Le palme da dattero sono considerate tesoro
nazionale. I contadini se le tramandano di generazione in generazione. Ognuna
di esse ha un nome proprio come una persona ed esiste
un archivio con la storia dettagliata di ognuno di questi alberi. Sette datteri
al giorno levano il medico di torno, dice un proverbio
locale.
Annotazioni per un'elementare
ricerca. Ma guardando la pianta che agonizza nel piccolo cortile in un
quartiere dell'estrema periferia di Baghdad non è questo che ti viene alla
mente in questo cupo rosario digiorni. Vedi quella giallastra corona
di lunghe foglie impolverate e pensi ad una sola parola: desolazione.
E se la palmaavesse occhi e pensiero e lanciasse
sguardi al di là del cortiletto sarebbe sempre quella la parola che le
attraverserebbe la mente: desolazione.
La Dactylos-fero, la
vecchia portatrice di datteri, non dà
più figli, da tempo, ormai. Da poco dopo l'inizio dellaguerra. E se tu lo raccontassi ad un
botanico ti guarderebbe incredulo: le condizioni atmosferiche non sono mutate,
ti direbbe con sussiego, il sole è sempre quello, il clima è uguale a prima.
Probabilmente ha una qualche malattia, un qualche parassita. Lasciatemi dare
un'occhiata.
Ma Inaam lo sa
che non è colpa di un fungo.
Vivevano una vita normale, scandita dalle
normali incombenze quotidiane. La madre, il padre, il bambino, ognuno legato al
suo ruolo, così come miliardi di persone, nel mondo.
A volte Farhad, tornando dal lavoro, sussurrava alla moglie che un
suo collega era sparito. A volte non vedevano un amico per mesi, e quando lo
rincontravano lo trovavano cambiato, smagrito, con lo sguardo assente. Un
mattino Inaamli
aveva visti portare via una vicina incinta fra il pianto dei suoi quattro
figli. Nei cortili, certe sere, serpeggiavano voci bisbiglianti di atroci
torture, di fosse comuni, di eccidi, voci subito interrotte al suono di un
passo, ad un colpo di tosse in lontananza.
Ma loro
continuavano a portare avanti i giorni senza pensare troppo, senza voler
vedere. La guerra era finita da dodici anni, erano ragazzini, a quel tempo e
ora volevano ostinarsi a credere di essersi lasciati gli orrori alle spalle.
Non erano ricchi, ma non proprio poveri. Il cibo in tavola c'era sempre, magari
solo riso e ceci, ma si volevano bene, erano una bella famiglia. Si potevano
concedere anche qualche uscita in centro ed era bello, allora, cenare in
qualche piccola trattoria sul Tigri, al tramonto, e osservare il calare del
sole che sembrava dipingere un incendio intorno alla cima delle palme. Anche
se, quando passavano davanti ai giganteschi cartelloni con la sua effigie, o davanti alla statua che lo raffigurava, sentivano sempre un
brivido e acceleravano il passo. Poi, tornati a casa, si sedevano tutti e tre
sotto la palma, e lasciavano vagare i pensieri, che si facevano trasportare
liberi dal fumo della sigaretta del padre. Quando l'albero era carico di frutti
ne sentivano la dolcezza nel palato solo a guardarli. Il bambino cominciava a
sonnecchiare, e così rientravano in casa, non senza aver augurato un felice
riposo a quell'albero cui avevano dato il nome del
figlio: Khalid.
Khalid, appena
finito il suo disegno, l'aveva appoggiato come sempre sul piatto vuoto di Faharad. Ogni sera un disegno nuovo, un piccolo amorevole
dono del figlio al padre; quella, poi, era una sera speciale: Faharad compiva ventisei anni eKhalid
bambino aveva pitturato su un grande foglio l'albero Khalid,
la vecchia palma. Mentre la madre cucinava lui se ne era stato tutto il
pomeriggio seduto al tavolo, la testa china, la punta della lingua stretta fra
le labbra, concentratissimo. E ora il disegno era finito, e gli sembrava
proprio bello. Nella cucina si miscelavano gli odori speziati
del cibo. Vassoi di koubbahelva,
kanaria, ghoriba erano
allineati sul piano di legno vicino al tavolo, ancora fumanti. Ravioli,
spezzatino con i cardi, dolcetti di semola e datteri: i piatti per una festa. Inaam aveva cucinato quelli che il marito più amava.
