Intervista di Renzo Montagnoli a Ferdinando Camon per Dal
silenzio delle campagne, edito da Garzanti
Prima di iniziare con le domande
ritengo opportuno informare che proprio in questi giorni è uscita una versione ebook (epub), sempre a opera di
Garzanti, di tutte le poesie di Camon, raccolte in
volume unico, intitolato “Dal silenzio delle campagne dove tornano le volpi”,
che contiene anche la raccolta “Liberare l'animale”, da tempo introvabile.
Quindi, per chi ama questo tipo di pubblicazione elettronica, è una ghiotta
occasione, poiché si ha l'opportunità di leggere due libri riuniti in un unico
formato editoriale.
Ferdinando Camon
scrive romanzi, libri di aforismi, editoriali, e anche poesie, le poesie tanto
neglette dal mondo editoriale. Le scrive e ottiene anche dei premi, come il
Città di Bologna per “Dal silenzio delle campagne” e il Viareggio per “Liberare
l'animale”. E' un fatto raro che un autore sia contemporaneamente di eccellenza
nella narrativa e nella poesia, anche perché troppo diverse sono le strutture
dei due generi; è un fatto raro, ripeto, ma Camon
rientra in queste rarità. Tuttavia, mi viene da chiedere se nell'arco del suo
trascorso letterario sia venuto prima il Camon poeta,
oppure il Camon narratore, e con ciò intendo
ricomprendere anche gli anni giovanili dell'immediato dopoguerra. In particolare si è trattato di due percorsi
temporali ben distinti, oppure la creatività per la prosa e per la poesia hanno
proceduto di pari passo?
Anzitutto, non ci tengo che si citino per me i premi letterari. I premi
letterari non sono giudizi, non sono traduzioni, e non hanno rilevanza critica.
Servono soltanto a far circolare un po' i libri, e quindi sono graditi agli
editori. Come autore, li accettavo ma non li cercavo. Ho vinto lo Strega, ma
non volevo neanche concorrere, è stata la patrona del premio a fare un viaggio
da Roma a Milano, per parlare col mio editore e convincerlo a farmi
partecipare. Ho scritto in “Tenebre su tenebre” che ogni premio, anche il
Nobel, premiando, premia se stesso, cioè cerca un tornaconto. Lo Strega veniva
vinto da dieci anni consecutivi sempre dallo stesso editore, la patrona era
seccata, voleva rinverginare il premio, aveva bisogno
di un editore diverso e separato dagli altri e di un autore isolato e senza
potere. Lesse il mio libro e puntò su di me. Quindi ho vinto lo Strega perché
così la patrona voleva. Se no, l'avrei certamente perso. La Natalia Ginzburg
voleva che vincesse il marito di sua
figlia, e si presentò al Ninfeo con una cinquantina di schede raccolte da lei
personalmente. Perse, ma noi garzantiani non siamo in
grado di combattere con queste armi. Per il Viareggio di poesia ricordo che
concorreva anche Franco Fortini, che io amavo come un padre. Perciò mandai una
lettera a ciascun membro della giuria, Sapegno,
Salinari, Repaci, Raimondi,
eccetera, per comunicare che mi ritiravo, non volevo ostacolare Fortini. Ma qui
saltò fuori un problema che non conoscevo. I membri della giuria erano
pressoché tutti comunisti ortodossi, del Pci, mentre Fortini era un comunista
eretico, venato di Cristianesimo e sensibile ai partiti a sinistra del Pci. In
breve: votarono me per punire Fortini. Non ne vado fiero.
Ciò detto, io ho cominciato scrivendo versi, racconti e saggi, contemporaneamente.
Ho pubblicato anzitutto un librino di versi, da Neri Pozza. Neri Pozza era un
piccolo ma prestigioso editore, stava a Vicenza, e aveva collane di prosa e di
poesia in cui ospitava Montale, Luzi, Zanzotto, eccetera. Erano libretti molto
belli. I giornali li recensivano volentieri. Neri Pozza, naturalmente, non
pagava diritti d'autore. Ma, prima di stampare il libro, mi portò sui colli
vicentini, mi offrì un piatto di pasta e mi disse: “Questo è il compenso, non
mi chieda nient'altro”. Lo trovai giusto.
