Intervista a Ferdinando Camon, autore del
libro Conversazione con Primo Levi, edito da Guanda.
La Sua è un'intervista realizzata in un
arco di tempo piuttosto lungo e in più incontri;
considerato che all'epoca (all'incirca nella prima metà degli anni '80) non
esisteva ancora Internet e quindi non era possibile effettuare il tutto con uno
scambio di messaggi elettronici, Lei ricorse a incontri diretti con lo
scrittore nella sua città natale (Torino), a scambi di telefonate e raramente
in via epistolare. Fu indubbiamente un impegno non trascurabile, anche se ne
valeva la pena. Che cosa la spinse però a contattare
Primo Levi per intervistarlo?
Mi spinse un complesso di colpa. Come ho scritto da qualche parte,
andare a parlare con Primo Levi per me significava andare a Canossa. C'è nel
libretto, se uno lo legge bene, un punto di attrito
tra Levi e me, che mi fu ascritto a colpa dalla stampa tedesca e francese di
destra. Levi sosteneva che la colpa dello Sterminio era del personaggio che
dominava la Storia, e cioè Hitler. Levi aveva un'idea eroica della Storia. La
Storia la fanno
Grandi, i dominatori, gli domi eroi. Costoro sono il vento che scuote il
mare, sul quale i popoli galleggiano come sugheri. Lui aveva un'idea ristretta
della Grande Colpa. Io sostenevo allora (cioè: mi aggregavo a chi sosteneva)
una colpa collettiva, la responsabilità di massa. Che non vuol dire di ogni
tedesco, singolarmente preso. Ma del popolo tedesco,
nel suo insieme. Questa tesi ha finito poi per scalzare la tesi di Levi: Hillberg e Goldhagen e tanti
altri parlano sempre e solo di una “responsabilità di massa” dei tedeschi per
lo Sterminio. E pongono, Hillberg
specialmente, la tesi che lo Sterminio fu l'ultima fase di un'opera di
espulsione ed esclusione durata molti secoli. Dapprima fu
detto agli ebrei: “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che diventiate come
noi. Convertitevi”. Fu l'epoca delle
conversioni coatte. Poi fu detto: “Non siete diventati come noi, andate a
vivere da un'altra parte”. Fu l'epoca dei ghetti. Il nazismo
venne per attuare la terza fase: “Né fra noi né lontano da noi, non potete
vivere da nessuna parte. Ovunque siate, dovete morire”.
Ma questa terza fase non sarebbe stata possibile senza
la seconda, e la seconda senza la prima. E su quella
fasi ha un'impronta fondante la civiltà euro-occidentale, della quale io, come
tutti qui, siamo figli. Levi è una nostra colpa. Recensendo il mio libretto
“Conversazione con Primo Levi”, la stampa tedesca di destra (ma sono comunque
grato che la Germania l'abbia tradotto) e la stampa francese di destra (ma sono
grato che il libretto sia stato tradotto e recitato in teatro in una ventina di
città, e la pièce dovrebbe ripartire di nuovo
quest'anno) giudicavano Levi “obiettivo”,
nell'attribuire la colpa al solo Führer, e me “razzista”, nel coinvolgere il
popolo tedesco. Si crede che veder
girare un proprio libro nel mondo sia una gioia, invece è un martirio.
Si potrebbe dire che Hitler nel popolo
tedesco è riuscito a far emergere determinate caratteristiche che prima erano
sopite, o comunque in letargo. Al riguardo mi pare che Marlene Dietrich abbia
espresso sostanzialmente lo stesso concetto e lei appunto era tedesca.
C'è un passo della
conversazione, all'argomento “Il diavolo nella storia”, in cui Lei dice: - Tuttavia, nei momenti delle grandi riprese
dei loro movimenti morali e religiosi, loro pescano sempre in un repertorio di
perdizione, di dannazione, di… e Levi aggiunge: - Di demoniaco? Al che la sua risposta è questa: - Di demoniaco, che coinvolge e annulla la stessa divinità…
La pregherei di precisare quali siano
questi momenti in cui sono emerse caratteristiche di diabolica perdizione e di
abbandono al male. Già che ci sono, mi risulterebbe che accadimenti simili non
hanno caratterizzato solo i tedeschi, ma anche i polacchi e i russi.
