Intervista
di Renzo Montagnoli a Fiorella Borin, autrice del
romanzo La firma del diavolo, edito
da Tabula Fati
Sei una scrittrice
piuttosto prolifica, con un'attitudine particolare per il genere fantastico e
per la narrativa di ambientazione storica. Rientra in quest'ultima branchia La firma del diavolo, che trae spunto
da fatti effettivamente accaduti a Triora nel 1588.
Come mai questa passione per i processi per stregoneria e in particolare per
quanto accaduto in quell'anno nel paesino ligure dell'entroterra di
Ventimiglia?
Una ventina di anni fa
trovai un libro che mi colpì moltissimo fin dal titolo: “Strix”.
Ne era autore Claudio Bondì e il testo era integrato
da una splendida prefazione di Elena Gianini Belotti. Questo saggio conteneva l'agghiacciante resoconto
di sei processi per stregoneria istruiti dall'Inquisizione contro altrettante
donne, nell'Italia fra il XIV e il XVI secolo. La lettura era resa ancora più
intensa e drammatica da alcuni estratti degli atti processuali, nei quali
“risuonava” la vera voce di quelle sventurate. Era una voce straziante, che
sentii echeggiare a lungo in me. Soprattutto quella di Franchetta
Borelli, processata a Triora nel 1588 e forse
scampata al rogo dopo avere patito tormenti indicibili. Provai per quella donna
qualcosa di simile a un sentimento di affetto che andava oltre alla
solidarietà, alla commozione e al rispetto dovuti a una qualsiasi vittima della
crudeltà umana.
A questo libro seguirono
altre letture sul tema stregoneria; ma per quanto leggessi e studiassi altri
casi e altri processi, Franchetta Borelli mi era
rimasta dentro con un'intensità speciale. E così mi venne voglia di scrivere
una storia che raccontasse, in forma molto romanzata, la Triora
di quegli anni sciagurati, perché non andassero dimenticate le sofferenze di
tante donne colpevoli solo di essere nate femmine in un'epoca in cui la donna
era considerata costituzionalmente infida, bugiarda, tentatrice, incline alla
lussuria e all'asservimento al diavolo.
Nel libro viene
giustamente dato risalto a un personaggio esistito veramente e parte attiva nei
procedimenti contro le presunte streghe di Triora. Mi
riferisco al commissario Giulio Scribani, che poi
venne sollevato dall'incarico per gli eccessi da lui compiuti, venne
addirittura anche processato, finendo poi assolto.
Secondo te, che cosa si
celava dietro la maschera di questo essere crudele, cioè che cosa lo muoveva a comportarsi in modo così terribile?
Non è facile rispondere.
Dai verbali dei processi emerge il ritratto di un uomo sadico e misogino; ma il
suo fanatismo religioso, la sua intransigenza, gli eccessi cui si abbandona, mi
spingono a pensare che fosse un uomo non particolarmente intelligente.
Giulio Scribani aveva studiato i testi più accreditati dagli
Inquisitori e andava fiero della sua preparazione in materia di stregoneria.
Era acriticamente imbevuto della peggiore e più deleteria cultura dell'epoca.
Non mi è mai sembrato illuminato dalla luce salvifica del dubbio, meno che mai
quando il dubbio poteva condurre al proscioglimento dell'accusata; e ben lo
aveva capito la povera Franchetta Borelli, quando
disse, tra i tormenti: “Io stringo li denti e diranno
che rido”. Sapeva che il commissario avrebbe visto nelle sue mascelle contratte
non la sofferenza di un'innocente, ma il ghigno beffardo di una vera strega.
Perché Scribani era così spietato? Forse era sinceramente convinto
di agire secondo la volontà di Dio e per il bene della comunità. Ma non è
escluso che lui si mostrasse così solerte per fare bella figura agli occhi dei
suoi superiori: del doge, per esempio, al quale in una lettera rammentava che
le spese per i processi contro le streghe trioresi
sarebbero state ampiamente compensate dalle confische dei beni che ne sarebbero
conseguite; o del terribile giudice Pietro Allaria-Caracciolo
che avrebbe messo volentieri sotto tortura chiunque, e a oltranza,
rammaricandosi vivamente che le leggi non glielo consentissero.
Secondo me Scribani era figlio e servo di quel periodo storico: un
servo fedele il giusto e stupido il giusto. La sua caduta in disgrazia, il
conseguente processo e la successiva assoluzione mi hanno fatto pensare che sia
stato usato come capro espiatorio al posto di qualcuno che aveva responsabilità
maggiori delle sue, ma anche un prestigio e un potere di gran lunga superiori,
e pertanto era intoccabile.
