La nomade
di
Adriana
Pedicini
La prima casa da nomade della vita di
Josephine non era propriamente una casa situata come tutte le altre in un
paesino, né piccolo, né grande che si snodava sulle rive opposte di un
fiumiciattolo che venendo giù a rivoli e torrenti s'ingrossava via via,
inabissandosi alla fine in un alveo sempre più ampio e profondo per poi lambire
con acque giallastre altri paesi. Un ponte di granito bianco collegava i due
lati del paese, un ponte stretto e lungo sotto il quale il fiume quasi
descriveva un'insenatura dove l'acqua, ritirandosi nell'alveo, lasciava
scoperta una riva di sabbia finissima mista a ciottoli levigati dalla corrente
impetuosa delle inondazioni invernali. Sul greto, a ridosso del massiccio muro
che delimitava ad un livello più alto la strada, come barche capovolte in
secca, erano poggiate tende di ogni genere e colore in cui erano accampate
alcune famiglie di tzigani, da tutti denominati zingari, con un senso piuttosto
dispregiativo da parte dei gagi a causa del loro vagabondare, senso che è poi è
rimasto al termine come appellativo di biasimo in senso lato.
Essi periodicamente tornavano
al paese, in concomitanza con la festa patronale, dopo aver girovagato e
sostato di tanto in tanto in diversi altri posti. Vivevano di un proprio
lavoro, anche se era dura a morire la convinzione che di notte andassero
rubando nelle case. Gli uomini battevano pentole e bacili di rame, le donne si
recavano di casa in casa a proporre piccoli oggetti di artigianato, lunghi aghi
per materassi o ferri affusolati da maglia in cambio di un bicchiere d'olio o
un pezzo di pane, o leggevano la mano a qualche passante. Talvolta al mattino
c'era chi si lamentava di non trovare più le sue masserizie e puntualmente, a
ragione o a torto, s'incolpavano gli zingari. Essi erano per lo più omoni di
grande statura, scuri di pelle, capelli lunghi neri. Vestivano con pantaloni di
pelle nera e giubboni di cuoio borchiati. Le donne indossavano variopinte gonne
lunghe fino alle caviglie snelle e sottili che sembravano nate apposta per
danzare balli vertiginosi. I bambini per lo più scalzi come le loro mamme,
capelli lunghi e lisci e sempre moccoli al naso. Ma nei loro occhi neri come
carboni guizzavano pagliuzze dorate che sprigionavano una grande voglia di
vivere che si beffava dei loro vestitini sdruciti e maleodoranti. I più grandi
possedevano per natura una bellezza selvaggia, quasi tutta concentrata nei
tratti nervosi e asciutti del corpo. Guadavano nudi le acque del fiume mille
volte tuffandosi e altrettante volte emergendo come agili delfini e si
rincorrevano sulla riva sollevando nugoli opalescenti di sabbia. Godevano di
granelli di libertà, così scontata apparentemente a quell'età, in un mondo che
comunque li emarginava, anche se non li perseguitava, sorte quest'ultima che
era toccata per un motivo ai loro nonni e bisnonni, e sarebbe toccato per altri
motivi in tempi successivi ai loro figli e nipoti. Infatti
non erano essi ammessi a scuola, apprendevano direttamente dalla vita quello
che bisognava sapere, niente amici, se non la loro stessa amicizia. Ma
dopotutto erano fortunati. Senza chiesa avevano un credo, senza casa avevano un
proprio centro d'affetti. Ed alcuni avevano di sé anche una memoria storica
legata, come il più anziano raccontava, al fatto che erano tutti discendenti
degli zingari che intorno all'anno 1000 erano stati inviati dal Re dell'India
al Re di Persia, che soffriva di male oscuro, per farlo felice con la loro
musica e le loro danze. Ma non sempre volentieri gli zingari parlavano delle loro
origini, forse per crearsi un certo alone di mistero o semplicemente perché non
ricordavano abbastanza.