Nella mia memoria si affacciava un brano di uno storico tedesco,
che commentava come adesso dirò l'avvento del luteranesimo. Lo può trovare
nell'Antologia di Critica Storica di Armando Saitta,
in tre volumi, per Laterza. Il brano è questo: Lutero sta dialogando con un
seguace, gli espone il suo concetto di Dio e di giustizia divina, come questa
giustizia sia legata alla Grazia e separata dai
merito. “Ma come si può amare un Dio come questo?”
esclama terrorizzato l'allievo. “Amarlo?” risponde Lutero, “io lo odio”. Questa
confessione di Lutero, che odia il proprio Dio, mi entrò nel cervello allora,
ero studente di liceo classico, e non m'è più uscita. Nella mia cultura di
euro-mediterraneo è inammissibile. Se non erro, Freud s'interrogava su quel che
facevano i tedeschi del suo tempo, e rispondeva che erano “battezzati male”,
cioè “mal cristianizzati”. In questi giorni mi sto occupando di Primo Levi,
presento sulla “Stampa” un libro di Frediano Sessi
intitolato “Il lungo viaggio di Primo Levi”, e mi son riletto le opere
concentrazionarie di Levi: i custodi del lager non erano uomini, non avevano
niente di umano. Nell'incontro del '38 al Brennero con Mussolini, Hitler gli
portò in regalo le opere di Nietzsche rilegate in pelle. Hitler non ha mai taciuto
che intendeva realizzare il Superuomo di Nietzsche con le sue SS. L'avvento del
Superuomo è teorizzato in “Così parlò Zarathustra”.
“Tre incarnazioni dello Spirito io vi narro – esordisce Zarathustra
-, com'esso divenne cammello, e di cammello leone, e di leone fanciullo”. Lo Spirito-cammello è
il Cristianesimo. “Qual cosa pesa di più?” chiede lo Spirito cammello, partendo per il proprio
deserto, “ditemelo, o eroi, affinché io me lo sobbarchi”. Ma, fratelli miei,
non significa questo immergersi nell'acqua putrida
della verità, senza scacciare da sé i rospi viscidi e i vermi schifosi?” Le SS
servivano a depurare l'acqua della vita dai rospi viscidi e dai vermi schifosi,
a correggere l'umanità, perché com'era stata creata non andava bene.
Comprendo; mi pare, però, di aver
capito che in fondo Levi in questa conversazione non attribuisce le colpe
dell'Olocausto al popolo tedesco e penso che questo
atteggiamento gli sia derivato dal timore di essere pure lui considerato un
razzista. Tuttavia, in un altro suo libro (I
sommersi e i salvati) esplicitamente incolpa i tedeschi per la loro
volontaria indifferenza. A Pag. 29 dell'argomento La colpa di essere nati Lei dice, fra
l'altro: - E cioè il problema di trovarsi
a scontare la colpa di essere nato. Perché credo che questa fosse la
<<colpa>> che distingueva l'ebreo dal politico o dal prigioniero di
guerra. I quali scontavano una battaglia persa, o una opposizione
politica; la l'ebreo per il solo fatto di essere nato doveva scontare questa
<<colpa>> : la colpa di esistere.
Concordo pienamente, ma mi sono sempre
chiesto perché proprio l'ebreo, ed è una domanda a cui
ho cercato di dare più di una risposta. Se non si è trattato di una scelta
dovuta al caso, la colpa di essere nato deriva forse da una altra
colpa, così come concepita a lungo dalla Chiesa, soprattutto quella luterana:
gli ebrei erano coloro che avevano immolato Gesù Cristo. Qual è la sua opinione
al riguardo?
Il nazismo però non si presentava come un movimento cristiano,
inteso a punire i nemici del Cristianesimo, anzi si poneva come pagano,
anti-cristiano, legato ai miti del suolo e del sangue, al culto della forza,
della razza, delle tradizioni ancestrali. A un certo
punto fu ordinato che nelle chiese luterane, sull'altare, accanto alla Bibbia,
fosse collocata una spada. Il “Mein Kampf” è stato un libro proibito per mezzo secolo, ma in
Italia lo stampava una casa editrice di estrema sinistra, la ERS,
Edizioni Riforma dello Stato, fondata e diretta da Armando Cossutta, che era un
fuoriuscito dal Pci, a sinistra del Pci. Io l'ho trovato, l'ho comprato e l'ho
recensito, sull'”Unità”. Ho letto il libro alla ricerca del “sistema” di
Hitler, se voleva la guerra o no, contro chi, a che scopo, se preparava lo
sterminio degli ebrei, e perché. Il libro è chiarissimo. È lo sfogo di una
nevrosi fobica-depressiva, che diventa aggressiva.
Hitler è sgomento per la sconfitta della Germania, e spaventato per la potenza
di Francia e Inghilterra. Sogna la vendetta. Per la vendetta
gli serve un popolo compatto, obbediente, educato militarmente, fisicamente
robusto. Raccomanda che nelle scuole non s'insegni
il francese, ma la boxe. Inculca l'odio verso gli ebrei, ma non li accusa mai
di qualche colpa specifica (hanno fato questo male o quello), ma li accusa di
tutte le colpe in generale. L'odio verso gli ebrei, non avendo una colpa da
correggere, è immotivato e perciò implacabile. Gli ebrei vanno sterminati
perché sono ebrei. Non importa se per sterminare gli
ebrei dedichi uomini, mezzi, risorse e tempo, che sarebbero necessari per
vincere la guerra: anche quella contro gli ebrei è una guerra, serve a liberare
la Germania e l'umanità.
