L'ora d'itagliano
di
Arturo Bernava
Ho mal di testa.
Succede sempre quando fuori
piove.
Il mio dottore dice che
sono m e t e r e o p a t i c o. Una parola che solo per dirla ci vuole la
laurea in medicina.
Comunque sia, metereopatico
o no, il mal di testa ce l'ho e me lo tengo. Non ho speranze di farmelo
passare. Sia perché fuori il tempo volge al brutto andante, sia perché le ore
di lezione sono ancora molte.
Quelli della “Quinta A”
hanno preteso un incontro-dibattito dal titolo: “Da D'Annunzio a Tinto Brass:
l'evoluzione del piacere”; a volte
fare l'insegnante di lettere in un Istituto superiore italiano può essere molto
faticoso, a prescindere dalle ore da cinquanta minuti.
Appena uscito dall'aula
vengo intercettato da Cesare, il bidello. «Ah professò, allora che m'ha portato
i sordi, capirà, cinquecento piotte mica so bruscolini, io c'avrei delle
scadenze.»
«Cesare, mi sembrava di
averle detto che l'affare non mi
interessa,» rispondo poco convinto, ben sapendo che
alla fine l'avrà vinta lui, visto la mia scarsa propensione alle decisioni
forti.
«A professò
e sia bono. Un computer nuovo di zecca che come minimo costa mille testoni, io
glielo faccio avere a metà prezzo e lei che fa, me
svicola, mi si gioca l'affare? Professò non glielo posso permette, le voio
troppo bene,» conclude sorridendo della sua battuta.
Cesare odia tutto il corpo
docente quasi quanto odia gli studenti. Per lui siamo solo terra di conquista,
un mercato molto ampio dove piazzare una merce variegata e di dubbia
provenienza. Un tuono più forte degli
altri distrae per un attimo Cesare, così che riesco ad entrare in aula apparentemente illeso.
Adesso ho un'ora in “Quarta
B”. Devo riportare i compiti svolti la settimana scorsa: sommando i voti che i
venti componenti della classe hanno ottenuto non si arriva a cento, ma loro
sono stoicamente convinti che riusciranno ad essere promossi.
Il mio mal di testa
aumenta, di pari passo con il temporale. L'acqua vien giù come da una doccia
aperta.
Come detto entro in aula senza
aver acquistato nulla, ma la parte più difficile sta nell'oltrepassare la
barriera umana; la maggior parte degli alunni, infatti, mi attende sulla porta,
come se l'aria nella stanza si fosse rarefatta e concentrata davanti all'uscio.
Vanno al loro posto con una lentezza esasperante, formando una processione che
mi ricorda una carovana tuareg nel deserto, solo che loro non sono i tuareg,
bensì i cammelli: stessa andatura dinoccolata, stesso
ruminare, stessi versi gutturali dei simpatici animali, perché indubbiamente lo
sono. Simpatici intendo dire.
«Prssò, cià rpurtat i compt.»
La essemmesseite ha colpito non solo la lingua scritta,
ma anche quella parlata, per cui sono diventato da “professore” un misero
“prssò”.
L'autore della domanda è
Luciani ed è interessato al voto del compito perché la madre lo
nutre sulla base dei risultati scolastici: voti superiori a cinque si mangia,
inferiori si digiuna. Mi si stringe il cuore nel pensare che Luciani (un metro
e novanta per centoventi chili) nemmeno oggi mangerà.
Il mio mal di testa aumenta
ulteriormente.
Inutile fare tanti
preamboli, li informo subito che il compito è andato male. Eppure
il titolo del tema sembrava interessante: “Signora musica come si sente?
Dica MP3!”.
Gli alunni, appena dettato
il titolo, mi avevano guardato come se avessi parlato in russo (in effetti avendo parlato in italiano e non in dialetto per
loro il risultato poteva sembrare simile), ma poi si erano messi a lavorare con
impegno, facendomi pensare di aver centrato (una volta tanto) un argomento che
potesse interessarli. Ma era andata male, così come era andata male quella
volta che avevo dato loro un compito sui nuovi linguaggi mediatici. La già
citata essemmesseite l'aveva fatta da padrona, e quando avevo segnato in
blu un “che” scritto “ke” ed un “non” scritto “nn”, si era sfiorata la
rivoluzione francese.
Un alunno alza la mano per
fare una domanda: «Prssò, senta, scusa.»
Faccio finta di inorridire.
«Mulani, ma da quando mi dai del tu?»
«No prssò, che ne so io… io
volevo fare l'astinenza.»