Resta comunque un fatto e
cioè che il fanatismo religioso va sempre ben oltre i propositi della fede.
Peraltro i processi alle streghe non sono monopolio solo del cattolicesimo, ma
sono fioriti anche nel protestantesimo, il che mi induce a pensare che la
religione sia solo un pretesto per permettere a uomini tutto sommato deboli di
sfogare su altri il loro astio e rancore. In questo libro quasi tutti i
personaggi citati sono realmente esistiti, mentre è sicuramente di fantasia il
protagonista, innamorato di Magdalena e che cerca di salvarle la vita.
Quest'uomo, già condottiero, si batte in uno scontro che già sa perso in
partenza, perché conscio che non vi sono armi contro l'ignoranza e la
superstizione. E' pienamente positivo, un precursore per l'epoca, perché
sostiene la valenza del dubbio per poter credere, rifiuta il dogma e apre il
suo cuore all'amore. Mi chiedo solo perché non ha cercato di usare la forza per
liberare Magdalena, lui che valente soldato avrebbe potuto uccidere le poche
guardie e aprire le porte della prigione. Ma forse il motivo per cui non l'ha
fatto risiede nella complessità di una mente che, benché aperta, crede che
esistano le streghe e quindi ha remore di carattere morale che gli impediscono
di staccare di netto la testa del serpente con un colpo di spada. E' così?
In realtà, quando
architetta il piano, il mio protagonista è quasi sicuro di vincere: tutti i
successi conseguiti nella carriera delle armi lo spingono a credere che anche
questa volta avrà la meglio sui “nemici”. Ma questa battaglia vuole combatterla
in modo diverso dal solito. Confida molto nella propria astuzia, esattamente
come un tempo confidava nella forza della sua spada. Il precipitare degli
eventi lo coglie impreparato, lo sgomenta, lo annichilisce. Vede crollare il
suo castello di certezze e si scopre vigliacco, inetto: uno sciocco presuntuoso
che ha sbagliato tutto. E per la prima volta in vita sua sperimenta il tormento
del dubbio e il peso del senso di colpa.
Dici, giustamente, che se
avesse adottato la strategia della forza, l'eroe avrebbe potuto salvare la
donna amata. Hai ragione. Ma ne sarebbe uscito un libro diverso: un romanzo
d'avventura, magari con un bel finale rosa già visto mille volte al cinema. Io
invece volevo scrivere un libro sul dolore e sull'amore, ma soprattutto sulla
sofferenza che porta la psiche a deragliare, e la accompagna nel tunnel di una
quieta, malinconica, consolatoria follia.
E' vero, ma il cavaliere
ha osato sfidare l'irrazionale con la logica, in un dialogo che la controparte
non poteva recepire, perché la sicurezza, l'assenza di dubbi è propria di chi
non ragiona. Mi viene in mente, al riguardo, una frase di Zenone,
il protagonista di L'opera al
nero, di Marguerite Yourcenar: “Non esiste accomodamento durevole tra
coloro che cercano, pensano, analizzano e si onorano di pensare domani
diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e obbligano
con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto.” Contro simili
esseri si può vincere solo con la forza. Comprendo comunque e anche approvo il
tuo desiderio di non scrivere un romanzo d'avventure, con il classico lieto
fine in cui tutti vissero felici e contenti. Fra l'altro, questo amore che cresce
nell'imminenza del pericolo è descritto in modo magistrale, con l'ansia,
l'angoscia, la delusione e la disperazione di chi avverte che la propria
sconfitta è soprattutto la condanna di una innocente.
Sono pagine molto belle, che non muovono alla commozione facile, ma che segnano
in profondità il lettore tanto paiono realistiche e in fin dei conti
somiglianti a pene d'amore magari avvertite in gioventù. Lì il romanzo si
stacca dalla storia dello specifico evento per assurgere a un sentimento
universale, a ciò che l'uomo ha sempre provato e si spera continuerà a provare.
Fra i personaggi del libro ce n'è qualcuno in cui ti sei maggiormente ritrovata
e se sì per quale motivo?
Mentre il romanzo
prendeva forma, mi accorgevo di voler bene a tutte queste mie creature
immaginarie, ad esclusione ovviamente del commissario Scribani.
A tutti i personaggi ho dato qualcosa di mio, distribuendo con prodigalità i
miei difetti e le mie debolezze, ma ricordandomi di mettere ogni tanto un tocco
gentile, perché anche la dolcezza è nelle mie corde.
