Una
voce, poco fa
di Giovanni Buzi
È stato facile tornare; è bastato volerlo. Credevo non
fosse possibile attraversare terra e pietre. Invece... Il
giardino degli aranci profuma, ancora. Anzi, forse ancor di più. Ad ogni passo,
sento quei fiori bianchi aprirsi e il loro aroma spandersi nell'aria, come
volesse impregnare l'aria, e non sparire. Mai. Lo riconosco. Riconosco tutto.
Solo che, nei miei ricordi, tutto qua intorno era immerso nel verde e nella
luce, come in un acquario. Ora, è come avessero spento
d'un sol soffio il sole. Eppure, anche in queste penombre tra il grigio piombo
e il blu, riconosco il giardino, gli alberi, le statue di pietra, i getti
d'acqua delle fontane, i sentieri infiniti, le grandi voliere in fil di ferro bianco. Ma, tutto è ora immerso in fondo ad un
vasto oceano. Il cielo, già di fluidi azzurro e oro, s'è fatto una sola lastra
di marmo compatto e nero. Pesante come il coperchio d'una bara. Della bara che
ho sollevato, per tornare. Fame. Sì, è stata la fame a farmi tornare. Fame di
vita. Laggiù, dov'era - dov'era sempre stato - vedo il palazzo. Quel luogo dove
ho vissuto, per molto, troppo tempo. Dieci anni: più della metà della mia vita.
A piedi nudi, avanzo per stanze riempite di vuoto e polvere. Questo palazzo è
un alveare. In ogni cella sento esseri invisibili agitare ali. All'infinito. E
il brusio diventa assordante, entra a sciami d'aghi che affondano nel cervello
e toccano i nervi sempre vivi dei ricordi. Arrivo nella mia cella, ritrovo la
gabbia di ferro bianco. Le due colombe sono l'una accanto all'altra,
scheletriche. Una piuma, catturata da feci essiccate, s'agita ancora. Tra gli
aranci, sento un gocciolio. Dev'essere la fontana in marmo bianco. Rivedo il giardino nelle notti d'estate.
Avanzando, sento i profumi portati dal vento, il mare non lontano... Inciampo. A terra, un corpo in decomposizione. In questo
palazzo dimenticato, v'è spazio per morte fresca? M'avvicino. Cosa sono quel
cappello metallico, arrotondato, quegl'abiti a
chiazze verdi e marroni? È giovane. Ha grandi occhi grigi sbarrati sul niente.
La pelle è levigata, sfumata di viola. Le labbra non hanno colore. Da un
angolo, cola un rivolo di sangue rappreso. Scaccio mosche da quel bel viso.
Sento una voce venire da lontano. La riconosco, è la mia! Allora, è vero quello
che si dice nell'oltretomba: il mio canto non è sparito, riesce ad attirare, a
catturare, a togliere il respiro, ancora. Avvicino la mia mano a quel viso,
l'accarezzo. Il gelo della morte non mi fa paura, non più. M'inginocchio. Gli tolgo
il cappello metallico; al sole brillano capelli biondi, cortissimi. Avvicino le
mie labbra alle sue. Le poggio. Inserisco dolce la lingua in quella bocca e,
con voluttà, aspiro il poco liquido che resta. Nauseante, quella linfa di
decomposizione è dolce nettare per me. Devo tornare in questo palazzo. Ne sono
sicura, fra queste celle di morte, il mio canto attirerà vita, ancora.