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  Editoriali  »    »  Luisito Bianchi ci ha lasciato, di Renzo Montagnoli 06/01/2012
 

Luisito Bianchi ci ha lasciato

di Renzo Montagnoli

 

 

 

 

Se n'è andato, in silenzio, in punta di piedi, quasi non volesse disturbare. Luisito Bianchi, uomo e sacerdote, ha vissuto fino all'ultimo la sua fede battendosi affinchè la giustizia dei cieli fosse anche in questo mondo, un mondo fatto di sfruttati, che lui amava, e di potenti, di tiranni, che lui detestava, pur senza odiarli.

 

Non sapevo nulla di lui fino a quando non ho letto La messa dell'uomo disarmato, il suo capolavoro e con ogni proabilità il più bel libro sulla Resistenza che sia mai stato scritto. Quelle pagine, intense e sovente sublimi, hanno segnato indelebilmente il mio animo, hanno aperto uno squarcio di luce nel buio in cui inconsapevolmente mi trovavo. Allora è sorto in me il desiderio di conoscere Don Luisito e ho provveduto a contattarlo all'Abbazia di Viboldone, ove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita con l'incarico di cappellano.

I nostri contatti sono sempre stati telefonici, oppure mediante scambio di corrispondenza epistolare, e ancor oggi devo focalizzare bene per leggere quella calligrafia minuta uscita da una penna stilografica. Luisito non usava il personal computer, ma era legato indissolubilmente a quella stilografica, a una scrittura a mano, frutto anche del suo concetto di manualità. Mi ha detto un giorno: - L'uomo ha disimparato a usare le mani per lo scopo per cui esistono, è come se l'uomo avesse rinunciato a una parte di sé e nulla di quello che c'è in noi è lì per caso.

Aveva ragione, perché con il progresso non filtrato l'essere umano diventa, anziché l'utilizzatore della macchina, lo schiavo della stessa, in una rinuncia alla sua innata personalità di cui non si accorge se non nel momento del bisogno.

Era un uomo di fede, anche se ogni tanto gli sorgevano dubbi, ma erano proprio quei dubbi a rinfocolare la sua religiosità, a ricondurre la sua vita al servizio degli uomini nello spirito del verbo del Cristo.

Forse pochi sanno che, da giovane, insegnante di religione in una scuola, rifiutò lo stipendio, perché – diceva – uno prende la retribuzione per il lavoro che fa, ma io non svolgo un lavoro, io esercito una missione. E' stato anche per alcuni anni vice assistente nazionale dell'Associazione Cattolica Lavoratori Italiani, ma mi è difficile immaginarlo nella veste di manager in mezzo alle scartoffie.

Lo vedo di più come prete operaio e in effetti lo è stato, perché per comprendere la vita degli sfruttati non si può che viverla.

Come scrittore non è stato meno grande e ha avuto una produzione non trascurabile e io posso parlare solo per quei libri che ho letto: Vicus Boldonis terra di marcite, una raccolta tematica di poesie di notevole livello; I miei amici Diari (1968 – 1970) sulla sua esperienza di prete operaio, con una visione di categoria di grande effetto, ma anche impregnato di un'intensa spiritualità; Le quattro stagioni di un vecchio lunario, il ricordo della gioventù; ma soprattutto, La messa dell'uomo disarmato, che, come ho scritto sopra, è probabilmente il più bel libro sulla Resistenza, anche se definirlo solo così sarebbe però riduttivo, perché è anche un romanzo sulla vita cristiana, sul rapporto fra uomo e natura, fra uomo ed Entità Superiore, sulle relazioni fra gli uomini. C'è tanto in quelle pagine, ma non una parola di troppo né una di meno, in un senso della misura che rasenta la perfezione. E poi l'animo poetico di Luisito fa spesso capolino, come in questo periodo ”Come al solito, quel lunedì 26 luglio 1943 l'avemaria suonò alle cinque e mezzo, saltellò sui tetti delle case, s'incontrò con la mano di porporina dorata che il sole s'era affrettato a pennellare sulle cime degli alberi,…”.

Voglio sperare che ora in quell'avemaria  si trovi la sua anima e che da lassù ci sorrida a cavalcioni di una nuvoletta.

 

 
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