Certamente, il Mein
Kampf è talmente chiaro che nessuno che lo legga
potrebbe dire che Hitler da agnello si era trasformato, una volta giunto al
tepore, in lupo feroce.
Mi scusi, però, se ritorno alla
domanda, che non è frutto di curiosità: perché sempre l'ebreo deve essere un
capro espiatorio? Forse ciò è dovuto a più concause, non ultima quella
religiosa. Vede, la cosa mi interessa sia come parte
del genere umano, sia per motivi personali. Del resto, se Hitler ha praticato
l'annientamento sistematico degli ebrei, questi hanno sempre patito nella
storia persecuzioni più o meno ampie; al riguardo,
basti pensare ai pogrom e andando più indietro nel tempo la Spagna del XV
secolo. Forse non è in grado di darmi una risposta compiuta, come in verità non
lo sono nemmeno io, ma Hitler non si è inventata la persecuzione degli ebrei,
l'ha adottata e ne ha fatto uno scopo della sua vita, applicandola con metodo e
ferocia.
Ecco, io pongo questa esatta domanda a Levi, a pagina 17, e lui la rifiuta: dice che “non i tedeschi odiavano gli
ebrei”, ma “Hitler odiava gli ebrei” e “ i nazisti odiavano gli ebrei”. Quando
io cerco di trovare radici lontane del superomismo dei
tedeschi nella loro mitologia, e m'interrogo sulla separazione che loro pongono
tra merito e salvezza, opere e grazia, lui ribatte che non c'è traccia di
questo in Goethe. Ammette però che il diavolo è una presenza fondamentale nella
loro formazione. Io mi spingo fino ad affermare che l'irruzione dei popoli
germanici nella storia degli altri popoli europei non hanno effetti diversi
dall'irruzione della peste e delle epidemie, lui ritorna a limitare questo
ruolo ai tedeschi nazisti, e questo ha prodotto un curioso effetto nella
circolazione del mio libretto di conversazioni con Levi in Germania e in
Francia: c'è in Germania e in Francia anche una stampa di destra, che s'è
buttata su queste pagine ribadendo che Levi assolve i
tedeschi mentre Camon li condanna,
quindi Camon è il vero razzista, che combatte il razzismo tedesco con un
razzismo antitedesco. Allora queste accuse erano possibili, oggi non più.
Perché oggi il concetto di “responsabilità di massa”, “responsabilità
collettiva” è molto più chiaro, diffuso ed accettato,
anche dai tedeschi, fino alla cancelliera Angela Merkel. Gli ebrei sono stati sradicati dal loro suolo nel
70 dopo Cristo, da Tito, che non era ancora imperatore, soprannominato “deliciae generis humani”, il quale ordinò l'uccisione di tutti i maschi in età di armi
e la cacciata delle donne e dei bambini. La diaspora degli ebrei comincia
allora, e finisce dopo la seconda guerra mondiale. A differenza di altri
popoli, gli ebrei hanno conservato cultura, religione, tradizione, non scomparendo
nei popoli dentro i quali confluivano, e questo ha sempre distinto le comunità
ebraiche negli studi, nella scienza, nelle arti, nei commerci, nella
produzione…: nelle università, tra i premi nobel, tra gli scienziati, insomma
nelle classi dirigenti, la presenza di ebrei è sempre stata alta. Può darsi che
questo li abbia esposti alla visibilità, e la visibilità all'odio: e che così
il loro merito (avere una forte comunità ebraica è una fortuna per un popolo)
sia diventato un demerito (se qualcosa va male, si può dare
la colpa a loro). Ma ripeto: nei testi degli
“odiatori degli ebrei” non c'è mai un'accusa chiara, c'è solo un odio
viscerale, nebuloso e onnicomprensivo. È appena uscito qui da noi in Italia un
libro di Céline, col titolo “Céline
ci scrive”, pubblicato da una piccola casa editrice di destra, contiene le
lettere e gli articoli di Céline contro gli ebrei: me
lo sono subito procurato proprio per vedere se Céline
chiarisce, una volta per tutte, le ragioni del suo
antisemitismo, ma niente, lo ripete infinite volte ma non fornisce alcuna
ragione. C'è un film di Godard in cui un marito torna a casa
e dice alla moglie: “Sai la notizia? Il governo ha
deciso di eliminare tutti i medici e gli ebrei”, e la moglie: “Perché i
medici?”.
