SALVATORE QUASIMODO
Dall'Ermetismo
all'impegno civile
a cura di Fabrizio Manini
Elio
Vittorini, cognato di Quasimodo, lo definisce un “oriundo spagnolo,
ma siciliano per il sangue delle generazioni”, con riferimento alla
sua origine e al suo fiero carattere. La sua carriera letteraria viene
generalmente suddivisa in due periodi: il primo dura fino allo scoppio della
seconda guerra mondiale e comprende le raccolte “Oboe sommerso”, “Acque e
terre”, “Nuove poesie” e “Erato e Apòllion”, riunite successivamente con il simbolico titolo
di “Ed è subito sera”; il secondo, segnato
dall'esperienza bellica, è caratterizzato da uno sguardo più impegnato, dovuto
ad una maggiore maturità e all'interesse politico spiccatamente antifascista; a
questo periodo appartengono le opere “Giorno dopo giorno”, “La vita non è
sogno”, “Dare e avere” e la poesia “La terra impareggiabile” con cui
vince il Premio Viareggio nel 1958. L'interesse per la poesia deriva dalla
passione che Quasimodo ha per Pascoli, D'Annunzio, Ungaretti, Montale e i
lirici greci, i quali saranno sempre presenti, in varie forme, nel suo pensiero
e nel suo stile. Dal punto di vista delle tematiche il primo periodo riguarda
l'analisi del proprio io nel suo vivere con se stesso e con la realtà che lo
circonda: l'intento è trascinare in superficie una vitalità da sempre nascosta
in fondo alla coscienza e ai sentimenti, cioè l'intenzione di illuminare una
parte altra di se che, pur esistendo in lui, vegeta quasi inanimata nei più
nascosti recessi della sua personalità. Non è, tuttavia, ben chiaro se
Quasimodo ci sia riuscito o meno in quanto, essendo
uno dei massimi esponenti dell'Ermetismo, la critica ha pareri piuttosto
discordanti in merito. La questione è molto controversa poiché persino
Quasimodo stesso non l'ha mai chiarita fino in fondo, neanche in un testo
scritto di suo pugno con l'intento di classificarsi all'interno del proprio
periodo storico, dal titolo “Brevi cenni sulla mia vita di uomo di cultura
durante la dittatura fascista”. E' comunque ormai assodato che Quasimodo abbia
conferito alla parola la funzione di elemento base della tecnica espressiva:
Oreste Macrì, uno dei più grandi saggisti del
Novecento, fa notare come in Quasimodo la semplice parola “occupi l'intera
corrente dell'ispirazione e del pathos”, tanto da ricordare la lingua
simbolista di Mallarmé che paragonava la poesia con
l'Essere. Tuttavia fin dall'inizio Quasimodo ha utilizzato accortezze metriche,
lessicali e di interpunzione che lo assimilavano in modo esplicito ai
procedimenti ermetici; la parola, nella sua specifica intensità e
nell'essenzialità dei legami, era la prova di una sostanza distante dalla
metrica e dalla musicalità che invece ipotizzava e chiedeva una concreta
completezza di visioni. Il passaggio attraverso la guerra e la resistenza segna
comunque l'allontanamento completo. Quasimodo scrive che “nel 1945 s'insinua
il silenzio nella scuola ermetica, nell'estremo antro pastorale fiorentino di
fonemi metrici”; questo sta a significare che il concetto di una poesia
corrispondente alla vita umana allontana l'idea di un'esistenza formale in
quanto storia della parola. Quasimodo non rinnega l'indipendenza
dell'evoluzione poetica, ma il periodo dell'impegno pone decisamente e
bruscamente fine alla fase ermetista, timida,
introversa e forse anche un po' scontrosa che viveva in se stessa, serrata nei
tratti di puro monologo. A partire da “Col piede straniero sopra il cuore”
(1946), il percorso simbolista evolve sul piano storico con maggiori
sensibilità e attenzione verso la violenza della guerra; l'immagine del poeta
portatore di testimonianze e verità in Quasimodo è arricchita di accenti
religiosi e di intenti civili: solo per portare qualche esempio “Giorno dopo
giorno” racconta il lugubre silenzio di Milano occupata dai nazifascisti e i
bombardamenti dell'agosto1943, mentre “Il falso e vero verde” ricorda il
sacrificio dei fratelli Cervi e i martiri di piazzale Loreto. I versi, dal tono
funereo e solenne, esprimono similitudini di confronto fra il presente e la
memoria del mito: il poeta-vate, profondo conoscitore
della lirica e di suoi scorrimenti, scopre così la “luce nera” dell'odierno,