Avrebbe
dovuto essere lì a minuti. Ma per la prima volta, da quando aveva famiglia, Faharad era in ritardo.
Tante
volte si affacciò Inaam sulla porta, scrutando nel
buio. I minuti, poi le mezz'ore, le ore, la notte intera. Tutto si era
raffreddato, nella casa. Anche i colori del disegno sembravano meno brillanti.
E così, nei giorni, nelle settimane
successive, si cominciò a vedere quella donna che girava nei diversi quartieri,
col bambino per mano. Cercava di entrare nei palazzi, chiedeva a tutti, sempre
la stessa domanda, sempre la stessa risposta che risposta non era.
Poi,
dopo mesi, ebbe la conferma che il marito era stato arrestato: ma dove fosse
stato rinchiuso non lo seppe mai.E
neppure il motivo dell'arresto. E neppure se fosse ancora vivo.
Inaam capì per
la prima volta cosa volesse dire essere disperata, disperata e impotente.
Cominciò a sentire come un duro nocciolo dentro il cuore. Il suo viso cambiò,
due rughe sottili cominciarono a incorniciarle le labbra. Tentò di trovare un
lavoro, ma non era facile. I suoi le fecero un piccolo prestito, non è che loro
ne avessero tanti, di soldi. Faharad le mancava, le
mancava la sua tranquillità che aveva permeato la casa, le mancavano
terribilmente i suoi abbracci, il suo odore. Khalid
non chiedeva mai del padre,ma non sorrideva più e di togliere dalla tavola il disegno di
quella sera non ne voleva proprio sapere. E la luce non la voleva mai spenta,
quando andava a dormire.
Quando si cominciò a parlare di guerra
–erano passati otto mesi dall'arresto di Faharad-Inaam
non si disperò, tutt'altro. Pensò che forse la morte
del marito sarebbe stata vendicata, da quella guerra, si convinse che il suo
Paese sarebbe stato liberato grazie a quegli uomini stranieri, cominciò a
credere che sarebbero spariti i grandi manifesti, che sarebbe stata abbattuta
quella orrenda statua, che giustizia per tutti quelli che erano scomparsi senza
più ritornare sarebbe stata fatta. Si persuase che era la cosa migliore, che
suo figlio avrebbe potuto ricominciare a sorridere, con quella guerra. Le
opinioni erano contrastanti, intorno a lei: c'era chi partiva senza salutare
nessuno, qualcuno metteva su un sorriso di speranza, altri avevano i volti
cupi, c'era anche chi cominciava a guardarsi intorno sospettoso, chi cominciava
a contarsi. Ma i più tacevano.
Si svegliò alla prima forte esplosione,
e strinse fra le braccia Khalid. Era cominciata,
pensò con sgomento e sollievo insieme. Era il 20 marzo, la sveglia, illuminata
dalla smorta luce della lampada, segnava le 3 e 35.
In
quelle poche eterne settimane prima che fosse dichiarata la fine
della guerra, nel cuore di Inaam si alternaronoquei due sentimenti. Mano a mano però che
nella città e in tutta la nazione il numero delle vittime civili aumentava, lo sgomento prese il sopravvento, e anche la rabbia cominciò
lentamente a strisciare dentro di lei. Perché, invece dei militari, degli
aguzzini, dei carcerieri, dei politici, venivano
decimati bambini, donne, vecchi, persone innocenti ?…
E quando venne la fine di aprile e
dissero che la guerra era finita e che il Paese era stato finalmente liberato,
lei si chiese da chi, e cosa sarebbe successo di tutti loro.
E la guerra, più malefica, orrenda, più
crudele di prima continuò. L'odio era del tutto tracimato.
E poi venne quel giorno.
“La palma sta morendo.” Pensò Inaam, attraversando il cortile. E un brivido la trapassò,
anche se il sole sbatteva spietato sulla terra.