Mi sembra quindi di comprendere che
alla base di questo odio razziale ci sia una
irrazionalità, una sorta di atavica prevenzione che deriva da un popolo che è
riuscito, pur integrandosi, a mantenere la propria individualità. Dove sta
l'irrazionalità? Nella mancanza di presupposti, anche fasulli, che alimentino
l'antisemitismo e del resto, anche in persone insospettabili, ho sentito più
volte questo ragionamento: “Se gli ebrei sono stati trattati così, un motivo ci
sarà”. Ecco che implicitamente in questi
soggetti che, ripeto, non sono degli estremisti, esiste una prevenzione che se
non scatena un odio razziale, però fa sì che questo possa essere tollerato. E
da qui mi sorge spontanea la domanda: non posso credere che la maggioranza del
popolo tedesco avesse in sé quest'odio razziale, mentre
invece credo che per quel ragionamento che ho espresso prima abbia di
fatto accettata come logica la persecuzione degli ebrei. Quindi non erano
carnefici, ma tacitamente complici o al più indifferenti,
il che non sminuisce la loro responsabilità.
Qual è la sua opinione al riguardo?
La mia risposta è questa. Curiosamente, il “Mein
Kampf” non è un libro delirante-aggressivo,
che nasca dalla volontà di conquistare il mondo e sterminare gli ebrei. È un
libro fobico-depressivo, che nasce dallo spavento.
Hitler è terrorizzato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, le ammira e
le teme. Tutta la personalità e il programma di Hitler sono esplosioni del
trauma per la sconfitta della Germania: la Germania uscì dalla
Prima Guerra Mondiale non solo vinta, ma annichilita e umiliata. Il “Mein Kampf” è la rivolta contro questa umiliazione. Il collante che unisce Hitler al suo
popolo, quel filo elettrico lungo il quale lui scarica i fulmini della sua
forsennata oratoria, è la vendetta. Si sente sempre nei suoi discorsi, nei suoi
scritti, un concetto elementare, primordiale, insostenibile da ogni punto di
vista, ma di facile presa sulla massa: noi tedeschi abbiamo perso, perché?, perché non siamo “noi tedeschi”, in mezzo a noi ci sono
dei non-tedeschi, i quali ci corrompono e ci indeboliscono. Per questo abbiamo
perso. La nostra sconfitta è colpa degli ebrei. Eliminando gli ebrei, compiamo
una giustizia retroattiva. In Céline c'è un punto in
cui il grande scrittore esclama: “Non è forse chiaro a tutti che questa guerra
è colpa degli ebrei?”. Naturalmente non c'è mai un episodio, un fatto, una
situazione in cui si possa individuare una colpa degli ebrei verso la Germania
o la Francia, ma accusare gli ebrei della sconfitta nella prima guerra aveva
molti effetti utili a Hitler, in primo luogo questo: si liberava la coscienza
dei soldati tedeschi dal peso di una disfatta, si scaricava quella disfatta su
un nemico interno, e così i soldati potevano tornare a sentirsi invitti ed invincibili. Da notare che anche storici non-tedeschi
hanno scritto che le condizioni di pace imposte ai tedeschi a conclusione della
Prima Guerra Mondiale erano inique e insopportabili, il popolo tedesco non
poteva in nessun modo reggerle, erano in un certo
senso vendicative. E dunque l'esplosione di Hitler sarebbe stata la vendetta
per una vendetta. Ma io non
sono uno storico, le ragioni per cui andavo a parlare con Levi non erano
storico-politiche, ma morali e sociali.
E' indubbiamente vero che condizioni di
pace imposte di fatto costituirono i prodromi della
seconda guerra mondiale, ma giustamente come dice lei i motivi che l'hanno
indotta a intervistare Primo Levi non sono di carattere storico o politico,
bensì morali, forse ancor più che sociali. E quindi è opportuno rientrare nel
tema principale, che presenta spunti di notevole interesse, come quando Levi
fornisce una spiegazione alla sua domanda volta a comprendere, come
psicologicamente parlando, si riuscì a condizionare, meglio ancora a circonvenire
un popolo quale quello tedesco. Levi risponde che il mezzo fu la propaganda e
l'arma spettacolosa la comunicazione di massa, la
manipolazione della folla, sperimentata dapprima dai regimi totalitari e poi,
come anche ora, in costanza di una democrazia più di apparenza che di sostanza.
Passo comunque al altro, all'argomento 6, quello del
lager nazista e di quello comunista.
