi,
che si difendevano disperatamente. La disparità delle forze, il nostro
armamento, inferiore e spesso in cattivo stato, portarono alla tragica
conclusione dello scontro; fu una vera e propria carneficina: i nostri vennero falciati e quando gli spari cessarono ben pochi,
peraltro feriti, continuavano a vivere.
Anche per questi non ci fu processo e, ancora a terra
e sanguinanti, furono finiti con il classico colpo di grazia.
In quei momenti, quando l'impulso mi diceva di fare
qualcosa, subito frenato dalla ragione, mi ritornò in mente la questione della
spia, che mi apparve sempre più che certa, visto che il campo era ben
mimetizzato, pressoché sconosciuto alla popolazione, tranne al contadino che
ogni tanto ci portava qualche cosa da mangiare. Su di lui, tuttavia, si poteva
fare il più completo affidamento perché era una di quelle persone dotate di una
fede incrollabile in noi quanto il suo odio nei confronti dei fascisti; sarebbe
morto, piuttosto che rivelare il nostro nascondiglio, e immaginiamoci quindi
quanto potesse essere infondata l'ipotesi di un tradimento. Eppure, quel
contadino era l'unico nesso logico che mi balzasse
alla mente, quello stesso ragionamento che tuttavia mi portava a escluderlo.
Durante la notte, abbandonammo la nostra posizione
e dopo alcune ore di cammino ci riunimmo a un'altra banda.
Lì raccontai tutto al comandante, anche i miei
sospetti.
- Senti Guercio, penso proprio che ti sbagli; quel
contadino darebbe anche la vita per noi.
- Ma qualcuno deve pur avere informato i tedeschi
la prima volta che siamo entrati in azione e poi sulla posizione del campo.
- Non è detto, perché anche se il tuo ragionamento
è logico a volte subentrano delle casualità.
- Devi ammettere che due casi analoghi sono un po'
troppo.
- Questo è vero e allora ti dico che, una volta riposati da questa giornata di tragedia, tu e tuoi
uomini avvierete delle indagini, il più discrete possibile, per arrivare a una
soluzione del caso, effettivamente un po' strano.
L'incarico non è che mi piacesse,
ma ritenevo giusto che si dovesse arrivare a una spiegazione delle circostanze,
sia per evitare il ripetersi di analoghi episodi, sia affinché i nostri morti
avessero giustizia.
Dormii tutta la giornata; ero arrivato all'alba e mi
risvegliai al tramonto, così che la notte restai ben sveglio, solo con i miei
pensieri e le mie congetture. Per quanto arrovellassi la mente concludevo
sempre che non poteva che esserci stato un tradimento
e che in tale ipotesi l'unico che avrebbe potuto fare la spia era
necessariamente il contadino.
Verso l'alba mi addormentai, ma si vede che anche
nel sonno la mente lavora perché mi ricordai che il giorno in cui Nero ci aveva
parlato della nostra prima azione c'era qualcuno che non faceva parte della banda
e che era venuto a portarci un po' di latte: non era il contadino,
ma sua figlia Marietta, una bella ragazza di
circa 18 anni, dallo sguardo sempre triste e malinconico. Cercai di cacciar via
subito questa idea, ma il cervello mi tambureggiava e anche la logica mi
spingeva a identificare nella sua persona la spia.
Fu così che decisi di far visita al contadino,
portandomi dietro un paio di uomini. Quando arrivammo alla fattoria,
l'accoglienza fu calorosa: ci fecero mangiare e vollero che raccontassi quello
che era accaduto ai miei disgraziati compagni.
- Avete fatto bene a non intervenire, a non farvi
ammazzare per niente.
Era l'uomo rude, con le mani segnate da anni di
duro lavoro, che mi parlava così, quell'uomo che
aveva perso il suo unico figlio maschio il 9 settembre 1943, trucidato dai
tedeschi.
Mi guardava e leggevo nei suoi
occhi tutto il dolore che provava e il rancore, anzi l'odio che si
autoalimentava nei confronti dei tedeschi e dei fascisti. No, non poteva essere
stato lui a tradirci.
- Mi chiedo come hanno fatto a sapere dove era il
campo?
- Vede, mi spiace dirlo, ma penso sia stata una
spiata.
- Penso così anch'io, ma non dubiterà di me, spero?
Nemmeno se mi avessero torturato, avrei parlato, perché Martino è un povero
contadino ignorante, ma sa dove sta il bene e dove sta il male.
- Martino, stia tranquillo, perché nessuno sospetta di lei. Qui vivete solo voi due, cioè lei e
sua figlia?
- Sì, purtroppo, da quando nel 1939 mi è morta la moglie e
più tardi mi hanno ammazzato mio figlio questa casa è diventata troppo grande.
Un momento, un momento solo che c'è qualche cosa che mi è venuto in mente e mi
tormenta…
Si volse verso la figlia, che teneva gli occhi
abbassati – Dimmi che non sei stata tu, dimmelo,
giuramelo!
La ragazza non rispose, chinò il capo e si mise a
singhiozzare.
- Dunque sei stata tu, sei stata tu che hai fatto
morire tutta quella gente; non volevo crederlo, ma è così.
- Mi avevano detto che avrebbero salvato la vita di
Luigi se collaboravo; lui non parlava, ma allora io ho
detto di sì! Papà, Luigi era il mio fidanzato; lo sapevi che era anche un
partigiano, no? Credevo fosse bastato raccontargli di quella prima azione che
dovevate fare e invece hanno voluto sapere sempre di più, fino a promettermi di
liberarlo se avessi rivelato dove era il vostro campo. E così ho fatto senza
sapere che Luigi era già morto sotto tortura.
Adesso lo strazio era in me, per quel padre che
tanto già aveva sofferto, per quella ragazza che aveva cercato invano di
barattare una vita. Ero intriso da un senso di pietà che non avevo mai provato,
ma sapevo quello che dovevo fare, perché gli ordini erano ordini.
- La ragazza viene via con me!
Martino si voltò di scatto, con gli occhi di fuoco:
- Mai!
- Ma non posso, io la capisco, ma cerchi di capire
anche noi.
L'uomo afferrò la doppietta che teneva appesa al
muro e ce la puntò:
- Fuori, andatevene, andate via! Abbiate
compassione di me.
Ce ne uscimmo a ritroso tenendo le mani alzate; la
porta fu chiusa dietro di noi a doppia mandata.
Restammo in silenzio a guardarci.
Non sapevo che fare, non riuscivo a prendere una
decisione e mi ripugnava dover usare le armi per far trionfare la giustizia.
Si udì un colpo di fucile e subito dopo un altro.
- Martino! Martino!
Benché chiamassi più volte non ebbi risposta; decisi
allora di sfondare la porta e di entrare.
Fu così che li trovammo: la ragazza con il petto
squarciato e ormai rantolante, Martino con la testa devastata e già morto.
Rimasi impietrito a guardare quella vita che si
spegneva, quegli occhi sempre più opachi che sembravano chiedere perdono. “