Sapevo della questione dei premi
letterari e immaginavo la reazione, di cui adesso i lettori verranno a
conoscenza. Comunque, mi pare di capire che l'inizio sia stato plurimo (poesie,
racconti e saggi), circostanza che assume maggior valore, perché all'epoca
Internet, su cui veicolarli, non esisteva. Per il resto e proprio per la poesia
c'è il solito problema, che non vende, o vende poco, un problema che si
trascina da tempo in un paese di tanti aspiranti poeti che sdegnano di leggere
ciò che scrivono altri, magari assai più esperti e affermati.
Dal silenzio delle campagne mi sembra che venga dopo i romanzi del Ciclo degli ultimi, quelli che ti hanno
portato, giustamente, la notorietà; là si parlava della fine della civiltà
contadina, mentre in queste poesie siamo già in epoca ben successiva e mi pare
di capire che si voglia rappresentare la nuova civiltà, che io, forse parossisticamente, preferisco definire inciviltà. I nuovi
agricoltori, subentrati ai contadini, pensano solo a una cosa: al denaro. E per
questo sono disposti a dimenticare tutto, anche i gravi torti subìti durante la
guerra. Mi domando e ti domando: questa nuova società ha solo dei difetti,
oppure ha anche qualche pregio, ovviamente se raffrontata alla civiltà
contadina?
Ha anche pregi, naturalmente, e io non li nego. Quando veniva avanti la
nuova civiltà del benessere, Pasolini scrisse un famoso articolo sul
“Corriere”, noto come “Discorso delle lucciole”. Poi lo incluse, se non ricordo
male, nel libro “Scritti corsari”. Termina così: “Io darei tutta la Montedison
per una lucciola”. A volte il mio cervello s'inganna, pensa che la parola sia
“Montecatini”, e indichi la mega-azienda prima della fusione con la Edison. Ma
no, Pasolini dice proprio “Montedison”, la fusione era già avvenuta. La civiltà
dei consumi portò la morte delle lucciole, perché la nuova agricoltura faceva
grande uso di anticrittogamici. E Pasolini vuol dire che il benessere, la
ricchezza, il cibo per tutti, le auto, il riscaldamento, non valgono la Natura
che han distrutto, lui tornerebbe volentieri alla Natura, tutta la Montedison
non vale una sola lucciola. Io gli ho risposto, più volte e in più sedi, che
nessuno la pensa come lui, neanche fra i contadini, neanche fra i suoi
corregionali friulani. Nel treno in corsa verso la ricchezza anzi i friulani
erano “la locomotiva”. Perché il benessere raggiunto con la distruzione della
Natura aveva i suoi premi: case calde, fine dei geloni sulle dita dei bambini,
cibo, fine dell'avitaminosi, televisioni nei bar, informazione per tutti, fine
dell'ignoranza, pulizia, igiene, qualche vacanzetta,
un'auto utilitaria non in ogni famiglia ma almeno in ogni clan di famiglie,
vestiti da festa per la domenica, viaggi di nozze e non solo pellegrinaggi. Io
resto ancora dello stesso parere. I consumi hanno portato anche del bene. Nei
romanzi dedicati agli “ultimi” io denuncio non il progresso ma il prezzo del
progresso, che ha ucciso una civiltà, e mi fa male che di quella civiltà non
resti nulla. Molte cose bisognava ricordarle. Io le ricordo.
D'accordo, il progresso non si può
fermare, ma si tratta anche di vedere a che prezzo si progredisce. Certo,
nessuno ormai può rinunciare al cibo in quantità più che sufficiente, al
riscaldamento d'inverno e al rinfrescamento in estate, all'auto, alla vacanza,
ma tutto questo ha un prezzo che non è quello monetario che si deve saldare per
fruire di questi benefici, ma è un male in verità assai subdolo che soffoca i
sentimenti con gli interessi, la vita serena con una frenesia che è sempre
presente, che uccide la natura che poi finisce sempre per vendicarsi con
inondazioni, con mali da cui non c'è scampo.