E si prendevano cura come
potevano anche di un loro congiunto malato, Pellegrino, grosso ragazzone di
quarant'anni, testa pelata, sempre la stessa giacca ormai troppo lisa,
pantaloni larghi e corti in maniera sbilenca sulle caviglie. Era quasi sempre
solo; già lo era di se stesso, senza alcuna voce che dall'animo gli tenesse
compagnia e lo facesse piangere di dolore o di gioia. L' anziana
del gruppo lo accudiva come si può accudire un maiale o una pecora. La sua
unica passione erano le biglie di ferro, con cui giocava tutto il giorno. Le
lanciava in alto, lasciandosele poi cadere in mano, le faceva scivolare lungo
le ginocchia congiunte, le spingeva l'una contro l'altra con la punta delle
dita. Le raggruppava casualmente o chissà secondo quali suoi
ignoti disegni. Ne aveva di grandi, piccole e qualcuna grandissima quanto una
noce. Non era cattivo, era solo gelosissimo delle sue biglie. Talvolta, se ne perdeva
una quando si recava nella piazza del paese, piangeva a dirotto singhiozzando
fino a inveire contro questo o quello. Era allora che
interveniva il maresciallo minacciandolo di “chiuderlo”, e allora Pellegrino se
la dava a gambe, barcollando goffamente, fino a ritornare sul greto del fiume
dando un gran balzo dal muro dalla parte più bassa. E riprendeva a piangere
finché non le buscava con un nerbo di bue sulle spalle.
L' unica a mostrare un represso disagio in
tale situazione era proprio Josephine. Il fatto che fosse di modi più educati e
che la sua pelle fosse più chiara, i capelli nerissimi
e alquanto crespi e inoltre il fatto che trasparisse una paurosa docilità dallo
sguardo malinconico probabilmente stavano ad indicare un qualche segreto nella
sua condizione di vita che se da una parte potevano suggerire il sospetto di
percorsi inaspettati e fortuiti che l'avevano spinta, suo malgrado, in quella
situazione, dall'altra esprimevano un rifiuto totale del suo genere di vita o
la denuncia silenziosa di qualche tremendo aspetto della sua sorte. Oppure la sua era solo la denuncia contro una società sorda ai
diritti di una popolazione nomade non solo per tradizione ma anche per il
bisogno di procurarsi i mezzi per vivere.
I suoi pensieri furono interrotti da urla provenienti dalla strada. Riconobbe
le grida di Pellegrino. Poggiò su di una pietra levigata i panni che stava
lavando nell'acqua del fiume con le ginocchia poggiate a terra e risalì la
stradina che tra rovi e cespugli menava sul muretto. Di là scorse dei ragazzacci che
stavano tirando sassi contro il grande omone che urlava, disperato, volgendo lo
sguardo intorno in cerca di aiuto. Appena la videro
"Sei una zingara!" le urlaroro. E rivolgendosi a Pellegrino:
"Sei matto..".."Mattooooooo!
" lo canzonarono.
Josephine, mezza impaurita
anche lei, finse di non averli visti e corse verso Pellegrino che, steso a
terra, si nascondeva la testa tra le braccia, mugolando come una bestia ferita
con gli occhi serrati. Lo tirò a sé nel vano tentativo di trascinarselo dietro.
"Vieni... vieni..." disse, tendendogli
la mano con tutte le forze per aiutarlo ad alzarsi. Ma il ragazzo era diventato
immobile e pesante come una statua di marmo. Si vide disperata, anche perché
uno di quei ragazzi brandendo un bastone di legno tratto da un ramo rinsecchito
stava per scavalcare minacciosamente il muretto. Con tutta l'aria che aveva nei
polmoni allora emise un fischio conficcando i due indici tra le labbra. Rispose
un sibilo acuto come uno schiocco di frusta attraverso l'aria infuocata dal
sole. I ragazzi scapparono e lei, ormai tranquilla, con una dolcezza materna
sussurrò a Pellegrino:
“Vuoi vedere che bella biglia ho? Tutta colorata,...
l'ho trovata lungo il fiume, ieri... Vieni e te la darò...".
