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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  L'ora d'itagliano, di Arturo Bernava 06/01/2012
 

L'ora d'itagliano

di

Arturo Bernava

 

                    

Ho mal di testa.

Succede sempre quando fuori piove.

Il mio dottore dice che sono m e t e r e o p a t i c o. Una parola che solo per dirla ci vuole la laurea in medicina.

Comunque sia, metereopatico o no, il mal di testa ce l'ho e me lo tengo. Non ho speranze di farmelo passare. Sia perché fuori il tempo volge al brutto andante, sia perché le ore di lezione sono ancora molte.

Quelli della “Quinta A” hanno preteso un incontro-dibattito dal titolo: “Da D'Annunzio a Tinto Brass: l'evoluzione del piacere”; a volte fare l'insegnante di lettere in un Istituto superiore italiano può essere molto faticoso, a prescindere dalle ore da cinquanta minuti.

Appena uscito dall'aula vengo intercettato da Cesare, il bidello. «Ah professò, allora che m'ha portato i sordi, capirà, cinquecento piotte mica so bruscolini, io c'avrei delle scadenze.»

«Cesare, mi sembrava di averle detto che l'affare non mi interessa,» rispondo poco convinto, ben sapendo che alla fine l'avrà vinta lui, visto la mia scarsa propensione alle decisioni forti.

«A professò e sia bono. Un computer nuovo di zecca che come minimo costa mille testoni, io glielo faccio avere a metà prezzo e lei che fa, me svicola, mi si gioca l'affare? Professò non glielo posso permette, le voio troppo bene,» conclude sorridendo della sua battuta.

Cesare odia tutto il corpo docente quasi quanto odia gli studenti. Per lui siamo solo terra di conquista, un mercato molto ampio dove piazzare una merce variegata e di dubbia provenienza.  Un tuono più forte degli altri distrae per un attimo Cesare, così che riesco ad entrare in aula apparentemente illeso.

Adesso ho un'ora in “Quarta B”. Devo riportare i compiti svolti la settimana scorsa: sommando i voti che i venti componenti della classe hanno ottenuto non si arriva a cento, ma loro sono stoicamente convinti che riusciranno ad essere promossi.

Il mio mal di testa aumenta, di pari passo con il temporale. L'acqua vien giù come da una doccia aperta.

Come detto entro in aula senza aver acquistato nulla, ma la parte più difficile sta nell'oltrepassare la barriera umana; la maggior parte degli alunni, infatti, mi attende sulla porta, come se l'aria nella stanza si fosse rarefatta e concentrata davanti all'uscio. Vanno al loro posto con una lentezza esasperante, formando una processione che mi ricorda una carovana tuareg nel deserto, solo che loro non sono i tuareg, bensì i cammelli: stessa andatura dinoccolata, stesso ruminare, stessi versi gutturali dei simpatici animali, perché indubbiamente lo sono. Simpatici intendo dire.

«Prssò, cià rpurtat i compt.»

La essemmesseite ha colpito non solo la lingua scritta, ma anche quella parlata, per cui sono diventato da “professore” un misero “prssò”.

L'autore della domanda è Luciani ed è interessato al voto del compito perché la madre lo nutre sulla base dei risultati scolastici: voti superiori a cinque si mangia, inferiori si digiuna. Mi si stringe il cuore nel pensare che Luciani (un metro e novanta per centoventi chili) nemmeno oggi mangerà.

Il mio mal di testa aumenta ulteriormente.

Inutile fare tanti preamboli, li informo subito che il compito è andato male. Eppure il titolo del tema sembrava interessante: “Signora musica come si sente? Dica MP3!”.

Gli alunni, appena dettato il titolo, mi avevano guardato come se avessi parlato in russo (in effetti avendo parlato in italiano e non in dialetto per loro il risultato poteva sembrare simile), ma poi si erano messi a lavorare con impegno, facendomi pensare di aver centrato (una volta tanto) un argomento che potesse interessarli. Ma era andata male, così come era andata male quella volta che avevo dato loro un compito sui nuovi linguaggi mediatici. La già citata essemmesseite l'aveva fatta da padrona, e quando avevo segnato in blu un “che” scritto “ke” ed un “non” scritto “nn”, si era sfiorata la rivoluzione francese.

Un alunno alza la mano per fare una domanda: «Prssò, senta, scusa.»

Faccio finta di inorridire. «Mulani, ma da quando mi dai del tu?»

«No prssò, che ne so io… io volevo fare l'astinenza.»

