Alle radici del brigantaggio
di Pietro Zerella
Parte XV
Inizio della resistenza
Il processo a La Gala (24 febbraio 1864 a S. Maria Capua Vetere) e ai suoi uomini e le dichiarazione di Crocco nel verbale d'interrogatorio, danno un prezioso
contributo di notizie. Hanno fatto comprendere il mondo della reazione, la
simpatia per i Borbone, il coraggio dei partigiani, la crudeltà dei briganti e
la spietatezza dei militari in una guerra civile durata circa dieci anni.
Come pure
importante sarebbe spulciare la stampa, gli atti processuali, le relazioni di
polizia del tempo, i risultati della C.P.I.B.
(Commissione Parlamentare Inchiesta Brigantaggio) costituita nel 1863.
Mentre l'esercito piemontese
scendeva dal nord attraverso lo Stato Pontificio per ricongiungersi con i
volontari di Garibaldi (Teano), il colonnello pontificio conte Chevigny era stato mandato ad Ascoli Piceno dal generale Lamoricière per prendere contatto con il delegato
apostolico monsignor Santucci, allo scopo di armare
bande di montanari per la “guerriglia” contro i piemontesi, come era stata
sperimentato con successo contro la Repubblica Romana nel 1849.
Con la collaborazione dei preti dell'alta valle del
Tronto, si riuscì a organizzare un battaglione di “volontari pontifici” che fu
affidato al comando del capo brigante Giovanni Piccione, come nel 1849. Purtroppo la rapida avanzata dei piemontesi
e la vittoria di questi a Castelfidardo rese vano il
progetto dei “volontari pontifici”.
Da quanto
sopra rappresentato, si evince che la priorità dell'utilizzo del brigantaggio
spetta allo Stato Pontificio
nell'organizzare la guerriglia con bande armate di contadini, soldati e
briganti per combattere sia i piemontesi che i liberali per la salvaguardia del
papa.(1)
L'iniziativa
prevedeva la collaborazione dei Borbone in particolare per le azioni nei pressi
dei confini come si vedrà con Chiavone.
Nota
1-
Franco Molfese, o.c.
Rivolta nell'Irpinia
La reazione di Ariano Irpino
La prima
“reazione” di colore politico, scoppiò ad Ariano Irpino
nei primi giorni di settembre del 1860 mentre Garibaldi entrava da vincitore a
Napoli.
Nelle file dei
Liberali d'Avellino, diversi religiosi avevano abbracciato l'idea dell'Unità
d'Italia. Altrettanti propendevano per la causa Borbonica.
Nell'arcivescovado d'Ariano il Vicario Vitandrea
de Risi, aveva creato un centro di reazione vicino al governo dei Borbone con
altri religiosi.
Questi erano pronti a sobillare i contadini alla reazione
contro i liberali.
Alla rapida avanzata di Garibaldi, dopo la conquista
della Sicilia, e alla totale liquefazione dell'esercito borbonico, la reazione
in alcune province fu organizzata dai contadini, da una piccola frangia di
religiosi e da pochi notabili.
Ad Ariano Irpino, la reazione
incominciò il 4- 5 settembre 1860, Garibaldi non era ancora entrato a Napoli (7
settembre)
Il giorno 3 era giunta in città una delegazione di filo
garibaldini, per formare un Governo provvisorio.
Il giorno successivo, arrivò nella cittadina e accolta
con diffidenza dalla popolazione, una colonna di circa 300 militi, provenienti
dai paesi vicini. Questa era comandata da Camillo Miele d'Andretta,
Giovanni Cipriani, Luigi Bianchi e Antonio Ciani.
In una concitata riunione con i Liberali locali, nel palazzo
vescovile, il de Conciliis assumeva, in nome di
Vittorio Emanuele Re e Garibaldi Dittatore, il comando supremo dell'esercito
insurrezionale. La notizia si propagò subito per la città e per le campagne.
