L'intervista di Salvo Zappulla a Maurizio de Giovanni, autore di Vipera, edito da Einaudi, comprensiva della relativa recensione
Vipera
di Maurizio de
Giovanni
Editore: Einaudi
Pagg. 360 €.
18.00
C'è un certo proliferare nella letteratura contemporanea di gialli,
thriller, omicidi efferati da svelare, marescialli e ispettori di polizia alle
prese con casi particolarmente rognosi. Un povero cristo di personaggio
letterario non fa in tempo a commettere il suo bel delitto che subito si ritrova
sguinzagliati sulle proprie tracce fior di investigatori pronti a rivoltarlo
come un guanto. Una società letteraria invasa da Forze dell'Ordine desiderose
di metterti le manette non appena attraversi con il rosso, pronte a puntarti
una pistola alla tempia non appena pesti la coda al gatto. Evidentemente il mercato tira, la gente si
appassiona alle storie
cruente e le case editrici rimpinguano il fondo cassa. Fa parte
del gioco. Tuttavia non c'è dubbio che una certa inflazione del genere esista.
Gialli, giallini, gialletti sbiaditi e scoloriti liberi di circolare
senza guinzaglio. Ma anche storie di grande spessore,
scritte con maestria, appassionanti e accattivanti, che tengono incollati alle
pagine. Cos' è allora che riesce a fare
la differenza? A far sì che in questo marasma in cui districarsi alcuni
scrittori e i loro personaggi
riescano a emergere, affermarsi e diventare familiari al grande pubblico? Mi riferisco al Montalbano di Camilleri, ai protagonisti splendidi della
divina Angela Capobianchi, al simpaticissimo maresciallo Bonanno di Mistretta, le pennellate d'autore di Patrizia Debicke; le
storie dure e pregevolissime del duo Costantini &
Falcone, il maresciallo Valdes di Paolo Roversi.
Questi sono, tra gli autori che ho letto di recente, quelli che mi hanno colpito favorevolmente. E
ci mettiamo, tra i grandi, anche la nostra Cinzia Giorgio de “L'enigma
Botticelli” (crepi l'avarizia). Ma vorrei soffermarmi, in questo
articolo, sul commissario Ricciardi di Maurizio de
Giovanni di cui ho riportato davvero un'ottima impressione. Ho appena finito di
leggere l'ultimo romanzo di Maurizio: Vipera. È ancora lì, fumante, sul
comodino, creatura viva, palpitante, che chiede quasi
di non essere condannata all'oblio. A ragione direi, visto che è un signor romanzo, uno di quelli che rimane scolpito nella
memoria del lettore. Così come il buon Camilleri riesce a far emergere una
Sicilia sanguigna e ruspante nelle sue storie, Maurizio porta alla luce i
tesori della Napoli più autentica, una Napoli degli anni
Carissimo
Maurizio, innanzi tutto i miei complimenti per “Vipera”, questo tuo romanzo mi
ha coinvolto molto, quasi commosso, portatore di valori autentici. Che
differenza c'è tra la Napoli che racconti tu e la Napoli di oggi?
Ti
ringrazio per i lusinghieri complimenti, che come sai venendo da te che sei un
lettore di rara intelligenza e straordinaria sensibilità mi gratificano
moltissimo. In effetti è sorprendentemente raro come
la letteratura nera, che dovrebbe essere in grado di individuare i confini del
crimine con precisione, si faccia raramente portatrice di valori come l'amore e
l'amicizia. Questo mi porta a rispondere alla tua domanda: Napoli è oggi una
metropoli occidentale, nel bene e nel male simile a tutte le altre grandi città
del Mediterraneo; Barcellona, Palermo, Marsiglia, Atene non sono
particolarmente diverse, pur conservando ovviamente le peculiarità delle
culture che rappresentano. Raccontare gli anni Trenta significa viaggiare in un
mondo radicalmente diverso da quello odierno, quando ancora non era stata persa
l'ingenuità che la seconda guerra mondiale cancellò brutalmente, sia con le
decine di migliaia di morti che causò sia con la terribile miseria, la fame che
portò. Un prima e un dopo, dunque, di cui risente
inevitabilmente la narrativa. Lo vedo anche quando, come ne
“Il metodo del Coccodrillo” e ne “I Bastardi di Pizzofalcone”,
di prossima uscita, racconto la città contemporanea: cambia anche il mio stesso
linguaggio, influenzato dal modo di vedere la città.
Dicono
che dopo San Gennaro e Maradona, il cuore dei napoletani batte per Maurizio de
Giovanni. Ti aspettavi questo straordinario successo dei tuoi libri? Non fare
il finto modesto.
Addirittura,
esagerato! Non è così, per fortuna; ma è vero che Ricciardi
è molto amato, in città e anche altrove. Sono reduce da un giro promozionale a
New York dove ho avuto modo di vedere come in soli
cinque mesi dall'uscita del primo romanzo ci sia già un folto gruppo di
appassionati dei personaggi che racconto, e così è anche in Spagna e in
Germania. A Napoli, dov'è nato, questa passione è naturalmente più percepibile
e questo mi commuove, e mi responsabilizza anche. Ogni
nuovo romanzo non deve deludere, e questo implica ricerche e costruzioni di
trame sempre nuove. Una faticaccia, insomma. Ma anche
un'enorme gratificazione, ovviamente. Tu sai perché ne abbiamo già parlato che
mi viene difficile perfino pensare di essere uno scrittore, figuriamoci a
definirmi di successo. Penso che il successo sia di Ricciardi,
e anche di Lojacono: io indegnamente sfrutto la loro
popolarità come se fosse mia, diciamo così.
Il
commissario Ricciardi e il commissario Lojacono, protagonisti dei tuoi romanzi, quali sono le
differenze più vistose tra i due.
Personaggi
che sembrano simili ma che non lo sono. Ricciardi ha
una natura chiusa, introversa, enigmatica e misteriosa per via del Fatto, la
condanna a vedere i morti ammazzati e a sentirne le ultime parole. Ha
difficoltà nei rapporti col prossimo, ha paura di tutti i sentimenti che
ritiene debolezze spesso fatali, cerca di evitare passioni e coinvolgimenti. Lojacono è invece un uomo che ama, che prova simpatie e
antipatie, che ha una figlia che adora, che esce non per sua volontà da un
amore e che prova attrazione e tenerezza. Hanno delle caratteristiche comuni,
non sono particolarmente di compagnia, per esempio, ma sono fondamentalmente
diversi al di là delle epoche nelle quali si muovono.
Tre
valori importanti per te.
L'identità collettiva, di città, di Paese, di cultura; la
famiglia, in tutti gli aspetti. Il Napoli, ovviamente.
Un
rimpianto.
Forse
avrei potuto cominciare a scrivere un po' prima dei 48
anni. Non moltissimo, perché penso che uno nella scrittura, a
meno che non abbia un talento straordinario e io non ce l'ho, debba
metterci la vita che ha vissuto, i libri che ha letto, i film che ha visto, gli
amori e le passioni; ma un po' prima sì.
La
soddisfazione più bella.
Sono
un uomo fortunato, dovrei scegliere tra tanti bellissimi momenti che la vita mi
ha regalato. Attenendomi a quest'avventura della scrittura, direi che il Premio
Scerbanenco mi ha particolarmente gratificato,
essendo io stato il primo meridionale a vincerlo.
Recensione
e intervista a cura di Salvo Zappulla