Vecchia Roma, di Laura Costantini e Loredana Falcone
VECCHIA ROMA…
di Laura Costantini e Loredana Falcone
“… vecchia Roma sotto la luna nun canti più…”
La voce è potente, troppo per rendere
a pieno la dolcezza di quelle strofe che, lui non può dimenticarlo, sono le
stesse che aveva dedicato a Marella la notte che
l'aveva portata a far l'amore nei campi dietro Piazza della Rovere…
A cantare è un giovanottone
in jeans sdruciti, maglietta di Greenpeace e una
barba ispida che va a mescolarsi ai dread simili
a cannolicchi di stoppa. Le sue dita si muovono agili sulle corde della
chitarra, ma gli accordi sono duri, più adatti alla musica di
questi anni. Anni in cui tutto va all'incontrario,
donne che sembrano uomini, uomini che sembrano donne e notti scambiate
col giorno per decreto comunale. A Remo ‘st'idea
della Notte Bianca proprio non gli va giù. Lui ha settantasette anni, di
cui cinquanta passati a lungotevere della Farnesina,
piano terra. Ha visto aumentare di anno in anno il fiume mefitico del traffico
romano. Ha dovuto mettere i doppi vetri per potersi proteggere dallo smog e dal
rumore ininterrotto dei pneumatici lanciati sull'asfalto. E per questo ha
dovuto rinunciare alle sirene delle autoambulanze del Fatebenefratelli.
Un suono che è l'unico a trovare confortante e il motivo è sempre lo stesso:
Marella che faceva l'infermiera nell'ospedale dell'Isola Tiberina, Marella che
se n'è andata ormai da tanto tempo, Marella che amava quella canzone.
Il ragazzo, intanto, ha finito. I
numerosi avventori del ristorantino improvvisato
sull'argine del Tevere sembrano sollevati ma non
disposti a versare, per tale sollievo, l'obolo che chiede girando per i tavoli.
Quando arriva al suo, di tavolo, Remo alza gli occhi a guardarlo.
“O cambi musica o cambi mestiere”,
dice.
“Come?”
“Hai capito, hai capito. Quella non è
roba che puoi cantare come la canterebbe Ligabue. Le
canzoni romane vogliono la filatura…”
“Si, vabbè…”
Si gira per andarsene, ma Remo lo
blocca. La mano macchiata dal tempo artiglia un tatuaggio a colori.
“Mettete a sede e passami la
chitarra.”
Il ragazzo lo fissa, indeciso, poi
alza le spalle. Tanto la serata è moscia. A Roma si stanno esibendo orchestre e
gruppi, Lucio Dalla e i Negramaro e quelli seduti ai
tavoli stanno lì per gli spaghetti cacio e pepe. Siede, accetta il
bicchiere di vino e molla la chitarra al vecchio.
Remo accarezza lo strumento, aggiusta
qualche tono, si sciacqua la bocca col cannellino poi imposta le dita
sull'accordo…
oggi er modernismo der
novecentismo
rinnovanno tutto va
e le usanze antiche e semplici
so' ricordi che sparischeno
e tu Roma mia senza nostalgia
segui la modernita'
fai la progressista
l'universalista
dici okay I love thank you ja ja
vecchia Roma sotto la luna
nun canti piu'
li stornelli
le serenate de gioventu'…
Il ragazzo non crede ai suoi occhi. All'improvviso il mormorio dei
tavoli è cessato, lasciando che solo il fruscio del fiume che scorre accompagni
la voce poca ma ‘ntonata di Remo Tarquini, oggi pensionato ma un tempo commesso da Ricordi.
Quando finisce, l'applauso scatta spontaneo subito seguito dalle richieste: Barcarolo Romano, Pupo Biondo, Casetta de' Trastevere.
Remo si
schermisce, si alza, si inchina al pubblico improvvisato, restituisce la
chitarra e, scolato l'ultimo sorso di vino, si immerge nel flusso della folla
che si avvia alle scale per il Lungotevere.
“Aspetta!”
Stavolta è la mano grande del ragazzo ad artigliare lo scarno avambraccio.
“Questi so' tuoi.” E gli fa
scivolare in tasca otto monete da un euro. “La chitarra è la mia, ma la voce
era la tua”, spiega.
Remo scuote la testa e porge i soldi.
“Fanno
più comodo a te che a me.”
Il ragazzo
non protesta.
“Pure tu
hai fatto ‘sto mestiere?”
Le scale
sono arrivate e le salgono insieme.
“No. Ma de' canzoni ne ho sentite tante e l'ho pure cantate…”
L'affanno
si fa sentire e il ragazzo gli porge il braccio per tenersi sui gradini
scivolosi. Remo accetta volentieri.
“Brutta
bestia la vecchiaia…”
“Mica sei così vecchio…”
Remo lo
guarda.
“Come hai
detto che te chiami?”
“Stefano.”
“Stefano,
ma che me stai a portà in
giro? Potrei esse' tu nonno.”
“Aveccelo un nonno che canta così, potevamo fa un duo.”
Si
fermano. Dalla balaustra del lungotevere gli argini e i ponti illuminati sono
uno spettacolo. Stefano tira fuori di tasca le cartine e comincia a rollare una
canna. Remo lo guarda senza scandalizzarsi.
“Quelle te arrochiscono la voce”, dice.
“Macché,
io una voce come la tua me la sogno comunque… com'è quella storia della filatura?”
“Roba
vecchia, dei tempi di Carlo Buti, Tito Schipa, Claudio Villa ma da giovane…”
Stefano
accende.
“Mai
sentiti nominare”, confessa esalando il fumo dolciastro.