Faccio fatica a capire cosa intenda Mulani con astinenza, ma poi anni e anni di insegnamento mi aiutano nella traduzione. «Mulani, a parte il fatto che si dice assonanza, in questo caso non serve l'astinenza, come dici tu, bastava parlare in italiano usando la i.» Mulani mi guarda come se avessi spiegato la formula della bomba H, poi improvvisamente s'illumina e ricomincia a parlare.

«Prssò. Scusi…» tiro un sospiro di sollievo. «Senti.»

Il mio mal di testa arriva a livelli di guardia e fuori tuoni e fulmini la fanno da padroni.

Mulani, però, continua spietato. «Io le volevo chiedere: ma perché dobbiamo sapere parlare bene in itagggliano…» (dice proprio così, con l'accento sulla “g”) «…se c'è gente che non sa mettere in fila due parole eppure guadagna un sacco di soldi?»

Mi passo una mano sul viso, nella speranza che si muova a compassione. «Fammi un esempio; a chi ti riferisci in particolare?»

Mulani sorride soddisfatto, mi aspettava al varco. «Semplice prssò, Costantino Vitaliano e tutti quelli della scuderia di Lele Mora. Se vieni scoperto da Lele Mora hai svoltato,» mi dice tutto soddisfatto.

La provocazione merita una risposta. «Ho capito Mulani. Ma guarda che un'istruzione ti serve sia a livello personale che professionale. Per intenderci, se non vieni scoperto da Lele Mora come mangi?»

Il viso del ragazzo s'illumina. «Prssò, se non mi dà a mangiare Lele Mora ci penserà… Lele… mosina.»

La risata è collettiva e malgrado tutto rido anch'io.

Riconsegno i compiti cercando di non guardare l'espressione dei loro volti mentre rimirano il voto. Luciani tiene il foglio sul petto senza avere il coraggio di guardarlo, come un giocatore di poker che legge le proprie carte davanti ad un piatto milionario.

Finisco il giro e sento un tonfo in fondo all'aula: è la testa del povero Luciani “caduta” sul banco: il pokerista ha scoperto le sue carte… il piatto piange.

«Sentite ragazzi,» cerco di volgere la cosa il più positivamente possibile, «vorrei che Calmieri leggesse il proprio tema per farvi capire che forse anche per voi c'è ancora speranza.»

Mauro Calmieri non è il più bravo della classe, anzi, ha sempre galleggiato sul quattro tendente al cinque; eppure stavolta ha preso nove e voglio enfatizzare la cosa per tentare di infondere un po' di fiducia in chi vuole migliorarsi.

Calmieri si alza timidamente e viene alla cattedra; con un filo di voce mi informa che non se la sente di leggere il tema e lo capisco, così lo faccio io per lui.

Il tema comincia quasi in sordina, descrivendo gli effetti benefici della musica sul morale delle persone, poi prende una piega triste, ma non tragica, nonostante la tragicità dell'argomento; è incredibile quanto poco noi insegnanti conosciamo i nostri ragazzi: Mauro ha perso la madre l'estate scorsa, ma noi non l'abbiamo saputo.

«Cara musica, io lo so che lei non si sente tanto bene, malgrado le nuove tecnologie riescano a riprodurre un suono quasi perfetto. Eppure alla mia mamma piaceva ascoltarLa con un vecchio giradischi, con il vinile che frusciava come in un film in bianco e nero. Quel fruscio, che riproduceva le canzoni di Baglioni e dei Dire Straits, le ha fatto compagnia sino alla fine, entrando a far parte dei miei ricordi più cari. Alle volte la notte, quando non riesco a dormire, lo sento grattare dolcemente dentro la mia testa e non riesco a capire se è il fruscio del disco o la voce della mia piccola mamma che non ce la faceva più a parlare, eppure volle dirmi sino all'ultimo quanto mi amava. Cara musica, io lo so che Lei è molto impegnata e non si sente tanto bene, ma se ha un attimo, per favore,  faccia un salto in Paradiso e mi saluti la mia mamma.» 

In quel momento suona la campanella, ma nessuno si muove.

Alzo lo sguardo sulla classe: più di un volto è rigato e tutti guardano Mauro Calmieri che a sua volta ha lo sguardo perso nei propri ricordi, nei propri fruscii.

Passano ancora alcuni secondi in un silenzio irreale, poi, all'unisono, esplode un applauso dal profondo dei loro cuori ed io mi unisco a loro.

Fuori ha smesso di piovere.

Il mio mal di testa è passato.

 

(Da EleVateMenti – Tabula Fati, 2010)

 

 
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