Se c'è qualcosa di
autobiografico – e penso che in ogni romanzo vi sia – posso dire che mi appartengono
in toto i dubbi, lo spavento, il senso di impotenza sperimentati dal
protagonista quando crede di avere assistito a un fenomeno soprannaturale. Lo
sgomento che lui prova di fronte all'ignoto è il mio smarrimento di fronte a
episodi che anche per la scienza moderna sono inspiegabili.
Tornando a cose più
lievi, il mio personaggio preferito è il petulante, gioviale, umanissimo notaio
Basadonne: miope come una talpa e schietto come un
bicchiere di vino, se esistesse davvero ne farei il mio migliore amico.
Ero pressoché sicuro che
il tuo preferito fosse il notaio Basadonne, un
personaggio che già incontra simpatia con i suoi difetti, acuto osservatore,
per quanto miope, onesto e sincero.
Che Scribani
non ti fosse simpatico lo si comprende benissimo per come lo descrivi e,
considerato che è esistito veramente e così si comportò, è comprensibile
questa tua disistima, che è immediata anche nel lettore.
Da buona veneziana, poi,
non hai mancato di trovare l'occasione, reale peraltro, per una stoccata al
doge di Genova, città marinara tradizionalmente avversaria di Venezia.
Comunque anche il governo
della Serenissima può contare su non pochi cadaveri nell'armadio e al riguardo
ti chiedo se hai in progetto un romanzo di ambientazione lagunare che prenda
spunto da ombre – e ce sono state parecchie – di
quella Repubblica.
Nei miei precedenti
piccoli romanzi, tutti ambientati nella Serenissima del XVI
secolo e in prevalenza ispirati da fatti di cronaca giudiziaria, non
sono stata avara di rabbuffi e ceffoni nei confronti di alcuni governanti
dell'epoca. Come giustamente dici tu, in laguna ombre e scheletri non mancavano,
anzi, abbondavano.
In questi vent'anni ho
scritto molto su Venezia: a volte con tenerezza, a volte con rabbia; ma anche
quando la mia voce si alzava indignata, in sottofondo una seconda voce veniva a
riconciliarmi con la mia città. Così mi veniva voglia di scrivere ancora, e
iniziavo la stesura di una nuova storia. Nel cassetto ho tre romanzi
“veneziani” pronti per la revisione finale, e un quarto in corso d'opera. So
che perseverare è diabolico, ma pur sapendolo, diabolicamente persevero…
Vero, ma ritorniamo al
tuo libro per una domanda semplice, ma di non facile risposta. Cosa ne pensi
dei rapporti tra stregoneria e religione? In particolare, le streghe sono state
l'invenzione di una struttura ecclesiastica che aveva difficoltà a presentarsi
decentemente ai suoi fedeli, viziata com'era da tanti peccati al punto di
distogliere l'attenzione dagli stessi, balenando un pericolo concreto che fosse
di gran lunga più temibile del proprio comportamento?
Anche questa è una
domanda difficile. Trovo molto interessante e senza dubbio plausibile la tua
ipotesi.
Riguardo al rapporto tra
stregoneria e religione, penso che oggi possano credere alle streghe (al
malocchio, all'efficacia dei riti woo-doo, alle messe
nere ecc.) anche persone dichiaratamente atee. Invece le cose andavano
diversamente all'epoca dei fatti narrati nel mio romanzo.
A quei tempi la vita
religiosa permeava tantissimo la società: processioni, penitenze, ben precisi
divieti alimentari e sessuali, l'obbligo di confessarsi e comunicarsi almeno
una volta l'anno, danno l'idea di quanto fosse forte il potere della Chiesa e
il timore della collera divina. Bestemmia, eresia, sodomia e usura erano
considerati i reati più sgraditi a Dio e di norma venivano puniti con la pena
capitale. Nel “Malleus maleficarum”,
il terribile manuale usato dagli inquisitori, si affermava che era eresia non
credere alle streghe. Così tutti, per non figurare eretici, dovevano per forza
credere alle streghe. E le streghe erano il capro espiatorio ideale per
spiegare eventi incomprensibili: siccità, carestie, nascita di animali deformi,
malattie, morti di bambini… Tutte le spiegazioni che oggi ci dà la scienza,
all'epoca venivano date dalla religione, dall'astrologia, dalla
filosofia e da credenze fantasiose e superstiziose.