“Non mi
stupisce… vabbé, io me ne torno a casa. Se me dice
bene, mi faccio due ore di sonno prima che fa giorno… Grazie.”
“Grazie
de che?”
“Della
canzone.”
Stefano
allontana il fumo sventolando una mano.
“Ma se
l'hai cantata te.”
“Appunto,
erano quarantasette anni che me la portavo dentro.”
Gli occhi
di Remo si fanno distanti. S'appoggia di schiena al parapetto e guarda la
strada intasata di auto che aspettano il verde dal semaforo di Ponte Cestio.
Quel
semaforo che non c'era quarantasette anni prima.
“Ce l'hai la ragazza?”, chiede.
“Una
mezza specie.”
“Ce l'avete una canzone?” Non aspetta la risposta. “Vecchia
Roma era la nostra. Quella del primo appuntamento. Claudio Villa cantava
dal juke-box e io e Marella ce facevamo gli occhi dolci.
All'epoca mica ce se baciava davanti a tutti, come
fate voi. I pizzardoni te facevano la multa se te
beccavano.”
Stefano
sorride e ascolta. La cannabis ovatta il presente
caotico della Notte Bianca e avvicina il passato. Si lascia scivolare a
terra e lo invita a fargli compagnia.
“E poi
chi me tira su?”, chiede Remo.
“Ci penso
io…”
E'
riluttante. Seduto per terra insieme a quel ragazzo dai capelli cespugliosi,
avvolto dal fumo della canna, col rischio di essere caricato dalla Caritas e ritrovarsi a Sant'Egidio.
Poi si arrende e, in uno scricchiolio di giunture, si siede incurante dei
pantaloni chiari.
“Marella
faceva l'infermiera qui, al Fatebenefratelli”, dice
indicando con il pollice alle sue spalle. “Io c'ero capitato per un incidente
con la bicicletta, un bel volo sulle rotaie della circolare rossa,
quella pe' l'università…”
“Il 30…”,
precisa Stefano, ma Remo non ascolta.
“Un colpo
di fulmine come se ne vedono pochi. Dopo manco due mesi so' salito dal padre a
chiedere la mano. Santa Maria degli Angeli era piena il giorno che m'ha detto
di si, e c'era un sole…”
“Avete
avuto figli?”
Di solito
a Stefano non piace stare a sentire i vecchi, ma Remo
ha un modo tutto suo di raccontare le cose. Non cerca la sua attenzione, parla
per se stesso, lo scarica di ogni responsabilità. Tira un'altra boccata di
fumo.
“Magari…
non c'è stato il tempo.”
Piatti
e bicchieri, tutto in ordine. La pentola è sul fuoco e l'acqua bolle. Guarda
l'orologio a muro: le nove meno un quarto. E' ora di calare la pasta. I
bucatini si aprono a corolla e lui li rimesta col forchettone stando attento
che affoghino tutti. Stappa il vino rosso e lo versa
nella caraffa, poi si avvicina alla finestra. L'Isola Tiberina è una visione
tra le fronde dei platani, le finestre dell'ospedale sono ancora tutte
illuminate. Quando si spengono è il segnale: Marella ha finito il turno. Torna
in cucina e apre lo sportello del frigorifero nuovo di zecca: sul ripiano più
alto la charlotte è bianca come una nuvola sotto la scritta Buon Anniversario.
Tutto in ordine. Anche il 45 giri è pronto sul piatto del giradischi. Ripassa
il piano: scolare la pasta al dente, condirla con il sugo alla matriciana, quello che Marella preferisce, mettere la pasta
nei piatti nel momento in cui lei appare su ponte Cestio,
abbassare la puntina sul disco e, mentre Vecchia Roma si mescola al profumo dei
bucatini, mettersi dietro la porta con il mazzo di rose rosa che ha fatto
confezionare per lei. Rosa, perché se Marella ancora non gliel'ha detto, lui
l'ha capito che è incinta e sa pure che sarà una femmina. Se lo sente.
La
pasta è nei piatti, il pecorino pronto da grattare. Il braccio del giradischi
scende sul 45 giri e Claudio Villa comincia a cantare.
…oggi er
modernismo der novecentismo
rinnovanno tutto va
e le usanze antiche e semplici
so' ricordi che sparischeno…
Lui
spia dalla finestra e vede che Marella è ormai quasi alla fine di Ponte Cestio.
…er progresso
t'ha fatto grande
ma sta' citta'
nun e' quella 'n do' se
viveva
tant'anni fa…
Afferra il mazzo di fiori e corre a mettersi
dietro la porta.
…piu' non
vanno l'innammorati
per Lungotevere
a rubbasse li baci a mille
la sotto l'arberi…
Una frenata.
Un urlo.
Uno schianto.
…e li sogni sfojati
all'ombra
de un cielo blu
so' ricordi de un tempo bello
che nun c'e' piu'…
E' il freddo che sale insieme al sole
a svegliare Stefano. Apre gli occhi e insieme al buio volano via frammenti di
immagini: spaghetti… no, forse bucatini e una strada, una voce che canta Vecchia
Roma e il rumore inconfondibile di una frenata inutile. Non fa in tempo a
chiedersi se era un sogno, la testa bianca del vecchio
gli ha indolenzito la spalla. Adesso ricorda.
“Remo… oh, Remo, sveglia che ti offro
la colazione…”
La testa ciondola, poi lentamente,
come un albero privato della base, crolla. Remo gli si adagia in grembo, come
un vecchio bambino stanco e Stefano gli vede il viso. Ha gli occhi chiusi, ma
le labbra sembrano fischiare un vecchio motivo…
Vecchia Roma sotto la luna
nun canti piu'…