Verso le ore 12, fu dato il segnale della rivolta con il
suono delle campane delle chiese di campagna e con le tofe
(conchiglie in uso dai contadini per comunicare da un villaggio all'altro). I
terrazzani, scrive Camillo Miele nella lettera pubblicata dal giornale “ Il
Nomade” del 13 settembre 1860 “... come branchi di segugi scatenati ed armati
di picche, moschetti, scure, pistole e pugnali si fecero ad irrompere per la
via superiore d'Ariano, altri per quella che mena ad Avellino, altri per
diversi spazi della città, con lo scopo di sopraffare i forestieri venuti a
rubare il loro Sant'Oto (protettore d'Ariano) a
violentare le donne ed a saccheggiare le loro sostanze” (1).
Contro tre-quattromila
rivoltosi, il comitato liberale fu costretto, con i circa trecento militi, a
lasciare il paese, senza sparare un colpo, e dirigersi verso Grottaminarda.
Lungo la strada la colonna fu attaccata dai rivoltosi
nascosti dietro le siepi. Nella sparatoria diversi persero la vita e molti
furono feriti
Fra questi
rimase ucciso il sacerdote liberale don Leone Frieri
di Cairano che, scrive V. Cannaviello:
“ prima di morire si era tolto dal petto un fiore di lana a tre colori e se
l'era posto in bocca per dare l'ultimo bacio a quel simbolo dell'Unità
d'Italia”. (2)
Dopo la sanguinosa giornata, furono percorse le strade
del paese portando in trionfo le statue di Francesco II e di Maria Sofia al
grido di viva il Re e la Regina. Scrive F. Zerella,
nella Reazione d'Ariano nel settembre 1860 “...che a causa del disordine e del
tumulto le due statue caddero a pezzi e di una restò la sola testa di Francesco
II, la quale infilata su di un grosso bastone cominciò a fare il giro del paese
con le grida dei dimostranti che questa volta gridavano viva la capa de lu Re”.
Sul numero dei
caduti di quel giorno le cifre sono contrastanti: chi parla di 30 morti
e cinque feriti, alcuni dicono 33, mentre furono 200, secondo gli storici Nisco e De Cesare. (3)
In quei giorni, proveniente da Cerignola, giunse ad
Ariano anche una colonna borbonica, forte di seimila uomini al comando del generale
Flores.
Il giorno 9 lungo la strada tra Campanarello
e Pietradeifusi, gli uomini di De Marco e del Brienza (liberali), che accorrevano per liberare Ariano,
catturarono il generale borbonico Flores che stava fuggendo in carrozza con
moglie e figli diretto a Napoli.
Questi, ammanettato, fu condotto in Ariano davanti ai
suoi soldati per convincerli ad arrendersi.
La colonna armata,
priva del suo comandante, il 10 settembre gettava le armi e abbandonava il
campo. I militari cercavano di vendere i
loro fucili e le munizioni per acquistare vestiti borghesi e tornare a casa.
Nel pomeriggio del 13, dopo la resa delle forze
borboniche, i volontari, “I cacciatori Irpini”, al
comando del maggiore De Marco, entrarono in città senza incontrare resistenza.
Il giorno dopo arrivò anche la legione del Molise e del Matese.
Furono arrestati diversi reazionari e molti religiosi;
fra questi ultimi: il canonico Forte, il francescano Luigi Ciardulli
ed i sacerdoti Giuseppe Santosuosso e Nicola Vernacchia.
