Vittime di guerra
di Renzo Montagnoli
Fischia il vento oggi sul Basson (*), l’estate sta per lasciare il posto all’autunno, un avvicendarsi di stagioni che accompagnano ogni anno. Cammino per questo solco che è poi quel che resta di una trincea e guardo le cime eterne testimoni di questo scorrere del tempo. Là il monte Cimone che il 23 settembre del 1916 una mina italiana decapitò, più vicino, verso Nord, la cima Vezzena con la sommità incappucciata dall’omonimo forte. E terra di fortezze è questa, sentinelle arroccate che si fronteggiano: a settentrione quelle austriache, a mezzogiorno quelle italiane. Non intendo però andar oltre, divagare su quello che accadde in quell’immane conflitto che fu chiamato la Grande Guerra; desidero invece raccontare una vicenda, che pure è stata narrata a me, e che avvenne il 24 agosto 1915 appunto sul Col Basson.
L’Italia era entrata in guerra da poco e a parte quei territori che aveva subito conquistato perché ritenuti indifendibili dagli austriaci e che pertanto avevano preferito ritirarsi su posizioni più consone, di obiettivi ne aveva raggiunti ben pochi, ma lo spirito combattivo era ben presente, come testimoniato dalla prima e dalla seconda battaglia dell’Isonzo (rispettivamente 23 giugno – 7 luglio 1915; 18 luglio – 3 agosto 1915), concluse con una carneficina senza ottenere risultati apprezzabili.
Ed ecco il racconto della battaglia del Col Basson.
E’ la notte fra il 23 e il 24 agosto, nelle trincee italiane non si dorme e nemmeno in quelle austriache, stante l’incessante bombardamento delle artiglierie del Regio esercito che dura ormai da dieci giorni, ma c’è una ragione in più per non aver sonno, per essere in ansia: domani ci sarà l’attacco, il sergente ne ha accennato, ma c’è una conferma indiretta, data dalla distribuzione straordinaria di grappa, ben più di un gavettino a testa. Sì, se non si è almeno quasi ubriachi é difficile pensare di uscire dai rifugi, se pur precari, e, baionetta in canna, correre verso la triplice fila di reticolati austriaci che il bombardamento dovrebbe avere neutralizzato, saltare nell’opposta trincea, scannare altri poveri diavoli che pure ora non dormono, e tutto questo per la gloria dell’Italia, ma soprattutto del re.
“Hai da accendere?”
“Ecco.”
“Grazie. Questa notte non passa mai.”
“A chi lo dici…”
A parlare sono due fanti della brigata Treviso, è la prima volta che si vedono, ma fra compagni di avventura, anzi di sventura, dialogare vuol dire allontanare, o comunque allentare la tensione per l’imminente scontro.
Si presentano: “Giuseppe Gualandi, sono di Mantova”. “Francesco Aguglia, sono di Mondovì.” Sono entrambi giovani e ambedue sposati.
“Giuseppe cosa fai nella vita? Io lavoro a giornata in campagna.”
“Faccio l’imbianchino, ma sto studiando per diventare pittore.”.
Poi segue un lungo silenzio, ognuno si rinchiude nelle sue paure, pensa non tanto al domani quanto invece al passato.
Ogni tanto un razzo illuminante squarcia le tenebre e allora i soldati abbassano la testa, automaticamente, come se quella luce improvvisa li rendesse più vulnerabili. Altri chiacchierano, qualcuno prega, ma nessuno dorme, segno che l’alcool non ha ancora fatto effetto e infatti arriva una nuova distribuzione. Giuseppe e Francesco sorseggiano la grappa, hanno le labbra secche e anche la gola è secca, come se avessero mangiato solo polvere.
“Giuseppe, secondo te i ricchi fan la guerra?”
“Più che farla, la fanno fare a noi poveri.”
“A casa non me la passavo bene, il lavoro è poco e quindi le entrate sono limitate, ma non così le spese quando soprattutto devi provvedere a moglie e figli, che sono due. Preferisco però la cena a base di polenta e latte e il calore della mia famiglia, piuttosto che stare qui ad attendere di ammazzare e di essere ammazzato.”