Verso la fine c'è una Sua domanda che
partendo dal fatto che Se questo è un
uomo è considerato oggi un testo esemplare della
cosiddetta “letteratura concentrazionaria” cerca di comprendere i motivi per i
quali gli editori l'hanno rifiutato per diversi anni. E qui fra la risposta di
Levi trovo una stranezza, una non sincerità. Infatti
dice: Se spegne il registratore glielo
dico. E poi il risultato
non è eclatante, bensì si accenna a una disattenzione nella
lettura.
Non ci credo, non posso crederci,
perché lo spegnere il registratore equivale a non
voler ufficializzare un discorso. Ora non so quel che poi Le ha detto Levi e se
Lei possa ora riferirlo, ma comunque, in ogni caso, ha un'idea del perché di
questi ripetuti rifiuti di pubblicazione?
La mia “Conversazione con Primo Levi” ha avuto più edizioni e più
editori, e credo che le ultime edizioni diano una risposta al suo dubbio. Io il
libretto l'avevo pensato per Garzanti, gli avevo proposto una collanina agile,
di volumetti di poche pagine, 100 o meno, di autori o su temi di attualità,
saggi, racconti, confessioni. Lui rifiutò dicendo: “Libri
come coriandoli? Mai”. Allora i primi libretti
di quella collanina, progettata come collana-rivista, li feci
io a casa mia. Li stampavo in una tipografia veneta, le tipografie venete, e
del Nord-Est in generale,
costano molto meno di quelle lombarde. Di ogni volumetto tiravo
5-6 mila copie, e le spedivo alla sede grafica della Garzanti, a Cernusco sul Naviglio. Avevamo un contratto, Garzanti ed
io, lui alla consegna pagava come già venduta la metà della tiratura che
riceveva. Io con quei soldi pagano tutte le spese e ne
avanzavo. Il primo volume andò bene, il secondo pure, gli altri (ne feci 6)
pure, e a quel punto Garzanti decise di fare lui una collanina sulle 100
pagine, di formato snello, e la chiamò proprio “Coriandoli”. La inaugurai io,
con un racconto intitolato “Il canto delle balene”. Ricordo ancora il giorno
che presentammo la collana, in via della Spiga, Franco
Fortini, Piero Camporesi ed io. La “Conversazione con
Primo Levi” però aveva ormai una sua storia, non la trasferimmo nei
“Coriandoli”. Esaurita la mia tiratura, la ripubblicammo in una collanina
intitolata “I libri di”, poi la chiese Guanda ed è ancora in Guanda, ci sarà
una prossima edizione presso le edizioni della Università
di Pisa ma sarà un'edizione su licenza di Guanda. Nelle prime edizioni ho
rispettato il volere di Primo Levi, e quando pronuncia il nome di chi rifiutò
il suo libro per Einaudi e mi chiede di spegnare il registratore, affinché quel
nome non restasse, io quel nome non l'ho messo. Poi
c'era troppa pressione dei lettori e dei giornali, che volevano saperlo, quel
nome. Allora, nelle ultime edizioni, l'ho messo. Il “Corriere della Sera” sul
supplemento culturale, allora diretto da Riccardo Chiaberge,
imbastì una discussione. Il nome è quello di Natalia
Ginzburg, ed è stupefacente che una scrittrice ebrea non abbia sentito la
potenza della denuncia di quel libro di un fratello ebreo, che doveva restare
nei secoli e nel mondo il testimone numero 1 dello Sterminio. La Ginzburg era
ancora viva, quando il “Corriere” aprì la polemica, e intervenne, ma senza dire
niente d'importante: le solite cose, non ero io che decidevo, decideva tutto Cesare Pavese, e così via. Non credo ci sia niente di misterioso sotto:
si tratta del giudizio sbagliato di una consulente inadeguata. Tutto qui. Primo
Levi però non è facile da capire e da valutare. Più tardi, la casa francese
Gallimard ripeté l'errore di rifiutarlo, e questo quando Levi era già noto nel
mondo, proprio alla fine della sua vita. Ci ho sofferto molto, per quel
rifiuto. È una storia complicata.
La Sua risposta è indubbiamente
convincente, perché come sappiamo non è la prima volta
che un consulente editoriale cade in un errore grossolano (al riguardo basti
pensare alla tormentata vicenda della pubblicazione del “Gattopardo”) e può
darsi che la Ginzburg sia stata anche condizionata dal fatto di essere ebrea,
il che, magari nell'incertezza che dovrebbe avere avuto sulla validità
dell'opera, deve aver pesato non poco, nel timore che un giudizio positivo,
seguito da un insuccesso commerciale, potesse esserle rimproverato per una
scelta che qualcuno in azienda e anche fuori poteva attribuire alla comune
appartenenza. In fondo stupisce di più il rifiuto della Gallimard, poiché ormai
Levi non era certo uno sconosciuto. È a conoscenza dei motivi per cui l'editore
francese decise di non pubblicare l'opera?