Faccio fatica a capire cosa
intenda Mulani con astinenza, ma poi anni e anni di insegnamento mi aiutano
nella traduzione. «Mulani, a parte il fatto che si dice assonanza, in questo
caso non serve l'astinenza, come dici
tu, bastava parlare in italiano usando la i.» Mulani
mi guarda come se avessi spiegato la formula della bomba H, poi improvvisamente
s'illumina e ricomincia a parlare.
«Prssò. Scusi…»
tiro un sospiro di sollievo. «Senti.»
Il mio mal di testa arriva
a livelli di guardia e fuori tuoni e fulmini la fanno da padroni.
Mulani, però, continua
spietato. «Io le volevo chiedere: ma perché dobbiamo sapere parlare bene in
itagggliano…» (dice proprio così, con l'accento sulla “g”) «…se c'è gente che
non sa mettere in fila due parole eppure guadagna un sacco di soldi?»
Mi passo una mano sul viso,
nella speranza che si muova a compassione. «Fammi un esempio; a chi ti
riferisci in particolare?»
Mulani sorride soddisfatto,
mi aspettava al varco. «Semplice prssò, Costantino
Vitaliano e tutti quelli della scuderia di Lele Mora. Se vieni scoperto da Lele
Mora hai svoltato,» mi dice tutto soddisfatto.
La provocazione merita una
risposta. «Ho capito Mulani. Ma guarda che
un'istruzione ti serve sia a livello personale che professionale. Per
intenderci, se non vieni scoperto da Lele Mora come mangi?»
Il viso del ragazzo s'illumina.
«Prssò, se non mi dà a mangiare Lele Mora ci penserà… Lele… mosina.»
La risata è collettiva e
malgrado tutto rido anch'io.
Riconsegno i compiti
cercando di non guardare l'espressione dei loro volti mentre rimirano il voto.
Luciani tiene il foglio sul petto senza avere il coraggio di guardarlo, come un
giocatore di poker che legge le proprie carte davanti ad un piatto milionario.
Finisco
il giro e sento un tonfo in fondo all'aula: è la testa del povero Luciani
“caduta” sul banco: il pokerista ha scoperto le sue carte… il piatto piange.
«Sentite ragazzi,» cerco di volgere la cosa il più positivamente possibile, «vorrei
che Calmieri leggesse il proprio tema per farvi capire che forse anche per voi
c'è ancora speranza.»
Mauro Calmieri non è il più
bravo della classe, anzi, ha sempre galleggiato sul quattro tendente al cinque;
eppure stavolta ha preso nove e voglio enfatizzare la cosa per tentare di
infondere un po' di fiducia in chi vuole migliorarsi.
Calmieri si alza
timidamente e viene alla cattedra; con un filo di voce mi informa che non se la
sente di leggere il tema e lo capisco, così lo faccio io per lui.
Il tema comincia quasi in
sordina, descrivendo gli effetti benefici della musica sul morale delle
persone, poi prende una piega triste, ma non tragica, nonostante la tragicità
dell'argomento; è incredibile quanto poco noi insegnanti conosciamo i nostri
ragazzi: Mauro ha perso la madre l'estate scorsa, ma noi non l'abbiamo saputo.
«Cara musica, io lo so che
lei non si sente tanto bene, malgrado le nuove
tecnologie riescano a riprodurre un suono quasi perfetto. Eppure alla mia mamma
piaceva ascoltarLa con un vecchio giradischi, con il vinile che frusciava come
in un film in bianco e nero. Quel fruscio, che riproduceva le canzoni di
Baglioni e dei Dire Straits, le ha fatto compagnia sino alla fine, entrando a
far parte dei miei ricordi più cari. Alle volte la notte,
quando non riesco a dormire, lo sento grattare dolcemente dentro la mia testa e
non riesco a capire se è il fruscio del disco o la voce della mia piccola mamma
che non ce la faceva più a parlare, eppure volle dirmi sino all'ultimo quanto
mi amava. Cara musica, io lo so che Lei è molto impegnata e non si sente tanto
bene, ma se ha un attimo, per favore, faccia un salto in Paradiso e mi
saluti la mia mamma.»
In quel momento suona la
campanella, ma nessuno si muove.
Alzo lo sguardo sulla
classe: più di un volto è rigato e tutti guardano Mauro Calmieri che a sua
volta ha lo sguardo perso nei propri ricordi, nei propri fruscii.
Passano ancora alcuni
secondi in un silenzio irreale, poi, all'unisono, esplode un applauso dal
profondo dei loro cuori ed io mi unisco a loro.
Fuori ha smesso di piovere.
Il mio mal di testa è
passato.
(Da EleVateMenti
– Tabula Fati, 2010)