Per i cristiani Dio è il
Bene e il Diavolo è il Male; se si crea una disarmonia da cui consegue una
sofferenza per la collettività, è perché il Diavolo sta facendo proseliti e Dio
è in collera con noi per questo motivo. Bruciando le streghe (blasfeme serve e
concubine del diavolo), si ristabiliva l'iniziale armonia. In linea di massima,
la gente era ben contenta di veder accendere i roghi purificatori, tant'è che
processi contro le streghe vennero istruiti non solo da tribunali
ecclesiastici, ma
anche da tribunali civili, e in certi casi si mosse direttamente la stessa
collettività, organizzando spontaneamente l'uccisione della strega.
L'eliminazione del “diverso, strano, malefico, pazzo o demente che fosse” era
accolta non solo con sollievo, ma con gioia. Chiedo scusa se ho semplificato e
generalizzato per motivi di brevità.
A Triora
inizialmente i processi contro le streghe suscitarono l'approvazione della
comunità; quando però la catena di delazioni si allungò in modo spropositato e
vennero fatti i nomi anche delle donne ricche e nobili che fino a quel momento
si erano ritenute intoccabili, cominciò a serpeggiare il panico. Da qui, la
lettera di protesta scritta dai Tre Anziani di Triora
al doge di Genova, nella quale si lamentavano del fatto che più di duecento
persone fossero già state denunziate e altre lo sarebbero state a breve.
In questo clima di paura,
incertezza e reciproco sospetto, prende avvio il mio romanzo.
Mi viene da sorridere
quando penso che Dio è il Bene, l'apoteosi della
bontà, e poi invece gli uomini lo trasformano in un essere vendicativo,
collerico, a loro immagine e somiglianza.
Siamo alla fine
dell'intervista con una domanda semplicissima, ma che spesso
mette in difficoltà chi deve rispondere. Abbiamo parlato diffusamente di
questo tuo bel romanzo, abbiamo messo in luce le sue origini storiche, abbiamo
perfino indagato sulla psicologia dei suoi personaggi. Eppure accade sempre che
l'intervistato speri sempre che gli venga rivolta una particolare domanda, a
cui tiene tanto, ma questa non viene mai. Ti chiedo allora qual è quella
domanda che tanto avresti desiderato ti fosse rivolta e nel contempo ti prego
di fornirmi la risposta.
Premesso che le domande
mi agitano sempre, approfitto di questo spazio per chiarire un punto che mi sta
molto a cuore. La domanda non più desiderata, ma più temuta, potrebbe essere
questa: che cosa è stato facile e cosa difficile nella
stesura del romanzo?
Facilissimo è stato
creare la trama, i personaggi, il clima emotivo e il finale.
Ben più difficile è stato
impormi di essere rigorosa da un punto di vista storico, giuridico, psicologico
e geografico. Così mi sono trovata a un bivio: lasciare il mio racconto libero
di muoversi in piena autonomia, come lo avevo sentito crescere in me, oppure
mutilarlo, appiattirlo, incanalarlo nella direzione dell'assoluta fedeltà alla
Storia? Ho scelto la prima opzione e mi sono concessa qualche licenza. La più
macroscopica è avere volutamente esagerato il computo dei roghi accesi a Triora. Va detto che le notizie al riguardo non sono né
chiare né esaurienti: è vero che furono centinaia le persone inquisite; è vero
che alcune donne morirono in seguito alle torture o in un tentativo di
evasione; è vero che di molte altre derelitte si ignora la sorte; ma non
esistono prove che a Triora siano stati accesi roghi.
Eppure, le leggende parlano di donne arse vive alla Cabotina o in piazza della Collegiata…
Sia pure con qualche
titubanza, ho scelto di dare credito a queste leggende. E non solo per la mia
innata passione per la cultura popolare, ma anche alla luce del fatto che
spesso, alcuni anni dopo una condanna per stregoneria, i familiari chiedevano
che gli atti venissero distrutti per non gettare ombre infamanti sulla loro
discendenza. In altri casi erano gli archivi a finire, casualmente o
deliberatamente, incendiati.
Dunque, piene certezze al
riguardo non ne esistono.
Ringrazio Renzo per la
generosità e la gentilezza con cui mi ha ospitata, e tutti voi per il tempo che
mi avete dedicato.
E' stata una bella
conversazione e Fiorella Borin non si è sottratta a
domande anche insidiose, comportamento più che giusto visto che si è parlato di
questo suo libro che, ripeto, per me è veramente stupendo. Al riguardo vi prego
di leggere anche la mia recensione dalla quale spero possiate comprendere
l'interesse che suscita La firma del
diavolo.
Grazie Fiorella e
arrivederci al tuo prossimo libro.
La firma del diavolo
di Fiorella Borin
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa romanzo
Collana Malacandra
Pagg. 136
ISBN 978-88-7475-182-2
Prezzo €
9,00