Luisito
Bianchi ci ha lasciato
di Renzo Montagnoli
Se n'è andato, in silenzio, in punta di
piedi, quasi non volesse disturbare. Luisito Bianchi, uomo e sacerdote, ha
vissuto fino all'ultimo la sua fede battendosi affinchè la giustizia dei cieli fosse
anche in questo mondo, un mondo fatto di sfruttati, che lui amava, e di
potenti, di tiranni, che lui detestava, pur senza odiarli.
Non sapevo nulla di lui fino a quando
non ho letto La messa dell'uomo disarmato, il suo capolavoro e con ogni
proabilità il più bel libro sulla Resistenza che sia mai stato scritto. Quelle
pagine, intense e sovente sublimi, hanno segnato
indelebilmente il mio animo, hanno aperto uno squarcio di luce nel buio in cui
inconsapevolmente mi trovavo. Allora è sorto in me il desiderio di conoscere
Don Luisito e ho provveduto a contattarlo all'Abbazia di Viboldone, ove ha
trascorso gli ultimi anni della sua vita con l'incarico di cappellano.
I nostri contatti sono sempre stati
telefonici, oppure mediante scambio di corrispondenza epistolare, e ancor oggi
devo focalizzare bene per leggere quella calligrafia minuta uscita da una penna
stilografica. Luisito non usava il personal computer, ma era legato
indissolubilmente a quella stilografica, a una scrittura a mano, frutto anche
del suo concetto di manualità. Mi ha detto un giorno: - L'uomo ha disimparato a usare le mani per lo scopo per cui esistono, è
come se l'uomo avesse rinunciato a una parte di sé e nulla di quello che c'è in
noi è lì per caso.
Aveva ragione, perché con il progresso
non filtrato l'essere umano diventa, anziché l'utilizzatore della macchina, lo
schiavo della stessa, in una rinuncia alla sua innata personalità di cui non si
accorge se non nel momento del bisogno.
Era un uomo di fede, anche se ogni
tanto gli sorgevano dubbi, ma erano proprio quei dubbi a rinfocolare la sua
religiosità, a ricondurre la sua vita al servizio degli uomini nello spirito
del verbo del Cristo.
Forse pochi sanno che, da giovane,
insegnante di religione in una scuola, rifiutò lo stipendio, perché – diceva – uno prende la retribuzione per il lavoro che
fa, ma io non svolgo un lavoro, io esercito una missione. E' stato anche
per alcuni anni vice assistente nazionale dell'Associazione Cattolica
Lavoratori Italiani, ma mi è difficile immaginarlo nella veste di manager in
mezzo alle scartoffie.
Lo vedo di più come prete operaio e in effetti lo è stato, perché per comprendere la vita degli
sfruttati non si può che viverla.
Come scrittore non è stato meno grande
e ha avuto una produzione non trascurabile e io posso parlare solo per quei
libri che ho letto: Vicus Boldonis terra
di marcite, una raccolta tematica di poesie di notevole livello; I miei amici Diari (1968 – 1970) sulla
sua esperienza di prete operaio, con una visione di categoria di grande
effetto, ma anche impregnato di un'intensa spiritualità; Le quattro stagioni di un vecchio lunario, il ricordo della
gioventù; ma soprattutto, La messa
dell'uomo disarmato, che, come ho scritto sopra, è probabilmente il più bel
libro sulla Resistenza, anche se definirlo solo così sarebbe però riduttivo,
perché è anche un romanzo sulla vita cristiana, sul rapporto fra uomo e natura,
fra uomo ed Entità Superiore, sulle relazioni fra gli uomini. C'è tanto in
quelle pagine, ma non una parola di troppo né una di meno, in un senso della
misura che rasenta la perfezione. E poi l'animo poetico di Luisito fa spesso
capolino, come in questo periodo ”Come al solito, quel lunedì 26 luglio 1943
l'avemaria suonò alle cinque e mezzo, saltellò sui tetti delle case, s'incontrò
con la mano di porporina dorata che il sole s'era affrettato a pennellare sulle
cime degli alberi,…”.
Voglio sperare che ora in
quell'avemaria si trovi la sua anima e che da lassù ci sorrida a cavalcioni
di una nuvoletta.