Molti rivoltosi riuscirono a fuggire fra i quali il
canonico Forti, ritenuto dal Governatore Nicola De Luca, in una relazione
inviata il 14 aprile 1861 al Segretario generale del Ministero dell'Interno in
Napoli “...uomo sedizioso contro del quale ho elementi che abbia agito
nell'ultima cospirazione...”.(4)
Nei moti d'Ariano, molti furono i religiosi che da una
parte e dall'altra parteciparono agli avvenimenti. Alcuni credevano alla loro
missione, altri erano solo strumentalizzati
per accattivarsi la simpatia dei contadini, che credevano a tutto ciò
che dicevano e facevano i preti. Per questo i rappresentanti del nuovo Governo
ritenevano i religiosi un potere a parte. (5)
Come abbiamo notato in questa reazione e in altre del
mese di settembre, non vi fu nessuna azione di briganti ma solo reazione di
poveri contadini e della popolazione che durante la rivolta massacrarono 140
liberali e guardie nazionali, affluiti dai paesi vicini.
Subito dopo, la ribellione si estese a Montemiletto, Torre le Nocelle, Montefalcione,
Dentecane, Bonito, Pietradifusi,
S. Angelo dei Lombardi e Monteverde.
La rivolta infine fu domata dagli uomini del garibaldino Tùrr.
Nella prima
quindicina di settembre, altri moti popolari si ebbero a S. Antimo, Marcianise,
Vasto, a Gallo e a Letino sul Matese
e in alcune località del Molise. (6)
Note
1-Samnium,
ibidem, p.30.
2-Samnium,
anno XXXIV Gennaio-Giugno 1961 n.1-2, Avellino e l'Irpinia di V.Cannaviello, o.c. p.14.
3- Samnium, La Reazione d'Ariano nel Settembre 1860 di F. Zerella, o.c. p.33.
4- Samnium anno XXXIX Gennaio-Giugno 1966, varietà e Postille
p.148-149.
5- Pagliara Fulvio e Nicola Cuciniello,
Ricerche storiche sull'Irpinia, Storia di Montefalcione,
Ed. Roma-Foggia, 1990, p.117.
6-Franco
Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, o.c.)
La Rivolta di Montemiletto 1860
Il movimento di riscossa, iniziato ad Ariano si era
esteso in tutto il Principato Ultra: il 5 e il 6 settembre a Montemiletto, il 7 a Torrenocelle,
Bonito, S. Paolina, Cervinara, nel Molise e in terra di lavoro.
Francesco II in Irpinia poteva contare su alcuni fidati
agenti, tra i quali: l'ex intendente Pasquale Mirabelli
Centurione, Carmine Ardolino, ex agente della polizia
borbonica e Pirro Penna che manteneva
contatti con l'abate di Montevergine De
Cesare, con il principe Luigi, (conte d'Aquila, fratello di Ferdinando II), con
il clero, la Guardia Nazionale e gli amministratori. Gli agenti borbonici
sobillavano la popolazione contro i Liberali e i proprietari terrieri,
promettendo terre e soldi, beni e privilegi per tutti.
Il rancore dei contadini e dei senza terra, nei confronti
dei signorotti e liberali era giunto all'esasperazione perché i terreni dei
vecchi feudatari erano passati lentamente nelle mani dei possidenti, i
galantuomini, mentre, i contadini erano
diventati ancora più i poveri. Gli agenti dei Borbone promettevano nuove terre
per i contadini. (1)
A capo del comune
di Montemiletto, con l'incarico di sindaco è nominato
l'arciprete Domenico Leone.
Nella notte del 4 settembre una colonna di camicie rosse,
al comando del capitano Carmine Tarantino, giunse nella cittadina con l'ordine
di abbattere il telegrafo e instaurarvi il Governo provvisorio.
Il telegrafo fuori uso fu ritenuto dagli abitanti una
grave offesa, per loro significava la fine del Governo borbonico.
Nel frattempo, nelle campagne e nei paesi vicini, la
popolazione incominciava ad organizzarsi. L'agente borbonico Ardoino si era messo in azione chiamando a raccolta gli
uomini di Gaetano Baldassarre della vicina Montefalcione
mentre l'ex sergente del disciolto esercito, Matteo Lanzilli,
coordinava la reazione.
Per le campagne correva voce che i volontari stranieri
avrebbero violentato le donne e saccheggiato le case: era giunto per loro,
poveri contadini, il momento di vendicarsi di tutti i galantuomini e di tutti i
proprietari in nome del Re.
