Ernesto, vent'anni
di
Fiorella Borin
Erano
allineati nel cortile. Tutti. Zoccoli di legno e casacche a righe e un numero
ciascuno. Quattro cifre per riassumere un destino.
“...
sechs, sieben...” (Non io Signore ti prego fa'
che non tocchi a me) “... acht, neun..."
(Tu che hai posto un angelo al fianco di ciascuno di
noi) "... zehn!"
Dieci. Toccava a lui. Il manico di un
frustino premuto contro il suo cuore. Il cuore di Ernesto, vent'anni. Venti
primavere ed Eva-il-primo-bacio e quattro numeri
tatuati sulla pelle e mordere l'aria, farla a pezzi e sputare ribellarsi cadere
in ginocchio... “Zehn!" ripeté il soldato,
"Zehn!" e oltre il filo spinato il cielo
pareva un sudario, "Zehn!”, dieci!, e lui era il decimo e il suo angelo era volato lontano da
lui.
Annaspare
brancolare cadere in ginocchio rincorrere quella frase troppe volte gridata,
"... Um Gott... Um Gotteswillen..."
per pietà per pietà per pietà, balbettare e rantolare e allungare le mani e
congiungerle e sbarrare gli occhi, "Um Gotteswillen!"
Il soldato gli riempì la
bocca con un pugno e: "Wird's bald? (Ti muovi?)" gli
ringhiò in faccia mentre lo afferrava per il bavero obbligandolo a rimettersi
in piedi.
"Um Gotteswillen" ripetè
ancora Ernesto, per pietà per pietà per amor di Dio... ma Lui se ne era andato
altrove: schifato dagli uomini o invece stanco, o malato, o forse morto.
Chissà. Niente Dio, in quel recinto di filo spinato. Al suo posto, il
Comandante 'Due Cani'.
"Spute
dich! (muoviti!)"
gl'intimò il soldato indicandogli l'alloggio del Comandante di Campo; e ci mise
in aggiunta una pedata e uno spintone, affinché lui capisse che il suo destino
non era - per quel giorno - un muro o un cappio o il fumo della ciminiera, no,
il suo destino era ‘Due Cani'.
Zoppicava, Ernesto, cercava di correre,
Ernesto sollievo-e-paura,
arrivò dinanzi a quell'uscio, Ernesto Dio-abbi-pietà.
Bussò.
“Herein!
(avanti!)” gorgogliò la voce che aveva fatto fuggire
gli angeli oltre il filo spinato.
Abbassò
la maniglia, entrò.
Lui
era là, oscenamente grasso e roseo, sprofondato nella sua poltrona di cuoio
marrone, gambe aperte e ventre gonfio di birra, gli occhi due lame sottili,
infide e chiare come l'acqua di uno stagno. (Di stagno
è il soldatino e il soldatino va alla guerra, mamma che cosa vuol dire stagno?,
mamma avevi promesso che avresti pregato per me...)
Erano
accucciati sul tappeto, i due cani, pelo-lucido e denti-aguzzi,
pastori-tedeschi, due cani feroci e ben pasciuti, fedeli feroci cani assassini.
Lo squadrarono, riconobbero l'odore acido di fame e sporco e orina secca e
croste e pidocchi e paura e richiusero gli occhi, tutti e due richiusero gli
occhi, schifati da quell'uomo che era più bestia di loro. Ernesto pochi-anni e
una sorte da bestia.
Il Comandante congiunse le mani sul ventre e
ruttò.
"Grande baldoria, questa notte... Lustigkeit, sì, tu capisci Lustigkeit?”
Ernesto capiva: baldoria, che tu sia maledetto, tu i tuoi cani e la tua infame
baldoria.
“Cani
animali molto saggi: economici, sì. Molto grande economici.
Loro mangia, e se mangiato troppo loro butta fuori da bocca. Butta fuori, sì.
Però... Però dopo, dopo sì?, loro rimangia. Niente va
sprecato con cani. Perché loro molto economici: loro niente sprecato. Non come voi, bocche inutili."
Ernesto
teneva gli occhi bassi. Ma il suo sguardo strisciava sul pavimento, zoccoli
tappeto stivali, zampe musi code e pavimento lustro, strisciava lo sguardo di
Ernesto, ferito ammaccato carponi, strisciava come uno schiavo obbligato a
rimestare la fogna. Si fermò in un angolo, lo sguardo muto di Ernesto.
"Però a me parsimonia di cani fa schifo!” gridò il Comandante
assestando un pugno al bracciolo; ruttò ancora, forte, un trionfo di cibo mal
digerito, un'apoteosi di bevande mischiate, vino birra cognac caffè, uno
schiaffo sul volto di Ernesto zuppa-di-patate-marce e
mele-raggrinzite, "Es ekelt
mich! (mi fa schifo!)” gridò ancora mentre Ernesto
non riusciva a scollare gli occhi da quell'angolo, lì dove c'era...
"Miei cani molto beneducati. Miei cani
gentiluomini. Ripeto a te bocca inutile: essi molto bene educati. Loro non mangia schifezze."
... c'era una
pozza di vomito, nell'angolo. C'era. Immonda acida giallognola pozza di vomito.
C'era. Andava pulita.
"Tu pulire. Tu
obbediente servitore di miei due gentiluomini."
Ed Ernesto si guardò intorno, cercando un
secchio di segatura uno
straccio un pezzo di carta una spugna, qualcosa... Niente.
"Con tua casacca."
Così. Denudarsi davanti a chi ha stivali e
pistola e pancia piena, davanti a due cani sonnacchiosi, sfilarsi via l'ultimo
straccio, l'ultima reliquia di un'umanità che fu. Via quel cencio ruvido di
strappi e macchie e brividi impigliati nella stoffa, via, un gesto, con
decisione, un gesto solo. Bastò.
Un
uomo a torso nudo davanti a tre animali.
"Beeile dich! (spicciati!)"
S'inginocchiò sul pavimento, Ernesto
costole-aguzze, appallottolò la casacca, Ernesto braccia-scarnite, pulì tutto,
Ernesto, pulì per bene, Ernesto voglia-di-piangere.
"Sehr gut (Bene.)"
Si rialzò, torso nudo e casacca fra le mani,
mordendosi le labbra, tornò davanti al suo Comandante.
"E adesso rimettiti tua camicia."
Così.
Anche questa corona di spine, Signore. Quando i quattro chiodi, Signore? Quando
la Resurrezione?
Verrà mai, Signore degli innocenti, quel giorno?
"Schnell! (Subito!)"
Ruvido disgustoso fetore umidiccio sul viso
e sulle braccia e lì dove un tempo aveva creduto fosse alloggiato il cuore. (Mamma vuoi sentire la poesia che ci ha insegnato oggi la
maestra: o Valentino vestito di nuovo come le brocche del biancospino...)
"E adesso: hinaus!
(fuori!)"
Fuori. Incontro al filo spinato e al cielo
greve come un sudario. Fuori. Lì dove si era smarrito il confine tra gli uomini
e le bestie. Fuori, sì.
Abbassò la maniglia, spalancò la porta. Era
ancora presto per morire.