All'epoca della civiltà contadina la
tubercolosi mieteva vittime come oggi il cancro, ma la nevrosi era un malanno
sporadico, mentre ora è imperante. Non
sono comunque uno di quei vecchi lagnosi che vanno blaterando che si stava
meglio quando si stava peggio: io constato che ogni epoca, ogni civiltà ha il
suo pro e il suo contro, e quindi un puro progresso non esiste, perché luci e
ombre si mescolano sempre. Tu non sei uno di quelli che rimpiangono il passato,
però soffri di un po' di nostalgia per essere stato partecipe di questa civiltà
contadina, complice anche il fatto che ti sei trovato a viverne la progressiva
decadenza. Al riguardo, non credo siano stati il progresso con la crescente
industrializzazione a farla tramontare, penso invece che siano state due
guerre: la prima, che ha posto i prodromi per la seconda, e appunto questa. Se
non ci fossero stati tanti morti, tante distruzioni, è probabile che la civiltà
contadina sarebbe durata ancora a lungo, o che comunque la sua scomparsa
sarebbe stata assai più lenta. Che opinione hai in proposito?
Anzitutto, io credo che il prezzo più alto che paghiamo al progresso sia
di ordine morale. Con la morte della civiltà contadina è morta una famiglia,
un'idea di vita, di madre e di padre, di figli, la presenza dei nonni,
un'economia, un'idea di peccato, di morte, di matrimonio, di sesso, di aldilà,
di soldi, e di Dio. Muore un uomo, con tutto quello che ha dentro. È questo il prezzo. Adesso il progresso batte
alle porte di paesi governati dall'Islam, ma ci sono credenti nell'Islam che
non sono disposti a perdere la loro civiltà (che contiene la religione) per il
nostro progresso. Preferiscono uccidersi o ucciderci. O tutt'e due. Mentre
scrivo, stanno per riprendersi Baghdad. Da noi le campagne sono morte, con
tutto quello o tutti quelli che contenevano, e nelle nuove campagne nascono
dolorosamente nuovi uomini. Io racconto, anche nelle poesie, quella morte e
questo dolore. Le guerre hanno accelerato la morte della civiltà contadina,
perché hanno accelerato la distruzione degli Stati com'erano, la dissoluzione
dei confini, le emigrazioni, la fusione dei popoli. Adesso entrano in contatto,
e si fondono tra loro, popoli che prima ignoravano uno l'esistenza dell'altro.
Fa impressione, passando per le campagne, vedere a mezzogiorno sui campi file
di braccianti islamici inginocchiati verso oriente, e accanto a loro file di
contadini cattolici che li guardano stupefatti. Molte poesie sono dedicate a
questo incontro-scontro, a questa fusione coatta. Noi vediamo morire un'epoca,
non vediamo nascere l'altra. Possiamo soltanto patire quella morte, non godere
questa nascita. Il senso dell'epoca che attraversiamo è la decadenza.
Noi vediamo morire un'epoca, non vediamo nascere l'altra. Questa frase
sintetizza lo scoramento proprio di chi si sente orfano di qualche cosa a cui
apparteneva. E' vero, ciò che è venuto meno è un ordine morale, è finita una
società basata sul sacro valore della famiglia e permeata di una religiosità
quasi ancestrale. L'uomo attuale, con una famiglia disaggregata, non lotta più
per vivere, per affermare, anche se inconsciamente, valori che si portava
appresso da anni e anni, e lo stesso concetto di religione è più formale che
sostanziale. Non è bello dirlo, ma
l'uomo moderno non vive bensì vegeta, incapace di dare un senso al suo presente
e impossibilitato a disegnare una strada per il futuro. È che il cambiamento è
stato troppo repentino e volto a soddisfare solo la sua materialità (cibo,
sesso e successo, tutte effimere mete che segnano la sua sconfitta). Sì, sotto
l'aspetto materiale ci sono grandi e positive differenze, sotto quello morale,
che è indispensabile per un reale progresso, ci sono pure, ma in negativo. A
volte mi chiedo se questa mia visione pessimistica dipenda dall'età, se il
passato, di cui amplificato perviene il ricordo della giovinezza, sia
veramente, appunto sotto l'aspetto morale, così migliore del presente. È un
dubbio che mi rode e vorrei sapere se anche Camon,
che pure ha più esperienza di me, si pone qualche volta la domanda se ciò non
sia frutto di un'illusoria visione di un'epoca vissuta, ma che ora appare anche
troppo lontana.
