Ritornerà
la primavera
di
Renzo Montagnoli
Marzo
1918, dopo la disastrosa ritirata di Caporetto il fronte si è
assestato, ma si attende da un momento all’altro il grande
attacco delle truppe dell’Imperial Regio esercito
austro-ungarico. E’ notte, una notte serena, con in cielo
tante stelle e in una trincea sul Grappa un fante si appresta a
scrivere una lettera alla giovane moglie. Di tanto in tanto si levano
razzi illuminanti, lontano è il brontolio di un canone, uno
sparo, poi un altro ancora, e infine il silenzio.
Dentro
un rifugio scavato nella roccia, al lume di un mozzicone di candela,
tormentato da un esercito di cimici il fante Fausto Castelmassa è
assorto nei suoi pensieri, vorrebbe scrivere tante cose, ma poi teme,
a ragione, che la censura cancelli quasi tutto e allora è
inutile parlare della guerra, delle sofferenze, dell’umido che
stringe le ossa, dell’orrore dei morti insepolti, della puzza
dolciastra che emanano e che entra dappertutto, anche nell’anima.
Ma lui vuole scrivere, vuole abbracciare idealmente la moglie,
rassicurarla e tranquillizzare anche se stesso ed è allora,
mentre spegne l’ennesima sigaretta, che gli viene l’idea.
Distende bene il foglio, si passa la mina della matita sulla lingua e
inizia a scrivere.
“
Mia
adorata Martina, luce dei miei occhi, sempre nei miei sogni delle
notti buie, ti scrivo per dirti quanto ti amo, quante volte mi
sembra di sentire sotto i polpastrelli delle mie dita la tua pelle di
seta. Ti ho sempre amato, ma c’è voluto il distacco di
una guerra perché capissi quanto grande era ed è il mio
amore, talmente grande che non starebbe nemmeno dentro il mare, che
traboccherebbe dai confini del cielo. No, non esagero, tu sei sempre
stata lo scopo della mia vita e ancor più lo sei adesso...”
Non
lontano una mitragliatrice sgrana i suoi colpi, s’ode un urlo,
che si spegne in un rantolo soffocato. Fausto Castelmassa ha
interrotto la sua scrittura, gli occhi si inumidiscono, non sa se
quello che è appena morto è amico o nemico, sa solo che
è un uomo come lui, con un cuore che prima pulsava e ora è
immobile, magari con una moglie che lo attenderà invano a
casa.
Si
passa una mano sugli occhi, poi riprende a scrivere.
“
Amore,
è l’unica parola che voglio gridare e che voglio
sentire. Un giorno tutto questo finirà e chi potrà
tornare sentirà più che mai indispensabile la necessità
di amare e di essere amato. Io già sogno il mio ritorno, tu
sulla porta di casa, io che corro, tu che corri e ci abbracciamo, il
fiato che si fa corto, un bacio lunghissimo che non finisce mai, poi
guarderemo il cielo per una preghiera, per un ringraziamento, ma
anche per un pensiero a chi non ce l’ha fatta. E poi a
primavera, perché ritornerà la primavera, non una come
questa, ma una come quelle piene di speranza di prima della guerra,
andremo a correre per i campi, mano nella mano, e giunti al vecchio
mulino ci fermeremo, raccoglierò le violette selvatiche, un
mazzolino per i tuoi bei capelli. Ecco, tutto questo volevo dirti e
altro ancora ti dirò quando saremo di nuovo insieme. Un bacio,
un bacio appassionato, amore mio lontano.”
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Il
tempo corre, girano i mesi del lunario, novembre 1918, l’armistizio,
la fine della guerra, poi l’anno nuovo, il 1919, la fretta di
ricominciare, sempre più veloci corrono i giorni e siamo al
1920, è il 21 marzo, il primo giorno della bella stagione e
puntuale la primavera è ritornata.
Nel
piccolo paese deve essere giorno di festa, nella piazza davanti al
municipio c’è un palco, con tante coccarde tricolori e
tutte le autorità, dal sindaco al parroco, al comandante del
presidio. Giù, davanti alla gente che accorre, c’è
una banda militare e un picchetto d’onore e poco più in
là un drappo che cela chissà cosa. Cominciano i
discorsi, si parla di nuovo di guerra, di quella appena finita e
vinta, si commemorano i caduti del paese, parole tronfie, retoriche,
perché nulla può giustificare la morte di quegli
uomini. Poi, mentre la banda suona l’inno reale, il drappo
viene tolto e appare il monumento, il bronzo di un soldato proteso in
avanti intento a lanciare una bomba. C’è la benedizione
del parroco, mentre il comandante del presidio legge i nomi dei
caduti riportati su una lapide ai piedi della statua. C’è
commozione in giro, qualcuno piange, mentre si alzano le note del
silenzio fuori ordinanza. E sull’ultimo acuto della tromba
tutto finisce, la gente a poco a poco lascia la piazza che in breve è
del tutto deserta.
E’
solo allora che da dietro un albero spunta una donnina in nero, a
passi rapidi va al monumento, legge quei nomi, su uno appoggia le
labbra, mentre le lacrime le solcano le gote, poi estrae da una tasca
un mazzolino di viole selvatiche e lo depone alla base. Quindi,
silenziosa e veloce come era venuta, se ne va.
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