Era un mio ripetuto consiglio al direttore editoriale della
Gallimard, di pubblicare “I sommersi e i salvati”. Il direttore era Hector Bianciotti, nato in Argentina, da genitori italiani,
piemontesi, poi fuggito dall'Argentina e vissuto in Francia, a Parigi. Un
grande scrittore, un suo libro autobiografico è tradotto in italiano da
Feltrinelli. Persona mite, affabile, gentile, con un senso
squisito per i libri. Fu nominato membro de l'Académie
Française, la cosiddetta Accademia degli Immortali,
un posto a cui teneva molto, perché gli assicurava una
rendita mensile. Per la cerimonia d'insediamento lui doveva presentarsi vestito
come un cavaliere del Settecento, calzoni aderenti corti al ginocchio e giaccia
attillata color verde, bordata in oro, con al fianco
uno spadino. I suoi invitati dovevano indossare lo smoking. M'invitò, ma io non
avevo uno smoking. Mi scusai e non ci andai. Col senno del poi, e visto che lui è morto prestino, non solo me ne pento, ma
anche me ne vergogno. Mi giustifico attribuendo la causa alla mia cronica
mancanza di denaro. Ma questo avvenne dopo. Torniamo a
Levi.
Levi non era tradotto in Francia, e questo mi sembrava assurdo. Io
avevo tutte le opere tradotte da Gallimard e avevo un rapporto col suo
direttore Bianciotti.
Insistevo perché traducesse “I sommersi e i salvati”, gli mandavo
lettere. Lui mi chiamava al telefono e mi rispondeva: “Ferdinandò,
non ci piace”. Io rispondevo: non vi piace? Ma come lo
leggete? seduti? Non dovete leggerlo restando seduti, dovete cadere in ginocchio. Era una lotta lunga, era ancora
in corso quando concludevo con Levi la conversazione
contenuta in questo libretto. Per aiutare “I sommersi e i salvati” sono andato a Torino, a incontrarlo di nuovo, era una domenica, e
insieme con lui scegliemmo una decina di pagine da pubblicare subito su
“Panorama”. Lui preferì le ultime, quelle che terminano con l'affermazione:
“C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. Esce l'intervista su “Panorama”, e
chiamo “Libération” per chiedere spazio, un paio di
pagine nelle quali spiegare ai francesi perché devono leggere Levi. “Libération” accetta. Mando il mio pezzo, piuttosto lungo.
Levi muore di sabato. “Libération” mi chiama alla domenica, mi legge tutta la traduzione del pezzo, lo
approvo parola per parola, il pezzo esce. Il martedì mi arriva una lettera di
Primo Levi. Levi era morto al ritorno dalla solita passeggiatina di fine
settimana, e io mi dico: ”Se mi arriva oggi, martedì,
questa lettera l'ha imbucata sabato, a metà passeggiata, adesso mi spiega
perché ha deciso di uccidersi”. Apro la lettera. È una lettera vitale, piena di
progetti, “mi mandi l'articolo di Libération quando
esce, mi sappia dire se Gallimard vuol qualche altra copia dei miei libri”, non è affatto la lettera di uno che dieci minuti dopo si
suicida. Perciò io sono fra coloro (siamo tre o quattro) che non credono al
suicidio. Non ho le prove del voler-morire, mentre ho le prove
del voler-vivere. Due giorni dopo mi chiama Bianciotti:
“Ferdinandò, l'editore Albin
Michel vuol prendere “I sommersi e i salvati”, ti preghiamo di dire alla
vedova, signora Lucia, che anche noi vogliamo prendere “I sommersi e i salvati””. Due settimane dopo altra telefonata: “Albin Michel vuol prendere due libri di Levi, di' alla
signora Lucia che anche noi prendiamo quelle due opere”. Un mese dopo mi trovo
a Brescia, alla libreria Ulisse (che adesso non c'è più, era una libreria
raffinata, diretta da un libraio che era anche uno scrittore squisito, Umberto
Stefani), sto presentando il mio libro “La donna dei fili”, squilla il
telefono: era ancora Bianciotti che mi cercava
trafelato per darmi questo incarico: “Albin Michel vuol prendere quattro libri, ti preghiamo di
trasmettere alla signora Lucia, e alla casa Einaudi, questo messaggio: la
Gallimard è disposta a prendere tutti i
libri di Levi che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di
nessun altro”. Non è finita. Un mese
dopo, altra telefonata di Bianciotti: “Ferdinandò, Albin Michel vuol
portarci in processo, perché dice: voi lo avete rifiutato e
io l'ho preso, perché adesso mi ostacolate? Ritiratevi”, se tu Ferdinandò ci mandi quella lettera di Levi, nella quale lui
esprime il desiderio di essere pubblicato da Gallimard, ci aiuti”. Mando una
fotocopia della lettera, e la questione si chiude, Primo Levi esce da
Gallimard. C'è un piccolo strascico: quando esce in Francia “I sommersi e i
salvati”, l'Istituto Italiano di Cultura organizza una giornata di
presentazione, lei conosce la sede dell'Istituto, è in Rue de Varenne 50, pubblica
anche una rivista che si chiama col nome della via e numero del civico, è una
sede magnifica, ampia e sontuosa, le stanze sono piene, tutta la Parigi colta
aspetta, io arrivo e un signore che non conosco mi s'accosta
mormorando una cantilena: “Monsieur Camon, io non la benedico, io non la
benedico”, il Direttore dell'Istituto accorre e mi trascina via, io gli chiedo:
“Chi è questo signore? E perché non mi benedice?”, “Non ci
badi – fa il Direttore -, è il traduttore che Albin
Michel aveva già assunto, gli dispiace molto di non tradurre Levi, e pensa che
la colpa sia di Camon”. Ecco, le cose andarono così. La mia conclusione
è questa: “Levi è troppo”, al primo impatto (Natalia Ginzburg, Hector Bianciotti…) ispira un rifiuto che è un gesto di
autodifesa, un istinto di sopravvivenza. Levi non commuove il lettore, non lo
turba: lo tramortisce.
