Diritto
di esistere
di
Rosella Rapa
E’
di questi giorni la triste vicenda di un giovane diventato
tetraplegico e cieco, a seguito di un incidente. Non ha sopportato
questo peso ed è andato in Svizzera per avere una “dolce
morte”. Poco tempo fa avevo visto un film con una situazione
simile. In entrambi i casi, a fianco del malato, solo i rispettivi
partners. Cosa sarebbe potuto accadere con un po’ di aiuto?
Visite, compagnia, TV, film, un programma alla radio… perché
nessuno ci ha pensato? Più i malati sono trattati da
emarginati di cui si può solo avere sterile pietà, e
più loro stessi non vedono altra via d’uscita, se non
quella di far cessare la loro solitudine. Quando ero alle elementari,
c’era in classe una bambina che aveva avuto una malattia alle
ossa, e le era rimasta una gamba più corta dell’altra.
Portava orribili scarpe ortopediche, aveva delle barre metalliche che
le immobilizzavano e traevano la gamba, e vestiva come una vecchina,
con indosso un tremendo scialletto rosa. Una volta, mentre l’aiutavo
ad infilare il cappotto, le dissi: “lo scialle mettilo sotto il
paltò, non sopra. Sta meglio e tiene anche più caldo.”
Ma lei non mi ascoltò: “No, no, la mamma dice che va
bene così”. I genitori venivano a prenderla fino alla
porta dell’aula, perché c’erano troppe scale, che
noi invece scendevamo di corsa. Erano genitori anziani, resi ancor
più anziani dagli abiti dimessi e dal loro ripiegarsi su
quell’unica figlia che, ne erano convinti, avrebbe avuto una
vita disgraziata, tra casa e ospedali, e con una fine prematura.
Mentre mi preparavo per uscire, accanto a una bellissima bambina con
occhi verdi trasparenti, lunghi riccioli neri e indosso una morbida
pelliccia, pensavo: “non è giusto, non è giusto.
Perché la bambina non può venire a giocare con noi? Non
può correre, ma possiamo giocare alle bambole… o forse
non le ha le bambole?” Cosa poi le sia accaduto non lo so, ma
lo posso immaginare. Se trattiamo tutti i bambini con problemi di
salute come malati terminali, finiranno col crederlo anche loro. La
settimana scorsa ho visto una pubblicità. Sì, una
pubblicità. Non una di quelle lacrimose e pietistiche che ci
mostrano bambini veramente vicini alla morte, da noi per malattie
rare, altrove per pura e semplice fame; ci lasciano poi impotenti di
fronte a situazioni che certo non basta il denaro per sanare. No,
questa era impostata in modo molto positivo, puntando sulla vita, e
non sulla morte: erano pubblicizzate protesi meccaniche agli arti.
Mostrava bimbi di circa 6 mesi, con le gambe ferme al ginocchio, o il
braccino solo fino al gomito. Erano allegri e felici, ben curati e in
salute. Poi si vedeva il loro futuro, in cui le protesi, sotto i
vestiti, non si distinguevano dagli arti naturali. Certo, le
pubblicità tendono a far vedere tutto bello e buono, ma i
progressi in questo campo della medicina sono stati tanti, e la
società ha imparato ad accettare ogni tipo di differenza;
abbiamo anche le olimpiadi per i disabili. Qui c’è però
una novità: il fatto che non si abbia paura ad affrontare il
problema dei disabili con un spot ricco di gioia, vuol dire, a mio
parere, che la Vita ha tante sfaccettature, e ciò che può
essere insopportabile ad alcuni, può essere invece visto da
altri come un incidente di percorso. Ciò che noi possiamo fare
è aiutare questi malati e le loro famiglie, dare loro gioia e
occasioni per stare insieme, farli giocare da bambini e farli
studiare da grandi. Non basta garantire la loro sterile
sopravvivenza, bisogna colorare i loro giorni. Questo è il
diritto di ESISTERE.
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