Disertori
di Michele Pellegrini
Barbera Editore
Narrativa romanzo
Collana Radio Londra
Pagg. 134
ISBN 9788878991576
Prezzo € 15,50
Tra partigiani, camicie nere e foibe.
Michele Pellegrini è
nato nel 1960 a
Trieste. Ha pubblicato Memorie di un bambino
filocinese (Stampa Alternativa, 2002), Grand Tour (Fernandel, 2003), Dimissioni (Fernandel, 2004). Fa il bibliotecario.
Quella che si racconta in “Disertori”
di Michele Pellegrini
è una storia dallo stile secco: niente virtuosismi per rendere icastici i
personaggi e le situazioni, bensì rapide pennellate per dire quello che c'è da
dire, senza inutili fronzoli. E' una storia amara da digerire, ammesso che ci
sia qualcuno disposto a digerire, senza batter ciglio, il dramma di quanti
nella Seconda Guerra Mondiale furono infoibati, giustiziati sommariamente,
ammazzati perché c'era la guerra e non si poteva fare altrimenti. In “Disertori” c'è la storia di un uomo
il cui passato non è proprio pulito e di cui una sola persona sa i particolari.
C'è un grande punto interrogativo che macchia di sangue innocente ogni pagina:
davvero non fu possibile fare diversamente? era
necessaria tutta quella crudeltà contro tutti, contro vecchi giovani donne,
semplici ragazze e ragazzi?
Tutto comincia, o meglio finisce in una camera d'ospedale dove sta Alvise
Preda, oramai preso dal cancro e dalla morfina: però la sua mente è lucida,
quasi serena. Al suo capezzale i due figli, Federico e Dorina,
nonché l'arrivo inopinato d'un anziano signore più vecchio del padre e che è
stato amico di Alvise. Lui è l'Argentino, l'ultima persona al mondo ancora in
vita che può dire qualche cosa di Alvise Preda. I figli di Alvise sanno
solamente d'aver avuto un padre, d'averlo amato, ma non sanno chi è stato. E'
con l'arrivo de “l'Argentino”
che inizia la storia, traducendo Federico e Dorina in
un tempo d'inverni e di lupi neri, in cui loro non erano ancora stati concepiti
nemmeno come idea. Federico e Dorina non possono che
rimanere ad ascoltare la voce dell'Argentino, mentre Alvise, ridotto a una
larva umana, li prega d'ascoltare anche se lui
dormirà. Obbediscono.
Volenti o nolenti i due fratelli vengono tradotti in Albania, in Montenegro, in
Dalmazia. L'Argentino gli racconta di come si sono incontrati, dei boschi che
hanno percorso insieme, e a suo modo tenta pure di spiegare loro che cosa
significava essere dalla parte giusta. E mentre l'Argentino racconta, noi si ha
come l'impressione che una parte giusta non esista, non in guerra, perché la
guerra è sempre sporca di sangue innocente che è sempre di più di quello delle
camicie nere. E poi bisognerebbe capire chi è una camicia nera perché
gliel'hanno comandato e non si poteva proprio rifiutare, e chi invece ci crede
veramente nell'abominio dell'arianesimo. All'indomani dell'8 settembre i due Alvise
e l'Argentino decidono insieme a una dozzina di fascisti di tentare il rientro
in Italia – in Patria. Si sono messi contro tutti:
contro i comunisti e gli slavi, contro gli italiani così e così forse traditori
e forse no, contro i tedeschi invasori. Hanno davanti a sé un territorio
ostile, qualcosa come quattrocento chilometri da fare a piedi. Una marcia
serrata per mettere piede in Istria attraverso le montagne e i boschi. La
compagnia, durante la marcia, si dimezza: è la guerra che uccide gli uomini,
sono gli uomini che uccidono gli uomini. Sarà una partigiana croata a chiedere
loro – dalla tomba -, per colpa della barbara uccisione a cui andrà presto
incontro, da che parte state adesso? Alvise e l'Argentino catturano una
partigiana, la convincono a fargli da guida, ma poi qualcuno ci prova a
metterle le mani addosso: Alvise non lascia che la giovane croata venga
oltraggiata, però non riesce ad evitarne la barbara uccisione. A questo punto
Alvise, con fredda rabbia, spara e ammazza tutti, eccetto l'Argentino. Il resto
del cammino da fare d'ora in poi sarà solamente per loro due, l'inizio di un
altro inferno. I figli di Alvise ascoltano in silenzio: non fanno domande,
cercano di capire chi è stato quell'uomo che li ha generati. E anche per loro è
un viaggio all'inferno: solo adesso che il genitore sta morendo cominciano a
sapere di lui, veramente, chi è stato e che cosa ha fatto.
Quello di Michele Pellegrini
è un romanzo duro: molte le pause, tra una pennellata di parole e l'altra,
pause per riflettere, per cercare un perché o almeno per tentare. “Disertori” è una ferita che non si
è rimarginata: è aperta e suppurante, ogni giorno qualcuno rivanga la Storia,
la mette a sconquasso, tenta un vergognoso revisionismo di comodo assolvendo e
condannando i morti di ieri, e non c'è alba che almeno uno su questa terra non
ricordi un partigiano caduto o un infoibato. Un romanzo che non fornisce
soluzioni: non c'è questa arroganza da parte dell'autore, perché, parafrasando Bob Dylan, la risposta la sa, o la
porta, il vento, e spesse volte anch'esso è solamente
vuoto vento senza parole né echi da destinare a chicchessia.
Giuseppe Iannozzi
www.liberolibro.it