E' una vicenda quasi da vaudeville e
non a caso il teatro è la Francia; dispiace molto che Levi non ne abbia visto la conclusione e che la morte l'abbia colto anzitempo.
Al riguardo, potrebbe essere stato un incidente, un malore improvviso, o anche
un subitaneo sconforto; di certo non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa,
perché la morte è uno di quegli eventi che prima o poi
accade a tutti, quella morte a cui era sfuggito quasi miracolosamente ad
Auschwitz; mi sembra che questa “fortuna” (ma il termine è probabilmente
improprio) gli sia tuttavia pesata, un po' come per il protagonista di Diceria dell'untore. Poi, come emerge
dall'intervista, qualcuno addirittura ha voluto vedere un disegno superiore in
questa sua salvezza, circostanza che ha indignato Levi perché, come dice lui
stesso, sembrerebbe che Dio avesse concesso dei privilegi, salvando qualcuno e
condannando qualcun altro. Con questo arriviamo alle ultime righe della
conversazione, al punto in cui Lei domanda: “Cioè Auschwitz è la prova della non esistenza di
Dio?” e Levi risponde: “ C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.” (Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una
soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).
Credo che queste ultime righe, oltre a concludere una conversazione di estremo interesse, siano
molto emblematiche; personalmente vedo un Levi certamente non ateo, e tantomeno
agnostico, però è un uomo che cerca di capire, ricorre alla razionalità per
cercare il trascendente, in un percorso senza sbocco. E allora arrivo alla
domanda: secondo Lei, Levi credeva in un'Entità superiore, o comunque era alla
continua ricerca di una risposta al perché della morte e soprattutto al perché
della vita?
È lui stesso che risponde, nella conversazione. Dice che aveva ben
ricevuto un'educazione religiosa, ma che Auschwitz l'ha spazzata via. La sua
conclusione è: “C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. La mia impressione
è stata allora, e torna ad essere ogni volta che
rileggo questo passo, che Levi volesse proprio introdurre nel pensiero
filosofico una prova della non-esistenza di Dio, da contrapporre ai sistemi dei
filosofi che sostengono l'esistenza, per esempio Sant'Anselmo d'Aosta. “Dio c'è
per questa e questa ragione”, dicono questi filosofi. “Dio non c'è, perché c'è
Auschwitz” obietta Levi. Per me, la conversazione si chiudeva lì. Quando
gliel'ho mandata, per un'ultima approvazione, mi
aspettavo che lui correggesse qualche parola, ma non un concetto così
essenziale, così fondamentale. Ci ho ragionato molto. Dopo le prime edizioni, a
partire dalla traduzione francese, ho aggiunto una prefazione con cui
chiarisco ciò che per me significa quell'aggiunta: Levi aveva espresso una negazione
assoluta dell'esistenza di Dio, ma se ne pente e riapre la questione: afferma
che Dio non c'è, dunque il problema è chiuso, questa è la soluzione, ma subito
corregge che “non trova una soluzione”, dunque il problema resta aperto,
chiarisce che il non-trovarla non mette fine alla ricerca, infatti aggiunge
ancora “la cerco ma non la trovo”: il messaggio finale è quello di una continua
ricerca continuamente esposta allo scacco. La conclusione “c'è” o “non c'è”
sarebbe comunque pacificante, la conclusione “non trovo ma cerco” resta aperta
a un'angoscia che non ha fine.