No, non lamento che il passato fosse migliore del presente, e che ora
occorra tornare al passato. Questa era l'operazione che faceva Pasolini. Io
lamento un'altra cosa, e cioè che abbiamo perso la memoria, e che dunque il
passato non esiste più. Non solo il passato come nostra vita, ma anche il passato
come nostra storia. Le nuove generazioni non sanno niente di come vivevano i
loro padri e non sanno niente di quel che successe ai loro nonni: guerre,
invasioni, resistenza, lavoro, sacrifici, miserie, religiosità, valori, morti,
patimenti, grandezze, cultura, dei padri e dei padri dei padri. Se la Storia
scorre, e scorrendo supera e scavalca, questo va bene, è ineluttabile, che
significa contro cui non si può lottare. Ma ora noi stiamo attraversando una
Storia in cui tutto vien buttato via. E questo non va bene. Perché non tutto il
passato era vergognoso. C'era una grandiosità anche nella miserabilità. Io ho
scritto poesie sul “niente” (un toro, una catapecchia, un morto, un albero, un campo…), ma quel niente rappresentava un mondo, cioè tutto.
Prova a rileggere “Amavo la campagna” o le poesie “Dagli allevamenti di tori”.
Non è che voglia farmi della
pubblicità, ma ciò che lamenti, cioè la mancata conoscenza del passato, e in
buona sostanza l'ignoranza delle proprie radici, elementi indispensabili per saper
vivere il presente e fare almeno qualche progetto per il futuro, è il tema
della mia silloge Canti celtici. E
non dire che hai scritto poesie sul niente, perché l'estro creativo si vede
soprattutto quando lo spunto di partenza è una piccola cosa, magari una
banalità.
Certo, il mondo di allora, così
diverso da ora, aveva tanti problemi, che la gente avvertiva senza essere
tuttavia consapevole del perché ci fossero. Oggi non c'è nessuna
consapevolezza, se non quella del mancato lavoro, delle tasse, delle difficoltà
di andare avanti (che sono cose da niente rispetto al passato), ma la capacità
di comprendere che cosa significhi veramente una famiglia, un concetto non
retorico di patria e una visione salvifica della religione latitano.
Cosa salveresti del passato, che cosa
vorresti che l'uomo d'oggi sapesse?
Vorrei che i figli ascoltassero i genitori come noi li ascoltavamo, che
s'interessassero alla vita dei padri come facevamo noi, e alla storia dei
padri, che avessero non dico accettazione ma attenzione per il sacro, che si
rendessero conto dell'importanza e non-banalità del sesso, che rifiutassero le
droghe perché anti-natura e dunque accettassero la naturalità come un bene, che
si rendessero conto che un rapporto sessuale è un atto responsabile perché può
mettere in moto un figlio, e che un figlio ha i diritti di una persona, che
rispettassero i vecchi come facevamo noi, che i vecchi malandati e
non-autosufficienti non vanno buttati via e anzi occuparsi di loro dà un senso
alla tua vita, un vecchio malato di
Alzheimer ti dà l'occasione per diventare padre di tuo padre o madre di tua
madre, che il matrimonio non si rompe dopo la prima litigata, che un figlio non
si abortisce per andare in vacanza, che andare a scuola è una fortuna immensa,
è il vero privilegio dei ragazzi d'Occidente sulle altre parti del mondo,
leggere la Divina Commedia è la più alta esperienza della vita, comprare libri
non è uno spreco ma il primo investimento della vita, la differenza tra vita e
vita non sta nel tenore ma nella qualità, e la qualità è data dalla cultura,
puoi non credere ma non devi bestemmiare, perché per il nome che tu bestemmi si
son fatte bruciare vive persone che non erano peggiori di te, che una casa
senza libri è inabitabile, che sapere cos'è successo ieri è la condizione per
vivere domani, che tra le cose importanti che devi sapere ogni settimana c'è
quali film e quali libri sono usciti, che tu puoi avere quattro-cinque
ragioni per lamentarti della tua ragazza o di
tua moglie ma devi chiederti se lei non ne abbia quattro-cinquemila
per lamentarsi di te, che non devi convertire ma dare informazioni, che i tempi
in cui viviamo sono tremendi come lo sono sempre stati, che i film sono
messaggi importanti perché su ognuno han lavorato 15-20 cervelli, che un libro
che si ristampa una volta all'anno per trent'anni è più importante del libro
che si ristampa trenta volte in un anno poi basta…
Non è poco, è tanto e i giovani, ma
anche quelli un po' più anziani, cioè nati dal 1960 in poi non possono sapere queste
cose, perché non gliele hanno insegnate, e la colpa è solo nostra, di quelli
della generazione immediatamente precedente e immediatamente successiva il
secondo conflitto mondiale. Ogni tanto mi arrovello e mi chiedo il perché non
ho saputo trasmettere ad altri questi immensi valori. Per pigrizia, per il
fatto di essere stato sedotto e ingannato dall'economia del benessere? Forse è
questo il motivo e se il gusto di sapere che tutto è possibile, che un po' di
agiatezza può essere alla portata di tutti mi hanno incantato, non sono
giustificato. Io, per primo, ho tradito me stesso ed è questo che mi dispiace,
è questo senso di colpa, tanto più marcato quanto il sapere che non c'è rimedio
al mio errore. Al riguardo, qual è la tua opinione?
