DISSOLVENZE
Nel breve romanzo della mia vita,
ogni persona conosciuta ha aggiunto una nuova parola. Io mi sono sempre
limitato a porre dei puntini di sospensione…
Ho scrutato per anni la vita che
prosperava attorno a me, bramandola senza mai coglierla; osservavo, con curiosa
trepidazione, ignoti volti vagare dinnanzi alle ante socchiuse della mia
finestra. Mi divertivo ad incrociare senza alcuna logica nomi,
professioni, azioni e destini, assaporando il dittatoriale piacere di poter
disporre liberamente delle vite altrui.
Ma l'illusione è una prerogativa
della mente infantile: diveniamo adulti nel momento in cui releghiamo i sogni
alle anguste ore notturne, lasciando che essi svaniscano col diradarsi delle
tenebre.
Amo la notte. Crescendo, ho imparato
ad odiare il suo naturale alter ego, il giorno: ritenevo un'ingiustizia che il
giovane Apollo portasse via con sé le tenebre ed i sogni, e le illusioni e le
speranze di cui è intrisa la loro essenza. Il giorno ruba la parte migliore di
noi, la nostra primitiva innocenza…
Ricordo con un fremito nostalgico la
prima volta in cui gli occhi di Lei s'affacciarono nella mia anima. Era l'alba di un nuovo, inutile giorno;
sostavo inerte davanti alla mia finestra, avvertendo la sensazione di essere
stato depredato per l'ennesima volta d'ogni mia chimera. Un polveroso raggio di
sole, sospeso nel vuoto, testimoniava l'avvenuta razzia.
Ero lì, i vetri riflettevano
l'immagine sbiadita del mio volto. E all'improvviso, una presenza ignota si
specchiò nei miei pensieri, e il mio cuore tremò. L'istinto mi consigliò di
fuggire, ma Lei sorrise, e fuggì soltanto il timore.
Dopo aver trascorso anni a
contemplarne il desolante vuoto, la casa posta di fronte alla mia finestra
tornava finalmente a mostrarsi viva, accogliendo la più delicata fra tutte le
creature, la più dolce, la più amabile.
Con quel sorriso, ella mi aveva reso
partecipe del suo mondo incantato.
Vivevo, finalmente. Vivevo con la
consapevolezza di vivere.
Non ho mai conosciuto il suo nome, né
il suo lavoro, né ulteriori elementi della sua vita; e ancora oggi non saprei
fornire una descrizione attendibile del suo volto, o del suo corpo. Sin dal
nostro primo ed unico incontro di sguardi, ella mi apparve come avvolta in una
luce soffusa, che impediva ai miei sensi di distinguere in maniera chiara il
contorno dei suoi lineamenti.
Del resto, nessun altro sorriso
filtrò mai attraverso quei vetri opachi, e a me non restò che la magra
consolazione di poterla osservare saltuariamente durante il corso della
giornata.
Anche la mia famiglia venne a
conoscenza della nuova vicina; mia madre, nel nominarla, era solita riferirsi a
lei definendola “la donnaccia”, soprattutto in presenza
di mio padre. Non compresi mai il significato di quell'appellativo,
anzi, lo rifiutai, così come un organismo rigetta e disconosce un corpo
estraneo.
Quando ero piccolo, i miei coetanei
evitavano la mia compagnia; sapevo di essere diverso dagli altri, bastava che mi
specchiassi nell'acqua del lavabo per rendermene conto. Mia madre spesso mi
prendeva da parte e cercava di convincermi del contrario.
Patetici tentativi: io conoscevo bene
la realtà…
Emarginato dagli altri bimbi, tendevo
a rifuggire la pietà familiare e a cercare conforto fra i libri della casa; non
frequentando la scuola, trascorrevo le mie giornate leggendo romanzi e poesie.
Conobbi così Poe, Hesse,
Kafka e molti altri autori.
Quando la solitudine diveniva
insopportabile, però, tornavo a sedere davanti alla mia finestra, e la
sfuggente comparsa di Lei bastava a rinfrancare il mio cuore; a volte, nei miei
pensieri, la sua immagine si scontrava con l'appellativo di “donnaccia”
affibbiatole da mia madre, ma presto rinsavivo e rifiutavo quell'accostamento.
Una donnaccia è necessariamente una donna malvagia, e Lei non poteva esserlo:
come spiegare, altrimenti, i numerosi amici sparsi per casa durante tutto il
corso della giornata? Anche molti uomini del paese iniziarono ben presto a
frequentarla; non mi infastidiva l'idea che sorridesse anche ad altre persone,
dimostrava in questo modo di non essere una persona malvagia.
Si sa, le donne malvagie non hanno
amici…
Passarono i giorni, i mesi, le
stagioni, ed io ero ancora lì, dietro la sudicia finestra della mia stanza,
inamovibile.
Pensai che la mia perseveranza
richiedesse un riconoscimento, una medaglia all'onore da appuntare con orgoglio
smisurato sulla mia camicia lisa: o più semplicemente, un nuovo, impagabile
sorriso da parte di Lei.
Passai interi pomeriggi ad
osservarla, mentre era intenta a compiere le pulizie di casa; spesso giungeva
qualche suo amico, così si vedeva costretta ad interrompere il lavoro e a
salire al piano di sopra, le cui finestre erano sempre chiuse. Poi
ridiscendeva, accompagnava il suo ospite alla porta e tornava ad occuparsi
delle faccende domestiche; adesso, però, i suoi occhi apparivano un po' più
tristi, ed il suo sguardo come smorto, tramortito da quel viaggio al piano di
sopra.
Forse era l'attesa a consumarla,
l'attesa di ricevere un nuovo amico.
È bello avere tanti amici…
Evidentemente, però, tutto ciò non le
bastava.
Un pomeriggio d'autunno, malinconicamente uggioso, un'ambulanza si
fermò davanti alla mia finestra. Io ero lì, rapito dalla luce accecante della
sirena: qualcosa era accaduto, senza alcun dubbio. Persino il vento sembrava
esserne consapevole, e desideroso di urlare il suo dolore
attraverso lunghissimi, strazianti fischi.
Il corpo senza vita di Lei fu
adagiato su una barella, e poi coperto con un lenzuolo pulito ma pieghettato.
Attorno al collo erano visibili dei segnacci neri, principale oggetto di
discussione fra la gente che si era raccolta nei pressi della sua abitazione.
Diversi amici di Lei le passarono accanto con indifferenza, gettando
un'occhiata furtiva al cadavere.
Poco
prima che il corpo venisse portato via, ricercai nel suo
volto quel sorriso incantatorio che mi illuse nell'alba di un giorno lontano:
la freddezza della morte fu tutto ciò che ottenni di rimando. E allora cadde la
mia vita stessa, così come cade il fiore
nella luce del meriggio...
Adesso è sera, il buio è calato su ogni cosa.
Io sono ancora qui, ritto davanti
alla finestra, ed osservo la dimora abbandonata che un tempo fu l'eden di un
sorriso. Il mio sguardo soleva attraversare questi vetri per posarsi su di Lei,
alla ricerca di un'immagine che cancellasse, tramite
la pienezza della sua perfezione, quel vuoto che da sempre avverto dentro di
me.
Ma le cose sono cambiate…
Oggi, il mio sguardo si ferma ad
osservare l'immagine sbiadita che i vetri sporchi riflettono, restandone
disgustato.
La realtà ha cancellato ogni speranza, e al
termine di questa amara dissolvenza, è comparso mestamente il mio volto…
Tratto da “ Il cimitero
dei giocattoli inutili “ – Edizioni i Sognatori, 2006