cioè un'oscurità insistente che, come dice il poeta francese Louis Aragon, “sarà una fonte irremovibile di costante tensione
formale e intellettuale in egual tempo”. Le poesie del secondo periodo,
nate in seno all'esperienza della guerra, sono sicuramente le più note fra i
lettori, ma anche le più discusse dagli studiosi: alcuni le definiscono
retoriche, oratorie, declamative e prive di senso critico; il Vigorelli,
invece, fa notare che la “nobile eloquenza di sentimenti” avrebbe
permesso a Quasimodo di crearsi un linguaggio peculiare e distintivo, pur se
costruito sulla classicità delle raccolte precedenti. Nel Quasimodo ermetico,
invece, risaltano le immagini di angeli, del vento che sferza le aspre terre
bruciate erodendo incessantemente l'arenaria, sotto lo sguardo di cieli cavi
dispersi in una vastità enorme di spazi; la mobilità di questi spazi esprime la
sofferenza interiore che usa la parola poetica per un ritorno ideale al periodo
dell'infanzia. L'incontro con i lirici greci e l'esperienza della traduzione
porteranno l'inventiva del poeta ad una conversione sulla realtà, dove
l'invettiva contro il nazifascismo e la guerra in generale è un punto d'arrivo
dell'iniziale percorso sacrale e simbolico, ma anche un punto di partenza per
la sua nuova poesia che, come dice il Contini, “manifesta il desiderio
dell'eterno”; una poesia nella quale la voce lirica non è immune dai gesti
e dai pensieri umani e “sempre trattiene sul suo guscio almeno un segno di
geometria viva”.
Il 10
dicembre 1959 a
Quasimodo venne assegnato il Premio Nobel per la letteratura; la sua
candidatura era stata proposta da Francesco Flora e Carlo Bo. Dopo un iniziale
entusiasmo arrivarono inevitabili le polemiche poiché, secondo molti, erano
Montale e Ungaretti, ancora in vita, ad impersonare l'immagine della rinascita
e della presenza della poesia italica nel Novecento; la preferenza accordata a
Quasimodo apparve ingiusta e scandalosa: difatti, a lungo andare, avrebbe
creato una sottile e costante persecuzione, tanto da ridurre progressivamente
il valore della sua intera opera per limitarla addirittura al solo percorso traduttorio. Tuttavia questa clamorosa svalutazione si
verificò solamente in Italia; all'estero Quasimodo ottenne un successo ampio e
caloroso, nel quale gli vennero attribuiti tutti i giusti riconoscimenti. A
riguardo è molto significativo un passaggio di una lettera scritta da Annamaria
Angioletti, ultima compagna del poeta: “egli
cercava nella gloria e negli applausi in terra straniera un compenso
all'indifferenza da cui era circondato in patria”.
Il testo
che vi propongo è “Alle fronde dei salici”, che apre la raccolta “Giorno dopo
giorno” del 1947. Quasimodo stesso ha più volte dichiarato che la guerra lo
aveva riscattato dalla “prigione delle sillabe”, cioè da una letteratura
divenuta culto della parola, mentre la realtà si faceva terribile urgenza. Ciò
che egli cercava era una poesia che si aprisse al dialogo concreto tra poeta,
uomini e realtà del tempo e non si risolvesse solo nell'intimità di
un'esperienza solitaria e personale, per costruire un impegno a testimonianza
di una nuova coscienza civile. È proprio Quasimodo a spiegare questa poesia
dicendo che era sua intenzione “esprimere lo straniamento del poeta in un
mondo che rinunciava alla sua umanità: sotto lo stesso tetto con i nazisti e i
fascisti, che sono sempre restati degli stranieri nella nostra terra”. Gli
endecasillabi sciolti mantengono la violenza delle immagini all'interno della
compostezza classica; il noi prende le distanze dall'io
ermetico della produzione precedente, e sta ad indicare un ammonimento corale
per la tragedia bellica che tutti coinvolge.
Riferimenti:
Salvatore Quasimodo, Poesie, Fabbri Editori.
ALLE FRONDE
DEI SALICI
E come potevamo noi cantare
con il piede
straniero sopra il cuore,
fra i morti
abbandonati nelle piazze
sull'erba dura
di ghiaccio, al lamento
d'agnello
dei fanciulli, all'urlo nero
della madre
che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo
del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le
nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al
triste vento.