La prima volta
“Nonno, quando hai fatto l'amore per
la prima volta?”
“Ma cosa ti sogni mai! Non sono
domande da bambino per bene quale sei te.”
“A scuola alcuni
miei compagni ne parlano, ma mi sembra che non abbiano le idee chiare; c'è Carletti che dice che ha visto il suo babbo baciare la sua
mamma e invece Rossi mi ha raccontato che un uomo ed una donna stanno nudi uno
di fronte all'altro e così fanno l'amore.”
“Ah, un giorno capirai senza io ti spieghi; però mi hai fatto venire in mente quella che
avrebbe dovuto essere stata la mia prima volta e, per fortuna, non avvenne
niente. Adesso ti racconto, ma non farmi domande chiarificatrici, va bene?”
E' accaduto quell'anno
della festa con la storia dell'albero della cuccagna che ti ho già raccontato;
più o meno il fatto si verificò un mesetto prima della
sagra. Avevo quindici anni, non andavo più a scuola e lavoravo quasi ogni
giorno in campagna: insomma, mi sentivo un adulto, anche se non lo ero. Avevo
preso così l'abitudine la domenica pomeriggio di andare all'osteria del paese,
raduno obbligato dei maschi del luogo, ove, stimolati da un bicchiere di vino,
scioglievano le lingue, con un argomento pressoché fisso: le capacità amatorie.
L'impressione era di essere in un pollaio con tanti galli e neppure una gallina;
ovviamente una chiacchiera tirava l'altra e si finiva con lo sparlare di
qualcuna. Uno dei soggetti preferiti era la vedova Patti,
donna sulla trentina, da tutti definita una mangiatrice di uomini, anche se poi
risultava che nessuno l'aveva sperimentata. Certo, erano chiacchiere spesso a vuoto, piccole vanità di gente per lo più analfabeta, che
vedeva in una supposta particolare virilità quella realizzazione nella vita,
altrimenti insignificante, fatta com'era di lavoro duro e poco pagato,
dall'assillante problema di far quadrare i conti in modo che nella giornata,
oltre alla cena, ci fosse anche un pranzo, per quanto grami entrambi. Io
ascoltavo in disparte, cercando di capire quali erano le verità e quali invece
le spacconate. E fu così che venni a conoscenza dell'esistenza in paese di una
persona, diciamo, molto disponibile.
“Dove vai?” disse Tonio a Francesco,
che si apprestava a lasciare l'osteria.
“Mi sono rimasti tre soldi, giusti giusti per un colpetto
all'Adalgisa.”
“Sempre bene in carne quella femmina,
vero?”
“Sì, anche troppa, ma mi vanno
abbondanti; non voglio stringere le ossa di mia moglie; qualche volta bisogna
pur togliersi la voglia di avere tanto da guardare e da toccare.”
“Più tardi penso proprio di farci un
salto pure io; è un po' che non ci vado ed ho nostalgia di quella baldraccona. E tu ragazzo, che hai da ascoltare? Questi
sono discorsi per uomini, e non per mocciosi che hanno ancora la goccia al
naso.”
Rimasi sconcertato e “Non faccio del
male, se ascolto. E poi non sono un moccioso, io sono un uomo che lavora tutto
il giorno e che contribuisce a mandare avanti la famiglia.”
“Mi fai ridere; quella non è roba per
te: non sapresti che farci. Va, levati dai piedi, ed oggi sono generoso: ti
faccio anche un regalo, sì un regalo ad un uomo come te…” e mi allungò una
sigaretta tutta rattrappita.
Francesco
uscì e pure io; lo seguii, un po' a distanza, in modo che non se ne accorgesse,
una prudenza forse eccessiva perché i due bicchieri di vino tracannati cominciavano
a fare il loro effetto; camminava traballando, appoggiandosi ogni tanto ai muri
delle case, finchè giunto in fondo alla via entrò in
una mezza stamberga.
“Allora è lì che sta l'Adalgisa” mi
dissi ed il cuore cominciò a battermi forte. Ecco, ero vicino alla fonte di
ogni piacere; bastava che attendessi l'uscita di Francesco e poi mi facessi
avanti ed anch'io avrei assaporato l'ebbrezza dell'amore, come un vero uomo. Contai i soldi in tasca ed erano appunto tre baiocchi, ma restava
un dubbio: avrei fatto bene, o avrei commesso un peccato; sarei diventato così
un uomo, o sarei rimasto il ragazzino delle prime esperienze solitarie; ne
sarei stato capace, o avrei fatto miseramente fiasco?
I pensieri affardellavano la mente;
il cervello sembrava scoppiare e mi diceva di non farlo, ma in certi momenti
non si ragiona con la testa, ma con qualche cosa che esplode prepotente dentro
di te e a cui non riesci ad opporti.
Così quando Francesco se ne uscì,
entrai io.
C'era una sola
camera, con un pagliericcio e sopra, nuda come l'aveva fatta mamma,
stava l'Adalgisa. Era quella che si sarebbe detta una buona stazza, abbondante
in ogni parte, con due seni che sembravano cocomeri ed un di dietro
mastodontico; sui
quaranta, quarantacinque anni, il volto, non bello, enorme e sfatto mi ricordò
chissà perché certi rospi che s'annidavano nei fossi delle risaie.
“Che vuoi, ragazzino?”
“Io, io…. “
“Eh, spicciati, che tempo da perdere
non ne ho con un moccioso”
“A dir la verità, passavo di qua ed
allora…”
“Va la, lo
so che cosa vuoi.” e spalancò oscenamente le gambe a
mostrare quello che pensava fosse il meglio della sua mercanzia.
Rimasi impietrito: mi ero immaginato
qualche cosa di diverso, un fiore che sbocciava e non ….
Corsi via, mentre l'Adalgisa rideva
sguaiatamente.
Appena fuori, mi appoggiai ad un muro
a prendere fiato: se l'amore era così, non l'avrei mai fatto in vita mia, ma
già sapevo che non era vero, perché da un po' di tempo provavo uno strano
sentimento, di gioia e di ansia insieme, per una ragazzina di nome Marianna;
con lei avrei dovuto ritentare e forse allora sarebbe finita diversamente.
Mi trovai in mano la sigaretta; la
portai alle labbra e l'accesi: aspirai una prima
boccata e subito presi a tossire convulsamente.
Ero quasi chino al suolo a sputare
anche l'anima, quando mi arrivò una scapaccione fra
capo e collo.
“Ecco il nostro ometto; ma vattene a
casa a succhiare il latte”. Era Tonio che, fischiettando, entrava
dall'Adalgisa.
Ma perché mai avrei
dovuto diventare uomo, perché non potevo restare ragazzino? Fu solo un
attimo di sconcerto, poi ricordai il sorriso con cui