C'è uno psichiatra della mia città, che si chiama Giovanni Crepet, ed è
diventato famoso per una teoria, che è anche il titolo di un suo libro di
successo, che dice: “E non vogliamo ascoltarli”. Vedo che tu la segui. Non mi è
mai piaciuto quel titolo e quel concetto. Sul quotidiano “La Stampa” mi sono
occupato di cronaca giovanile per due decenni, ragazzi che uccidono, che si
uccidono, si drogano, che scappano, e la teoria del “Non vogliamo ascoltarli”
si è capovolta nel suo contrario: “E non vogliono dirci niente”. Non è che i
ragazzi parlano e parlano, a pranzo, a cena, si confessano e si confessano, e
noi non li ascoltiamo. È vero il contrario. Stan
chiusi nel loro mondo. Vivendo con i figli, noi viviamo e mangiamo con estranei
e sconosciuti. Ogni volta che veniamo a sapere qualcosa dei nostri figli,
cadiamo dalle nuvole. Per noi loro sono tutto. A loro, di noi, non gliene frega
nulla. Quando gli davamo la prima ricchezza del mondo, non se la meritavano.
Ora che gli diamo miseria e disoccupazione, non ci meritiamo questo dolore.
Beh, quando uno non parla, si deve cercare di farlo parlare, di destare
interessi fin da quando sono piccoli. Se non parlano, se non gl'importa di noi,
è perché c'è stato un nostro errore originario. Comunque stiamo andando in un
campo che esula dall'intervista e credo che sia opportuno tornare a questo tuo
libro, alle tue poesie. Ce n'è una, Liberare
l'animale, che nella sua drammaticità mi affascina. Riporto solo alcuni
versi:
L'ultima volta che ti vidi / due soldati
tedeschi ti portavano / appeso ad un bastone / con una corda passata / sotto le
ascelle, / con le mani penzoloni / reggevi forate le budelle
/ pendule sui coglioni. /…
È una
scena che non mi è nuova, l'ho incontrata probabilmente in qualche altro tuo
libro.
Ci
sono altri versi della stessa poesia che non mi sono del tutto chiari e allora
credo che l'interpretazione dell'autore sia necessaria:
La
tua morte non mi commuove / più di quanto potrebbe la tua vita: / questa e
quella non hanno uno scopo / per te più che per un topo.
Le scene dell'occupazione tedesca che io
ricordo sono dodici-quindici, le ho viste, non le ho
dimenticate, ci giro sempre intorno. Sono un buon testimone. Quell'uomo
catturato ed esibito era un mio parente, era un partigiano, lo avevano preso
con l'arma in mano, volevano da lui i nomi dei compagni, cercavano i suoi
parenti, lo mostravano sperando che la madre o il padre o qualche fratello
corresse ad abbracciarlo e così si tradisse. Suo fratello era accanto a me,
nella gran massa di uomini catturati per strada e radunati nel nostro cortile:
i due fratelli si sbirciarono per un attimo, ma non si tradirono, non ebbero un
tremito, un vomito, un grido, niente. Per questo dico che quel prigioniero, non
rivelando che noi eravamo suoi parenti, ci ha “donato” la vita. Ma era una vita
da schiavi, miserabile e animalesca, senza luce, non vale la pena ringraziarlo
né maledirlo. Ci vogliono millenni per creare uomini dove sono i contadini. La
morte di quell'uomo non mi commuove, perché mi commuoverebbe altrettanto la sua
vita: la vita dei contadini non era molto diversa dalla vita degli animali.
Questo voglio dire, nulla di più. È duro leggerlo, ma è duro anche
scriverlo.