Forse
aveva trovato un lavoro, forse le cose si sarebbero aggiustate. Ma il suo
pensiero tornò alla palma. Erano mesi che stava avvizzendo.
Aveva lasciato
Khalid a casa di Nabhak, la
sua vicina, e quando l'aveva salutato lui le aveva detto:”Quando
torni ti do un disegno. Lo faccio adesso.” E le aveva sorriso.
L'autobus che doveva portarla in centro
tardava, e Inaam si fece a piedi un lungo tratto di strada.
Erano
stati liberati diversi prigionieri, ma di Faharad non
si era saputo nulla. A volte le sembrava fossero passati anni, dalla sua
scomparsa. A volte le pareva di essere ancora in quella notte, a fremere e ad
aguzzare lo sguardo nel buio. C'era stata una guerra, intanto, e la guerra
distorce il tempo, lo dilata e lo restringe al tempo stesso, scoordina gli spazi temporali,scardina i punti fermi, concima paure
ed aggressività.
La
strada era piena di militari e Inaam dovette superare
diversi posti di blocco. Era sempre così. Era snervante. Era umiliante. Era il
suo Paese, quello, che se ne andassero da un'altra
parte quegli stranieri… Non li pensava più come liberatori, ma come occupanti,
sopraffattori. Anche se alcuni soldati era gentili, in altri leggeva
l'arroganza nello sguardo, alcuni addirittura sembravano colmi d'odio. A causa
di tutte quelle soste poi, sarebbe arrivata in ritardo all'appuntamento per
l'assunzione. E lei quel posto lo voleva. Avrebbe dovuto decidere a chi
lasciare Khalid, durante l'orario di lavoro, ma ci
avrebbe pensato più tardi. L'importante era che l'assumessero.
E così, infatti
successe. Il posto di inserviente all'ospedale sarebbe stato suo, fin dal
giorno dopo.
La strada del ritorno le sembrò più
lieve, forse, disse a se stessa, le cose per me e per il
piccolo ora andranno meglio. Forse, si ripetè,
possiamo continuare a vivere. Vorrei solo che questi se ne andassero, pensò mentre un militare le chiedeva i documenti.
Nabhak la
aspettava sulla strada. Il velo le era scivolato dalla testa e aveva le mani
strette sul cuore.
Il
disegno rappresenta una famiglia: padre, madre, bambino. Non è ancora colorato
del tutto, e i segni delle cancellature sono evidenti. Sta sotto la palma, come
dimenticato. Il bambino è steso lì accanto, il piccolo corpo coperto da un
lenzuolo, anche se èmezzogiornoe fa molto caldo. La maglietta, sotto, è
impregnata di sangue che ormai si sta seccando.
La madre si accoccola vicino a lui, poi
lo prende fra le braccia e inizia a cullarlo. E' piccolo, cinque anni appena
compiuti. E' leggero. E' freddo, molto freddo.
E fredda
è la madre, senza più un'anima, senza lacrime. Le labbra solo una riga stretta,
le palpebre immobili. Il pensiero come una spada.
“Hanno sparato. Lo hanno colpito per
sbaglio, non volevano, ripetevano sempre così, i'm sorry, i'm sorry.
Lui era andato un attimo sulla strada, e gli hanno sparato. Per sbaglio, hanno
detto. Poi se ne sono andati.” Le ha raccontato piangendo Nabhak.
Il
pensiero è come una spada. L'odio ha già piantato radici ben solide dentro la
madre.
Sa cosa
fare. Ha sentito parlare di un uomo. La sua vita, ora, vale meno di quel
moscerino che si è posato sulla sua mano. Ma la sua morte può avere molto
potere, molta forza. Ora è nella morte sua e di altri che troverà pace. La
morte come valore. La morte come vendetta. Stanotte andrà a cercare quell'uomo.
Erano una bella famiglia. Vivevano una
vita normale. Ognuno il suo ruolo. Poi le cellule sono impazzite, i ruoli si
sono frantumati. Solo la madre è rimasta, e vestirà la sua pazzia, questo suo
nuovo ruolo maledetto fino alla fine.
E il
serpente continuerà a cambiare pelle: terrorista o generale, presidente o
dittatore. Ma il suo nome sarà sempre lo stesso: annientamento.