“Non ho ancora figli, ma mia moglie è incinta e dovrebbe nascere verso fine settembre. Siamo poveri anche noi, ma mille volte meglio è stare là che essere qui.”
Passano le ore, arriva l’alba, è il momento. Si sale dalla trincea, un unico grido “Avanti, Savoia” e più di mille uomini corrono verso i reticolati austriaci, purtroppo ancora pressoché intatti. La scena è drammatica, ma anche surreale, perché alla testa dei suoi uomini c’è il tenente colonnello Marchetti, che poi risulterà fra i caduti, con la fanfara reggimentale che suona l’assalto, cose d’altri tempi, di battaglie in epoca napoleonica. Dalle trincee avversarie si comincia sparare, così come sparano i cannoni dei vicini forti nemici. Impossibilitati a superare i reticolati - ma in qualche punto qualcuno ci riuscirà - i nostri soldati sono soggetti a un martellamento continuo e cadono come birilli.
Francesco corre alla disperata, procede a zig zag, ma a un certo punto lancia un grido disperato, si porta entrambe le mani alla testa e cade ormai morto, ucciso da un pallettone di uno shrapnel che gli ha trapassato il cranio. Giuseppe, disteso a terra, si lamenta, ovunque ci sono morti, chi colpito da una pallottola di mitragliatrice, chi dilaniato da un proiettile d’artiglieria. Sul campo di battaglia si alza una nuvola di fumo denso e come se non bastassero le armi dei nemici si mettono anche i nostri cannoni, con un tiro corto di proiettili a gas che bruciano i polmoni dei nostri fanti. Le nostre perdite sono ingenti: 43 ufficiali e 1.048 uomini di truppa, come si saprà in seguito. I superstiti vengono presi prigionieri quando già accorrono sul campo di battaglia i portaferiti. Un sacerdote austriaco impartisce le estreme unzioni ai caduti e arriva nel punto in cui giace Giuseppe, che con la mano gli fa cenno di accostare le sue orecchie alla sua bocca.
“Padre, soffro tanto, forse sto per morire, mi benedica.” Il prete lo guarda e nota che a parte le gambe maciullate non ci sono altre ferite serie. Chiama a gran voce i portaferiti, che accorrono, caricano Giuseppe su una barella e lo portano al loro ospedaletto. Lui è svenuto, tanto che non ricorderà più nulla. Sei mesi dopo, trascorsi quasi tutti in ospedale, è uno di quegli invalidi che vengono scambiati per umana pietà e anche perché ormai inutili alla guerra. Nel treno che lo riporta a casa pensa cosa dire alla moglie, che peraltro è già stata informata che il marito ritorna privo dell’uso delle gambe. Prova amarezza e vergogna per la sua condizione e quasi invidia Francesco che invece è morto. Sarà accettato, ma soprattutto lui sarà in grado di accettarsi? Arriva in stazione, Giuseppe è sulla poltrona a rotelle, lo fanno scendere e fra la folla vede sua moglie con in braccio un piccino. Gli si riempiono gli occhi di lacrime, lei si fa largo fra la gente e lo abbraccia.
“Ben tornato amore mio.”
“Sono un rottame, un mezzo uomo, se vuoi sei libera di rifarti una vita.”
“Sì, Giuseppe, sarà una nuova vita, ma con te e con questo pupo che ti vede per la prima volta”.
Giuseppe non dice nulla e piange ancor di più, ma questa volta di felicità.
Ritornerà in seguito al Basson, grazie a delle protesi che gli consentono una certa indipendenza, camminerà in quella piana che era insanguinata, sentirà fischiare il vento, darà un saluto alle ombre di chi lì è caduto.
Passano gli anni, ci sarà un’altra guerra, e poi di nuovo un periodo di pace ed eccomi a oggi, pure io su questa piana a immaginare un reggimento di scheletri che escono dalla terra e che esortano gli uomini a non dimenticare gli orrori di una guerra.
(*) Località che si trova sulla Piana di Vezzena