Lui alzò gli occhi, buoni e
mansueti, la
guardò e le sorrise. Si alzò e la seguì. Entrarono nella capanna. Furono
avvolti dal buio in cui l'ambiente era immerso, non avendo fessure per il
passaggio della luce.
Pellegrino, lo sguardo
inebetito, si guardò intorno, fermandosi dopo aver mosso un paio di passi con i
suoi piedi scalzi, sporchi di polvere, gonfi di dolore non già per l'abitudine
di non calzare scarpe, quanto per quello della sua solitudine, per il dolore
dell'incomprensione da parte degli altri, per il suo essere zingaro. Ma non ne
era cosciente, soffriva e basta. Il suo scarno mondo interiore era il suo unico
punto di riferimento. Di altro non capiva niente.
Josephine lo prese per mano: "Vieni... entra... non aver paura...
qui sei al sicuro... Vuoi un po' di acqua?"
Non rispose e Josephine si
chiese se mai avesse compreso. Gli lasciò la mano, prese la sedia, con un gesto
lo invitò a sedersi. Gli deterse il sudore che
grondava dalle gote lanuginose con una pezzuola inumidita, gli spolverò i
poveri abiti mentre lui fissava l'uscio nel timore di veder arrivare i furfanti
di prima. Poi, afferrò i capelli della ragazza, e reclinando la testa da un
lato, senza parlare le ricordò della biglia.
Allora ella prese la sfera di
vetro colorato che aveva trovato il giorno prima, gliela mostrò e notò un
ghigno sulla bocca dell'omone. Ma non era un ghigno cattivo. Era il suo modo di
esprimere la gioia per aver soddisfatto quella che era ormai la sua ossessione,
ma anche il motivo della sua greve felicità in una vita priva di senso.
"Prendila... è tua..." gli disse senza avvicinarsi, sperando
che lo facesse lui. Pellegrino guardò la biglia, tornò a riguardare l'uscio,
alla fine sorrise. Josephine sentì il cuore gonfio di gioia, gli occhi
inumiditi e capì di averlo rassicurato.
Gli diede la biglia e, come un
giocattolo prezioso o solo desiderato, l'uomo la strinse, poi allargò le dita,
la guardò e incominciò a ridere di un riso che somigliava più al verso di un
animale che a quello di un uomo. Josephine lo guardò, incuriosita dal suo
atteggiamento, cercando di capire che cosa potesse pensare. Sedette sullo
sgabello, i gomiti poggiati sulle cosce, le mani a sorreggere e ad incorniciare
il volto diafano. Le vennero in mente i versi che aveva scritto una volta sulla
sabbia umida quando sognava
una bellissima storia d'amore con il fratello di Luana.
“Desiderio di voli infiniti mi prende per afferrare nel cielo le
ali della tua anima”.
Si chiedeva se il velo sottile
e pesante della solitudine un giorno o l'altro le sarebbe scivolato di dosso o
era destinata a rimanerne avvolta per sempre per sostenere anche quella degli
altri.
Nel frattempo Pellegrino
continuava a girare e rigirare tra le mani grandi e scure la sua nuova biglia,
a rimirarla con occhi incantati ma assenti, astratti dalla realtà, finché,
piegando in avanti il
capo, il mento quasi a toccare il petto, si addormentò. La biglia gli cadde,
rotolando a terra.
Quel giorno Pellegrino era più inquieto del solito. Sarà stata quell' aria tiepida di una primavera che conservava ancora i
tratti di un inverno non particolarmente gelido; saranno stati gli anni
accumulati sulle spalle o le occasioni perdute ancora prima di vederle, sarà
stato il presentimento dell'arrivo di qualcosa di inatteso oppure quel
malessere che cova senza motivo quando ci si sveglia con un senso di nulla
intorno, o forse tutto questo, ma lui sentiva che qualcosa stava per succedere;
e infatti qualcosa di molto strano in effetti accadde: mentre era intento a
lanciare una biglia in cielo, si accorse che quella non tornava più giù.