All'alba del 6 settembre nelle campagne di Montemiletto, il suono della tofa
chiamava a raccolta i contadini e coloro che durante le notte erano accorsi dai
paesi vicini.
Il sindaco del paese, il liberale arciprete Domenico
Leone, nel frattempo, prevedendo il pericolo di una rivolta, aveva cercato di
rinforzare le schiere volontarie del paese reclutando una ventina di armati
provenienti da Montaperto.
In paese, visto il pericolo, molti volontari si
allontanarono, compresa la maggior parte della Guardia Nazionale.
I pochi volontari, per difendersi, si barricarono nel
castello.
Verso mezzogiorno una moltitudine di gente armata
proveniente dalla campagna, con le bandiere bianche, simbolo dei Borbone, aveva
circondato il paese.
Erano dalle trecento alle cinquecento persone armate di
pali, zappe, scuri, schioppi, baionette e forconi. All'improvviso si udì uno
sparo e si diede l'assalto al palazzo del capitano Giuseppe Fierimonte.
Questi aveva cercato di parlamentare per evitare di spargere sangue, ma la
folla inferocita lo colpì e fece scempio del suo corpo. Da quel momento si
scatenarono un po' tutti e, al nome di “viva il Re”, le uccisioni e le vendette
non si contarono più. Furono incendiate e saccheggiate le case dei notabili.
Scrive Arturo Bascetta:
“Quelle mani rozze, segnate dai solchi della terra,
mostravano tutta la ferocia di secoli di sottomissione al potere. Era la
ribellione degli uomini della terra verso i signori. La rabbia che si leggeva
sui volti crucciati e anneriti dal sole aveva preso d'improvviso il sopravvento
e quella pelle, seppure doveva restare scura, divenne d'improvviso scudo, e
arma, e pretesto per non dire mai più signorsì a nessuno e, mai più, regalare
salamelecchi contro natura. I nobili cuori degli uomini semplici erano
diventati duri come le pietre. Perfino le loro donne, tirandosi su i capelli e
sciupando di proposito una femminilità mai avuta, s'erano armate; e sembravano
uomini, e donne, e poi solo uomini: era l'esercito dei reazionari che non
volevano più chiedere” (2).
Nonostante i vari assalti, il castello resisteva. I militi
asserragliati si difendevano bene, ai rivoltosi non restava che rassegnarsi o
trovare qualche stratagemma per impadronirsene. Matteo Lanzilli,
l'animatore della rivolta, chiamò un prete e lo convinse a portarsi sotto le
mura del maniero per chiedere la pace senza spargere più sangue fraterno.
Dopo due tentativi, il sacerdote con il Cristo fra le
mani riuscì a far cessare il fuoco.
All'invito di una delegazione d'amministratori e
religiosi e al richiamo di voci amiche, gli assediati uscirono dal castello e
deposero le armi, fiduciosi della lealtà degli avversari. Appena disarmato il Lanzilli impugnò la baionetta e ferì un milite, era il
segnale: incominciò di nuovo la carneficina.
Il tramonto del sole portò la calma.
Furono saccheggiate le case dei signori: Pesa, Colletti,
Leone e Fierimonte; si contarono alla fine ventitré
morti e un ferito.
Il sindaco, arciprete don Domenico Leone, si salvò perché
il giorno 7 si trovava ad Avellino insieme al parroco don Donato Colletti. Don
Domenico non avrà la stessa fortuna nella reazione dell'anno dopo, perché sarà
ucciso dai rivoltosi. (3)
Note (da Pietro Zerella,
Preti Contadini e briganti, o.c.)
1-Arturo
Bascetta, L'Esercito di Franceschiello, o.c.
2-Arch.
di Stato Napoli, fasc. 1074.
3- Samnium a. XXXIV
gennaio-giugno, 1961, n.1-2, p.127 Varetà e Postille.