Il realismo magico di un cardiologo in trasferta, di Renzo Montagnoli
Il realismo magico di un cardiologo in trasferta
di Renzo Montagnoli
Probabilmente Giuseppe Bonaviri non avrebbe mai immaginato di diventare un grande scrittore e già per lui deve essere stata una grandissima soddisfazione prima di laurearsi in medicina e poi di specializzarsi in cardiologia, soddisfazione che sarebbe stata propria di ogni individuo, ma nel caso specifico del tutto particolare alla luce dei sacrifici che dovette sostenere con la sua famiglia di certo non considerata abbiente. Vide la luce l'11 luglio 1924 a Mineo, un piccolo paese della provincia di Catania sito alle pendici dei monti Iblei, una località che sarà sempre presente in tutti i suoi scritti, talora descritta nella sua quotidiana realtà, più spesso permeata da un alone di magia. Già ne parla diffusamente nel suo primo romanzo, Il sarto della stradalunga, che potremmo definire una storia di famiglia raccontata con quella vena malinconica che non gli verrà mai meno e dove l'infanzia di Peppi (Giuseppe, lo scrittore) è descritta con mano felice con lo scopo non solo di fissare i ricordi, ma anche, e soprattutto, per conservare il legame affettivo con il paese natio. Il libro, notevolmente apprezzato da Vittorini, costituì la piattaforma di lancio di tutta la successiva produzione letteraria, con un quadro familiare così ben tratteggiato da restare indelebilmente impresso nel lettore; di rilievo è la figura di Mastro Pietro, il sarto padre dell'autore, un uomo che per l'ambiente è considerato un letterato sapendo leggere e scrivere, ma che è anche il ritratto di una speranza delusa, di quel tentativo di uscire dal cerchio invalicabile della miseria, lasciando la campagna per l'artigianato. La caratteristica dell'opera è che ci sono tre parti narranti, il padre, la zia Pina e lui Peppi, ognuna delle quali interviene a integrazione del racconto.
Evidentemente però Mineo, se restava fonte di ispirazione, tuttavia aveva l'inconveniente di non dare la possibilità di tradurla in un'opera, ma ne sarebbe occorso il distacco, la lontananza imposta dalle necessità lavorative, una specie di catalizzatore che avrebbe rappresentato per Giuseppe Bonaviri il brodo creativo in cui far nascere le sue migliori narrazioni. E' con il trasferimento a Frosinone, dove lavora come medico cardiologo, che prende avvio la grande creatività del nostro Peppi che peraltro, come ebbe a raccontare, è alimentata dall'atmosfera magica che era presente intorno a una pietra, detta della poesia, che si trova vicino a Camuti, pietra che fino al 1850 vedeva riuniti intorno a se stessa parecchi poeti provenienti da diverse zone siciliane per gareggiare scrivendo e recitando versi. Già in questa affermazione si comincia a intravvedere uno spirito magico, che poi si riscontrerà in tutte le opere che seguiranno a cominciare da La contrada degli ulivi, un racconto lungo in cui si descrive mirabilmente la povera vita della gente legata alla terra, con quella caratteristica di immutabilità che era propria della civiltà contadina. Questo lavoro, che conferma le qualità dello scrittore, per certi versi può essere considerato propedeutico di tutta una serie di opere in cui l'essere umano, pure al centro dell'attenzione, è inserito perfettamente nel quadro di una natura, con la quale interagisce, come se la stessa avesse una personalità e la capacità di proporsi come soggetto e non come oggetto. Al riguardo basta leggere La divina foresta per comprendere meglio; lì la scrittura è immaginativa e non a caso entusiasmò Calvino, che non poteva, date le sue caratteristiche, restare indifferente a quel sorgere della vita in un mondo primordiale descritta con una fantasia dall'efficacia sorprendente, e con una serie di successive metamorfosi che richiama alla memoria, pur nelle loro differenze, la famosa opera di Ovidio. La vicenda di un magma inconsistente che si apre alla vita, prima indefinibile, poi vegetale, trasformandosi infine in un avvoltoio trova un'esatta definizione in quel poema biologico che proprio Calvino ebbe a riscontrare leggendo il libro. Sarebbe tuttavia limitativo pensare solo che Bonaviri abbia inteso darci una sua personale visione della creazione e dell'evoluzione della vita, perché secondo me l'opera presenta altre interpretazioni, non in contrasto fra loro, che non possono che nobilitare ulteriormente il lavoro dello scrittore di Mineo. Fra queste non di certo trascurabili sono le riflessioni filosofiche che ogni tanto emergono nel linguaggio di vegetali e di animali, un porsi il perché dell'esistenza in specie minori che presenta il vantaggio di semplificare i loro ragionamenti a tutto beneficio del lettore. Successivamente uscì Notti sull'altura, opera meno riuscita della precedente per una certa complessità, non disgiunta da una struttura disomogenea, che rendono non facile la lettura, facendo perdere soprattutto il filo della