"La aspetterò sino a quando si deciderà a scendere", sospirò
con un fatalismo che solo uno come lui poteva capire
mentre con lo sguardo smarrito, a rischio di perdere la vista, guardava in alto
verso il sole, oltre le nuvole, cercando di capire dove diavolo si fosse
cacciata la sua biglia.
L'orchestrina dei gitani,
perennemente ubriachi, intonava intanto vecchie canzoni stonando con
fisarmoniche sgangherate, altri emettevano col fiato
avvinazzato note gracchianti come quelle di un vecchio grammofono e
Josephine saltellava a quello strano ritmo che tanti anni fa aveva cantato una
sua lontana parente, sfregando i passi sulla terra.
Gira e rigira, Josephine si
avvicinò, danzando i suoi passi, a Pellegrino che, intento com'era a scrutare
il cielo in attesa del ritorno della biglia, non si curò minimamente di lei. La
giovane non gli badò, ed anticipò il suo mutismo con queste parole:
“Perché continui a guardare il cielo?
ma dovresti riflettere di più sul nome che porti”,
e se ne andò. Pellegrino, intanto, al
suono di parole di cui, data la concentrazione ad altri affari, non percepiva
se non i significanti, si scosse e si mise a piangere.
In alto improvvisamente le
nuvole si accavallarono gonfie di pioggia, un tuono lontano fece scappare via
tutti.
Non c'era più il cielo, non
c'era più Josephine,e soprattutto non c'era più la
biglia, cosa che lo turbava oltremodo. E soprattutto non c'era nemmeno più lui:
lui non riusciva a vedere alcunché,
come era avvenuto un attimo prima mentre guardava verso il sole.
“Se uno non riesce a vedere una cosa” -pensò- allora vuol dire che non esiste, e se non esiste è bene che la vada a
cercare da un'altra parte: magari in qualche posto dovrà pur essere”.
Così rifletteva Pellegrino,
dopo essersi svegliato, reduce da un sogno così vero che ora non credeva più
alla realtà che lo circondava.
Decise così di mettersi in
viaggio. Senza dire nulla a nessuno se ne andò.
Pellegrino era sparito. Josephine era turbata, temeva per la sorte del povero ragazzotto,
che sentiva fratello di sventura. Sapeva però che ciò non avrebbe comportato
all'intera comunità alcun problema poiché il distacco di chicchessia, in
qualunque modo avvenisse, non comportava nessun tipo
di emozione. Del resto era loro tradizione che, se un figlio era intenzionato a
sposarsi e quindi a costruire un nucleo familiare, per lui, con la sua nuova
famiglia, non ci fosse posto e quindi dovesse andar via. Perciò Pellegrino per
questo ed altri motivi non aveva lasciato nessuna scia di rimpianto e sembrava
davvero inghiottito dal nulla. Ma lei no, era turbata e dispiaciuta.
Si mise a camminare verso la sera che avanzava immersa nelle riflessioni
silenziose di una mente intenta a pensare, riflettere, meditare, con un vento
impetuoso che soffiava da nord e le trafiggeva il volto con pungenti sferzate.
Ma l'aria sottile
e delicata che portava le purificava l'anima......e la faceva sentire in
volo.....
E così ci provava a volare con
la mente in quel cielo che si tingeva sempre più di lingue violacee e nuvole
gravide di pioggia.
Trafelata correva sui prati
aridi punteggiati di crochi, timido segnale di primavera, e pur nel silenzio si
sentiva gli orecchi rimbombare di quel nulla in cui non scorgeva la sagoma
della persona così pietosamente amata.
Quella notte Josephine non riuscì a chiudere occhio, anche per lo strepito
degli uomini che, come ogni notte, tra bevute e suoni di fisarmoniche e
violini spandevano nell'aria parole gracchianti e risate scomposte.
Voltandosi e rivoltandosi sulla scalcagnata brandina pensava a Pellegrino, al
suo dannato fratello e a Luana, andata sposa adolescente a un circense.
