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La burrasca di ferragosto

La burrasca di ferragosto

La burrasca di ferragosto

di Renzo Montagnoli




Era una lunga estate, con giorni e giorni di estremo calore e con temperature che la notte calavano di ben poco, tanto che rivoltarsi di continuo nel letto alla ricerca di una parte del lenzuolo un po' fresca era diventata un'attività ginnica che di fatto impediva il sonno. La gente si risvegliava la mattina, ma meglio sarebbe dire si alzava già sveglia da ore, con gli occhi imbambolati, come se avesse ricevuto una randellata in testa. Fra l'altro non c'era il se pur momentaneo beneficio di un temporale, anche se il cielo sembrava coperto mostrando un colore grigio opaco che toglieva l'aria e qualsiasi speranza di cambiamento.

Fu uno di quei giorni (mancava poco al ferragosto) che in paese arrivò a bordo di una balilla traballante un ometto incredibilmente vestito di nero tanto da sembrare un beccamorto. L'auto si fermò davanti alla caserma dei reali carabinieri, l'uomo ne scese e bussò al portone, gli fu aperto e lui entrò. Dopo nemmeno dieci minuti ne uscì con il maresciallo e due militi, dirigendosi tutti assieme verso il municipio.

Iniziò così la cosiddetta burrasca di ferragosto, burrasca senza il canonico temporale, anche se tuoni e fulmini non mancarono. Di quel che accadde fummo resi edotti dal macellaio Cristoforo, che si trovava colà unicamente per chiedere un'autorizzazione per la sua attività.

Ebbene, come il gruppetto entrò, chiusero il portone così che nessuno potesse uscire e nemmeno a farlo apposta il primo che incontrarono fu l'usciere, un dipendente di recentissima assunzione che veniva da un'altra provincia. Gli chiesero chi fosse, lui fornì le sue generalità, l'ometto in nero osservò attentamente una lista che aveva su un foglio, fece un cenno al Maresciallo e subito l'usciere si trovò ammanettato. Si avviarono poi all'ufficio anagrafe e i due impiegati ebbero la medesima sorte; non contenti andarono dal podestà, il cavalier Nonfarmale, che strabuzzò gli occhi, protestò, gridò la sua innocenza, ma anche lui finì ammanettato. Invece il macellaio Cristoforo, non essendo nella lista, fu lasciato andare, previo ammonimento di di non raccontare a nessuno ciò che aveva visto, ammonizione vigorosa al punto che nemmeno dopo un quarto d'ora tutto il paese sapeva del fatto.

La notizia si sparse più veloce del vento e trovò conferma nei quattro ammanettati che, scortati dai reali carabinieri, furono condotti in stazione per essere messi sul treno che portava in città ed essere rinchiusi nelle locali carceri.

Questo il fatto, tangibile, verificabile, ma era ovvio che ci si chiedesse il perché e in proposito all'osteria della bionda fiorirono le più strampalate ipotesi. Ci fu chi, accampando la parentela con uno che sapeva, affermò che il municipio era un covo di antifascisti; altri invece, e non erano pochi, dissero che lì, negli uffici comunali, fioriva da tempo una loggia massonica; un altro rammentò di un compaesano che, andato in municipio per perorare una sua causa, era stato maltrattato da tutti e addirittura insultato dal podestà, al che aveva giurato di vendicarsi denunciandoli.

Le ipotesi erano anche di più, ma non erano assistite da uno straccio di prova, si affermava tanto per parlare, e fra l'altro si trovava negli arrestati un piglio criminale che non era mai stato notato, come se l'aver avuto le manette ai polsi li avesse trasformati. La mancanza di notizie ufficiali faceva il resto, tanto più che i familiari degli arrestati, interpellati dai vicini, sembravano cadere dalle nuvole, al punto che non pochi dissero che di certo sapevano, ma che non parlavano in quanto complici.

Nemmeno il parroco aveva notizie diverse, anzi il fatto che ammonisse i paesani a non trarre conclusioni affrettate rinforzò in loro la convinzione che facesse finta di ignorare, magari anche lui parte della combutta.

Si sa, le voci corrono, ognuno aggiunge qualche cosa, e da un soffio di vento si alza una burrasca, così che arrivati a sera l'ultima versione parlava sì dell'arresto, ma dopo una violenta sparatoria, con morti e feriti.

Se un temporale c'era, questo era il rincorrersi delle voci, le menzogne che si innestavano nella verità, i sospetti che diventavano certezze e si arrivò al punto che la voce popolare condannò in anticipo gli arrestati, senza sapere il capo di imputazione, emarginando i familiari, guardati come fossero pure loro dei criminali.

La notte, torrida più che mai, non trascorse tranquilla, era tutto un parlottare che alle prime luci dell'alba si trasformò in un vociare confuso e crescente, come un coro di calabroni dove ognuno, per affermare la sua ipotesi, sovrastava con la voce quella dell'altro. Ormai mancava poco che decidessero di andare in città, di recarsi alle carceri, farsi consegnare i prigionieri per giustiziarli e così pensarono di fare, anche perché qualche scriteriato mise in giro voci di un presunto giro di minorenni, addirittura di bambine, realizzato da tempo dagli incarcerati. Quando la tensione era ormai al massimo e la gente attendeva in stazione il treno per andare a farsi giustizia, sull'altro binario arrivò il convoglio dalla città e ne scesero i quattro arrestati, liberi da manette.

La gente strabuzzò gli occhi, rimanendo attonita, e poiché i presunti colpevoli si erano convinti che quella moltitudine fosse lì per attendere il loro rientro, cominciarono a ringraziare. Dopo un attimo di incertezza si levò un lungo applauso e i quattro furono scortati trionfalmente fino al centro del paese; qui il podestà volle parlare: - Amici miei, miei concittadini, siamo tornati da innocenti, come lo eravamo prima. E' stato tutto un malinteso.

Non aggiunse altro e fioccarono altri applausi.

Cosa fosse esattamente successo si seppe solo un mese dopo, quando già le prime piogge ristoravano i terreni rinsecchiti dalla lunga calura e fu una notizia che serpeggiò con meno clamore, da fonte certa, visto che si trattava dell'avvocato Tenerossi. In poche parole, all'autorità giudiziaria era giunta notizia che un pericoloso delinquente, latitante, avesse trovato rifugio nel nostro paese e che fosse ospitato in municipio, con la complicità del podestà e degli impiegati. Il caso volle che il ricercato si chiamasse Alfredo Ravasenga, proprio come l'usciere, con cui aveva in comune anche una certa somiglianza. Appurato il malaugurato caso di omonimia, erano stati posti in libertà, senza nemmeno una scusa, perché sotto il fascio l'autorità non sbaglia mai.

Se ne continuò a parlare ancora per qualche giorno, poi, quando cominciarono a cadere le foglie, anche il fatto venne a cadere e rimase solo un ricordo, un brutto ricordo per gli interessati.

Le uniche conseguenze del disguido le patì il maresciallo dei carabinieri che non verificò preliminarmente se il Ravasenga del municipio fosse effettivamente il ricercato, negligenza accentuata dal desiderio di mettersi in bella mostra con i suoi superiori, tanto da presupporre la complicità degli impiegati e del podestà. Fu trasferito, ma non gli andò male, perché lui, originario della provincia di Perugia, fu destinato al comando della Stazione Carabinieri di Assisi, quasi un premio, così che tutti vissero felici e contenti, compreso il ricercato che continuò la sua latitanza.


Da Storie di paese