Avevo
capito più o meno così, ma desideravo una conferma. Certo che per un bambino di
circa 9 anni dev'essere stato un ricordo drammatico,
come anche altri di quel periodo. Sono scene e, soprattutto, veri e propri
traumi che uno si porta dentro per sempre e il cui impatto emotivo non si
cancella, e forse neanche si attenua nel tempo. Ma vengo ad altre poesie, che
sono tutte belle, comprensibili e personali, in stile colloquiale, come di uno
che si racconta in versi. Per quanto concerne l'altra raccolta, cioè Dal silenzio delle campagne, mi hanno
colpito di più La candelora (Nel battesimo la madre del neonato / era
tenuta fuori della chiesa / perché aveva doppiamente peccato: / per restare
incinta aveva fatto sesso, / e per nove mesi aveva avuto in pancia / un
non-battezzato, cioè un ossesso. /…) e Il
padre del fucilato (Conosco il
genitore di un ragazzo / fucilato a Castelbaldo. /
Sta in un bugigattolo / vicino al bosco. È un miracolo / che non sia diventato
pazzo. / A chi gli chiede se gli hanno sparato in piazza, / risponde di sì, / o
se l'hanno annegato / nel fiume ancora di sì. / Lui vede il figliolo morire
quando / ammazza il maiale, quando / tira il collo a una gallina, quando / una
mosca gli casca nella minestra / e affonda zampettando).
Perché
m'interessano queste poesie? La prima, La
candelora, perché riporta un rito in cui ancora una volta la donna è
portatrice del peccato originale e inoltre c'è evidentemente un modo di vivere
fermo da secoli, insensibile a ogni cambiamento, in una religione con un Dio
severo e pronto a punire. La seconda perché è un ritratto sconvolgente del
dolore e credo che certi capi di stato dovrebbero leggere e rileggere poesie
come questa, prima che gli passi per la testa l'idea di una guerra.
Posso
immaginare che entrambe siano pure frutto di una diretta esperienza e allora mi
chiedo, ma domando soprattutto a te, com'è ora il ricordo di quei battesimi e
dello strazio di quel padre? Sul primo posso pensare che il vecchio
Cattolicesimo sia ormai definitivamente defunto, mentre sul secondo c'è forse
il rimpianto per le vittime che non hanno avuto giustizia. È così?
Quel Cattolicesimo è scomparso dappertutto,
ma resiste nelle campagne. Nel microscopico paese che è al centro delle mie
poesie e dei miei racconti, c'è sempre, da ottant'anni in qua, un parroco che è
un potente esorcista, scaccia i diavoli. Le vittime dell'occupazione non hanno
avuto giustizia, e la Nuova Europa nasce sulla mancata espiazione delle colpe.
Per avere giustizia bisogna contare, essere uno che conta. I contadini non
hanno avuto giustizia perché sono contadini. Il senso de “Il Quinto Stato”, “La
vita eterna”, “Un altare per la madre”, “Mai visti sole e luna”, oltre alle poesie di “Fuori
Storia”, “Liberare l'animale”, “Dal silenzio delle campagne”, è questo lamento:
io parlo degli innocenti, buoni, deboli, addirittura santi, che perciò erano
disprezzati e colpiti, e per loro non ci sarà mai giustizia. I miei libri sono
un “processo”. In quel processo, io accuso e condanno. Purtroppo, non posso
fare di più. La
letteratura, narrativa e poesia, è questo e non altro.
Comprendo e sono d'accordo: a questo
mondo i poveri e gli umili non hanno mai avuto giustizia e temo che non
l'avranno mai. È la legge del più forte, che regola anche il mondo animale, ma
se dobbiamo parlare di bestialità non ce n'è una peggiore di quella dell'uomo.
Purtroppo il messaggio cristiano è rimasto solo tale; per applicarlo bisogna
essere “umani” e i potenti non lo sono mai; la loro forza e la loro ricchezza
sono frutto di sistematiche rapine, peraltro legalizzate.
Grazie per la bella conversazione, che
non è la prima che abbiamo, e spero ve ne possano essere altre.
Dal silenzio delle campagne
di Ferdinando Camon
Prefazione di Fernando Bandini
Garzanti Libri
Poesia
Pagg. 118
ISBN 9788811620334
Prezzo € 7,75 (e-book € 4,90*)
- L'ebook appena uscito ricomprende anche la silloge ormai
introvabile Liberare l'animale