Quanto diversi eppure come
simili erano i loro destini. Vite minori, senza libertà, senza possibilità di
progettare il futuro, ma sempre in balia del caso o dell'altrui volontà.
Appunto come la sua.
Un padre incline al bere, che
comunicava solo a suon di percosse, una madre assente per tre quarti del giorno
per lavori che non aveva mai capito bene e un fratello sbandato forse,
bisognoso di affetto certamente, che aveva concluso la sua breve esistenza
annegando tra i gorghi del fiume in una afosa giornata
estiva.
Ricordava ancora con stupore
sofferto quando al mattino la madre rincasava e se ne andava a letto a dormire
senza darle neppure un bacio e lei, piccola e sola, doveva sbrigare ogni cosa
in casa, compreso preparare qualcosa da mangiare.
Non era zingara di nascita, ma
abbandonata a se stessa e, pur con una gran voglia di imparare, non frequentava
una scuola e se ne stava per tutto il tempo in istrada
e spesso percorreva lunghi tratti alla ricerca di grandi manifesti davanti a
cui si fermava estasiata seguendo sulle immagini chissà quali voli di fantasia.
Trovava un po' più di calore
nei periodi in cui, nelle vicinanze della sua casa, si accampava una strana
famiglia di giostrai che era solita tornare ogni anno all'inizio dell'estate.
“Siete
di passaggio o rimarrete per sempre qui” chiese a Luana con manifesta
speranza.
“Non possiamo sostare qui per sempre, dobbiamo seguire il calendario
delle feste e recarci lì dove ci chiamano o siamo accolti. Viviamo
di questo, del divertimento della gente”.
“Posso stare un po' con te”, chiese timorosa.
“Certo, aiutami, devo
ripulire le giostre. Questa
sera è festa. Ci sarà folla, incominceremo a lavorare presto. Tutto deve essere messo a posto a puntino.”
Felicissima Josephine si diede a dar di gomito e quando le pulizie furono
terminate se ne tornò a casa saltellando di gioia: aveva ricevuto come
ricompensa da Luana la foto del fratello.
Un ragazzo bello come il sole,
snello, di colorito olivastro, occhi neri e fulgidi. La foto lo ritraeva
insieme al nonno, che era stato anche lui giostraio, e a cui rassomigliava
molto: stesso sguardo volitivo, stessi occhi penetranti. Se ne innamorò subito.
Incominciò a frequentarlo e ben presto si trovò a trascorrere le sere estive
con un gruppo di ragazzi più o meno della sua stessa età che vivevano in dimore
provvisorie, molto al di là della sua casa. Non sapeva bene chi fossero, poco
importava, erano simpatici e soprattutto allegri. Non s'avvide che tra essi
c'erano anche giovani zingari, Non sapeva che stessero lì, nel paese, né da
quanto tempo, né per quanto ancora. Le piaceva quella compagnia, si divertiva e
rideva come non le era capitato mai durante la sua vita.
“Quanto vorrei essere come loro, quanto vorrei andarmene a vivere con
loro” si ripeteva spesso. Alcune volte s'inoltrò fino ai loro accampamenti
e rimase a dir poco sbalordita dall'allegria che vi regnava, dal fatto che
vivessero tutti insieme, che i bambini per
addormentarsi passavano da queste a quelle braccia facilmente, senza pianti o
strepiti. Mangiavano insieme, bivaccavano insieme la sera intorno a grandi falò
cantando incomprensibili canzoni e danzando freneticamente.
Sempre più spesso insieme a
Luana incominciò a frequentare quei luoghi e andava concretizzandosi in lei la
volontà di scappare dalla sua casa. Fu proprio dopo le ennesime percosse
ricevute dal padre che rincasando, ubriaco come al solito, a sera tarda non
l'aveva trovata in casa, che si decise a chiedere per così dire asilo presso
una famiglia di zingari che tanto l'aveva affascinata. Sfuggire ad un padre
violento era il massimo della buona sorte per lei né provava nostalgia della madre. L'indomani
mattina all'alba ci fu la festa di accoglienza con danze delle donne al suono
dei violini degli uomini.