Secondo me questa continua ricerca
dimostra che in fondo Levi credeva che esistesse qualche cosa; la sua non era
una negazione assoluta, anzi partiva da una deduzione
personale quando diceva: “Dio non c'è, perché c'è Auschwitz.” In fondo in lui era inconcepibile che Dio
avesse consentito l'olocausto e se fosse stato ateo il problema
non si sarebbe posto, anzi il fatto stesso della Shoah sarebbe stato un
rafforzamento della sua convinzione. Comprendo che per lui questa ricerca sia
stata un problema angosciante, ma solo perché ha voluto fare di una deduzione
un ragionamento logico e senza dimenticare che l'essenza stessa di chi crede è
il persistere del dubbio.
Siamo alla fine di questa conversazione,
che per fortuna non ci ha impegnato per tutto il tempo che ha caratterizzato la
Sua con Primo Levi e credo che questo sia il momento di tirare delle somme, di
azzardare dei giudizi.
So che non è facile e so pure che parlare di quest'uomo Le riesce difficoltoso, ma
è proprio per questo che la domanda che segue ha il suo senso.
Che cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per Lei Primo Levi?
Il rapporto tra me e Primo Levi è il
rapporto tra uno scrittore “minore” e uno non soltanto “maggiore”, ma
“massimo”. Levi era come dev'essere uno scrittore, e
come, nel mio piccolo, tento di essere io: uno scrittore “separato”, che si
presenta al mondo con i libri, non in tv, non nei giornali, non nei premi.
Perciò era uno scrittore dimenticato. Si stampavano storie della letteratura,
in cui Levi non c'era. Ricordo che il manuale di storia letteraria più diffuso
allora nei licei e nelle università, cioè quello di Natalino Sapegno, era giunto alla 43esima ristampa, e a Primo Levi
non dedicava neanche una riga. Ne ho parlato col direttore del supplemento
letterario della “Stampa”, che allora era Luciano Genta,
e lui mi ha consigliato: “Scrivi un ‘Parliamone'”. Il
“Parliamone” era una rubrica-jolly, firmata ora da un collaboratore ora da un
altro, in cui si esponeva un problema letterario-culturale-editoriale
del momento. Scrivo il “Parliamone”. La mia domanda era: “Si può ristampare 43 volte una storia letteraria, e dimenticare sempre Primo
Levi?”. Alla 44esima edizione, Natalino Sapegno
include Primo Levi con queste parole: “È forse il più grande scrittore italiano
del secolo”. Allora la mia domanda diventa: può una storia letteraria italiana
dimenticare per 43 edizioni il più grande scrittore
del secolo? Da che cosa nasceva questa dimenticanza? Dal fatto che Levi viveva
rintanato, non andava a convegni, non partecipava a dibattiti, non si faceva
notare in nessun modo; se pubblicava un libro, l'editore mandava le copie alla
stampa, ma non sollecitava nessuna risposta. Si comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce. Sono
convinto che fargli avere il Nobel sarebbe stato possibile e facile. Questa mia
“Conversazione”, della quale stiamo parlando qui, è uscita in Svezia, sono
andato a presentarla a Stoccolma, all'Istituto Italiano di Cultura e
all'Università: c'erano molti ascoltatori, studenti, docenti, giornalisti,
scrittori (a Stoccolma, se vien presentato
all'Istituto di Cultura Italiano un autore, gli intellettuali svedesi accorrono
perché sanno che lì si trova il vino italiano; non è che nei negozi e nei
ristoranti il vino italiano sia introvabile, ma è carissimo, perché è gravato
da una pesante tassa che non va al Fisco ma alla Casa Reale), c'erano anche
membri dell'Accademia di Svezia, votanti al Nobel, e parlando con loro ho avuto
la netta sensazione che, se Levi fosse stato presentato al Nobel,
gliel'avrebbero dato. Ma questa è un'operazione
strana, che non dipende per niente dal Ministero della Cultura o
dell'Istruzione, ma solo dal Ministero degli Esteri. I nostri Istituti
Culturali all'estero sono gestiti dalla Farnesina. Anche questa è un'assurdità.
Ma parliamoci francamente: cosa aggiungerebbe il
Nobel, a Primo Levi? Nulla.
Grazie, caro Camon, per la bella
conversazione, dalla quale esce un quadro ancor più completo della straordinaria
personalità di Primo Levi.
Conversazione con Primo Levi
di Ferdinando Camon
Presentazione dell'autore
Disegno e grafica di
copertina di Guido Scarabattolo
Guanda Editore
www.guanda.it
Collana Quaderni della Fenice
Pagg. 75
ISBN 9788882469290
Prezzo € 10,00