storia e di fatto costringendo spesso a ritornare su punti precedenti. Infatti c'è tanto e tanto, per non dire troppo, ed è un peccato perché questo immaginario ritorno a Mineo dell'autore sotto le spoglie di Zephir avrebbe tutte le carte in regola per stupire e avvincere già da subito. Il ripercorrere la propria infanzia in un mondo incantato, fatto di valli e di boschi, abitati da una miriade di uccelli e da alberi rari, il viaggio che si concretizza in un'esperienza fantastica, il paese natio visto come riparo sicuro dai mali del mondo sono temi costanti della poetica di Bonaviri, e dico poetica non a caso, perché la sua prosa, per stile e invenzioni, è una prosa poetica, di grande e appagante effetto. La vicenda, in sé e per sé, può sembrare poca cosa, ma è il suo svolgimento che delinea la qualità dell'opera, ciò che sottende e che conduce piano piano in una realtà parallela che non può non turbare prima, e avvincere poi. Tengo altresì a precisare che la valutazione di “meno riuscita” porta, nel caso dei lavori di Bonaviri, a opere che sono ciò nonostante di notevole livello e che in altri autori sarebbero da considerare al più di eccellenza. Il problema è che che quando si ha che fare con un genio della letteratura si vorrebbero leggere solo capolavori e fra questi troviamo anche L'enorme tempo, forse il mio preferito, di cui nella mia recensione ebbi a scrivere “Il tempo sembra essersi fermato a Mineo, immobile da secoli, come se si fosse cristallizzata la vita in una miseria a cui gli abitanti si sono assuefatti al punto che questo “enorme tempo” attenua i drammi quotidiani, le sofferenze, in una rassegnazione che sì stupisce, ma, soprattutto, lascia attoniti quelli, come noi, che trascorrono l'esistenza in un susseguirsi di periodi che non sono mai uguali. Giuseppe Bonaviri, fresco laureato in medicina, dopo gli studi a Catania e il servizio militare in Piemonte, ritorna al paese natio e lo riscopre, fra l'entusiasmo di chi avvia una carriera e l'umana profonda pietà che sgorga, costante, pur essa immensa, nel corso di tutto il romanzo. La sua è una discesa in un girone infernale, dove la miseria si autoalimenta; lo accompagna un vigile sanitario che di volta in volta può somigliare al Virgilio della Divina Commedia, soprattutto quando insieme si abbandonano a pacate riflessioni, oppure al Sancho Panza, fedele scudiero di un Bonaviri-Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento dell'ottusità burocratica, della superstizione e del potere che toglie, con l'acqua, quel poco che la povera gente ha. E' una scrittura che ricorda quella del Sarto della strada lunga, incline a un verismo senza sconti, ma pur tuttavia di tanto in tanto impreziosita da quella vena fantastica che è propria dell'autore siciliano e che nell'accostamento fra la semplice solennità della natura e la tragedia dell'esistenza umana ricorda e riconduce l'uomo al suo ruolo nell'ambito della creazione.”.
Non è mia intenzione parlare di tutta la corposa produzione di Bonaviri perché il tema di questo mio scritto è il realismo magico dell'autore siciliano, una sua caratteristica che riscontriamo anche in un altro grande narratore, Gabriel Garcia Marquez, il cui romanzo più noto è certamente Cent'anni di solitudine.
Proprio per questo e per dare un senso compiuto a questo articolo ritengo opportuno parlare più diffusamente di una raccolta di racconti, L'infinito lunare, di molto posteriore alle opere di cui prima ho parlato. In tal senso
mi sono più volte chiesto perché l'autore siciliano abbia scelto il genere fantastico per esprimere la sua visione del mondo e così, opera dopo opera, sono arrivato alla convinzione che abbia ritenuto di rappresentare in questo modo una realtà sfuggente, un nesso logico che regola l'esistenza e che quasi sempre non riusciamo a cogliere, presi da comportamenti e da atteggiamenti che ci vengono imposti e ci imponiamo come attori, anzi quasi sempre comparse, di una rappresentazione che erroneamente crediamo fermamente corrisponda a un'oggettività del nostro ciclo vitale. Non ci accorgiamo, invece, che la nostra è una finzione e anche se lo intuiamo preferiamo proseguire per la strada intrapresa, in una commedia di cui ci illudiamo di essere, oltre che interpreti, anche registi. Bonaviri capovolge così il concetto di fantastico, scoprendo quel che accade dietro le quinte, quella realtà che ignoriamo e temiamo.
Spero di essere riuscito a delineare questo straordinario aspetto di uno scrittore che certamente avrebbe meritato il premio Nobel al pari di Gabriel Garcia Marquez, che ne fu invece gratificato. Direi però che non c'è da crucciarsi perché gli scritti di Bonaviri mostrano inalterato nel tempo il loro valore, il miglior riconoscimento che possa avere un autore, più di qualsiasi premio, ciò che vale di più, cioè la riconoscenza di chi legge ed è così consapevole della profondità di ciò che attraverso i suoi occhi è entrato in lui.