Le note si diffondevano ancora
nell'aria brumosa mentre poco a poco la luce diafana s'addensava nei caldi toni
del rosso aurorale per poi esplodere in raggi dorati.
Lei al centro, Josephine, che
fin ad allora aveva avuto per nome Marta, ricevette
insieme alle vesti lunghe a fiorame anche il nuovo nome, Josephine appunto, il
nome che era appartenuto a una delle anziane morta in Francia, da cui gli
zingari erano dovuti scappare a causa delle superstizioni che circolavano nei
loro confronti, preferendo percorrere nel loro girovagare i paesi costieri del
Mediterraneo. Con un groppo alla gola la giovane in veloce carrellata di
memoria ripensò ai volti dei suoi familiari, non tanto a quelli dei suoi genitori,
quanto a quello del vecchio nonno, e si rivide bambina condotta per mano al bar
del porticciolo fluviale dove erano all'ancora le modeste
imbarcazioni dei pescatori.
Ma soprattutto ricordava gli
occhi del nonno riempirsi di luce quando trotterellava sulle sue ginocchia,
accarezzandogli la lunga barba brizzolata.
Ma ormai era lì, pronta per
una nuova vita. Quella stessa notte infatti fu deciso
anche lo sposo per lei.
Non ne fu entusiasta avendo
ancora negli occhi la bella figura del fratello di Luana. Ma il timore di dover
affrontare nozze frettolose nonché non desiderate fu fugato immediatamente
dalla notizia che il promesso sposo sarebbe arrivato dalla Francia non prima di
un anno. In realtà non si fece vedere per nulla neanche dopo.
Sicché i giorni passarono tranquillamente, e l'entusiasmo non venne mai meno.
Fino a tal punto era felice di quella nuova vita. Soprattutto aveva vissuto con
piacere i mesi trascorsi in Spagna e spesso con i piedi nell'acqua, in riva al
mare, si lasciava cullare dai ricordi del nonno, ancora una volta mentre
l'accompagnava al bar del porto. E intanto il celeste del cielo le illuminava
l'anima prima che attingesse il riverbero azzurro profondo delle ampie onde
marine.
Col tempo le malattie degli
anziani, la lontananza di quelli che andavano via per spostarsi con le loro
nuove famiglie in altri posti, finirono col gettarla in preda a un nuovo tipo
di solitudine.
Ma sapeva che Pellegrino se
l'era passata peggio di lei, non era mai stato di grande aiuto per la comunità,
a stento aveva ricevuto il minimo di considerazione e di affetto.
Forse per questo era andato
via e chissà dove.
E nella sua mente la consumava come un tarlo il pensiero di lui mentre prendeva
sempre più forma il timore misto a speranza che prima o poi sarebbe toccato
anche a lei fuggire di lì. Ma presto, prima che arrivasse lo sposo ormai da
lungo tempo promesso.
L'aria fresca del mattino già
spariva sotto l'avanzare della giornata ormai estiva. Un continuo sciabordare
dell'acqua del fiume a ondate spezzava il fragile sonno. Decise di alzarsi e di
recarsi in giro per racimolare qualcosa da mangiare in cambio di aghi
affusolati già richiesti dalle donne del paese per traforare i materassi di
lana.
Mentre se ne andava ogni tanto
le sovveniva di Pellegrino, sebbene non avesse troppe speranze di rivederlo,
essendo passato ormai troppo tempo dalla sua scomparsa. Confidava solo che
qualche anima buona da qualche parte lo sostenesse con un po'di cibo e un
giaciglio.
Bussò alla porta di un casa che dava sulla strada, appollaiata su tre gradini,
dove ricordava che a Pellegrino piaceva sostare mentre lei faceva il suo solito
giro. La padrona di casa aprendo l'uscio gli dava spesso del pane e qualche
frutto per tenerlo buono cosicché non spaventasse i suoi bambini.
La donna seppe solo allora
della scomparsa dell'uomo. Al racconto non poté trattenere delle emozioni
repentine.
Afferrandola per un braccio
espresse a Josephine il sospetto di aver avvistato Pellegrino!
“Ho incontrato Peter....(così pensava si
chiamasse) il lunedì di Pasqua, chiedeva
l'elemosina davanti all'ingresso delle Grazie....”
“Peter, mah! Forse, chissà...-pensò dentro
di sé la ragazza-. Forse era solo un
ennesimo uomo senza nome. Incontri avvenuti sempre nel silenzioso ed egoistico
andare, andare verso…”
Ma, tornando a Peter,
“Posso dire che la cosa che mi ha colpito di più”, farfugliava agitata la donna “sono stati i suoi occhi azzurri e poi il suo
sorriso..., luce di un volto che sembrava appartenere ad
un passato lontano,.....poi la coperta sua compagna di viaggio, e soprattutto i
suoi piedi nudi e gonfi, piedi da pellegrino....e ancora tante, tante biglie
contenute in una scatolina”.
“Mi ha guardato e mi ha teso la mano chiedendomi un'offerta.....mi ha parlato...mi parlava in una lingua che dapprima
non capivo”. Poi ho capito, sebbene mi sembrasse uno straniero.
“Continuava a ripetermi sorridendo.....
dolcemente: la biglia…la grande biglia è scomparsa nel sole……ma un giorno la
troverò, sì, proprio nel sole …e mai più la perderò…”.
La buona donna ricordava di
averlo rivisto all'uscita dalla Chiesa, sembrava stesse dormendo, il mento
poggiato sul petto...
“Così ho deciso di non svegliarlo...”
Inutile dire che per Josephine
questa notizia fu una cannonata al cuore. Chi era quell'uomo?
“Venne l'autunno e con l'autunno Peter aveva cambiato il colore
dei suoi occhi...... ora erano marrone....”
”Con l'autunno non mi ha chiesto più la carità ma lui era sempre
lì sorridente, e dopo l'autunno ..... l'inverno....il
freddo, i suoi piedi nudi.....”.
”Lui era sempre lì alla Madonna delle
Grazie che mi aspettava....sebbene non volesse più
nulla da me....”
Eppure era sicura che dagli
altri accettasse la carità. Perfino a Natale aveva rifiutato la sua offerta,
ma, alzatosi alla meglio, dopo averle regalato uno sguardo silenzioso si era
incamminato oltre il sagrato.
“Mi ha guardato con uno sguardo diverso
dal solito, una sorta di inchino interiore.
Ho percepito in lui una specie di gratitudine nei miei confronti,
mi sono molto stupita di ciò....e ho provato un po'
d'imbarazzo.....”
Josephine ascoltava allibita:
si trattava davvero di Pellegrino? Possibile che fosse stato in giro tutto quel
tempo, senza che nessuno se ne fosse accorto? e poi
dove trascorreva le sue notti? nessuno lo aveva
riconosciuto? si era forse trasformato nel fisico da
quando aveva preso ad andare ramingo?
Allora era lui quello che tutti dicevano pazzo?
“Da quel giorno Peter non c'è più, è sparito.
Mi ha lasciato però un grande dono: la dolcezza dell'incontro”.
”Andrò a cercarlo, e insieme cercherò anche
io la grande biglia -sospirò Josephine-
per conoscere le risposte che da tempo aspetto.
Incomincerò a percorrere la mia strada, a guardare verso il sole…..
Se non troverò Pellegrino, troverò me
stessa perché è lì che sta scritto con inchiostro indelebile la storia del mio
cammino”.
E in preda a una sorta di
estraniamento si avviò verso il suo domani, credendo di aver incontrato il suo
angelo custode; si fermò poi un attimo a meditare sulle parole della buona
donna con il proposito di fare di quell'incontro la prima tappa di un nuovo
percorso di vita.