Di
pinguini, megere e minimi angeli
di
massimolegnani
Mi
rendo conto che quando nei miei vagabondaggi entro in un locale
pubblico, dopo tanti chilometri in bicicletta, metto a dura prova la
professionalità del personale con il mio aspetto sfatto, sudato e
spesso sporco. Ho una mia teoria in proposito, un personalissimo
luogo comune, secondo cui meno pretenzioso è il bar o l´albergo
dove faccio tappa e maggiore sarà la simpatia, almeno di facciata,
di padroni e di avventori.
Da
dove è partito, mi chiede qualcuno, dove conta di arrivare?,
domanda un altro e sono fischi di meraviglia, battutine sull´età
e sorrisi elargiti come premi, bicchieri d´acqua offerti come
coppe di champagne e consigli minuziosi su che strada prendere per
evitare il traffico. Insomma, è un´accoglienza schietta quella che
trovo nei bar di paese o nelle pensioni di quart´ordine alla
periferia delle città. E sull´altro piatto della bilancia c´è
invece la freddezza dei luoghi lussuosi, il malcelato fastidio con
cui vengo accolto, la trascuratezza con cui vengo servito, gli
sguardi di vago disgusto dardeggiati dalle poltrone della hall.
Ricordo
con rabbia il pinguino inamidato di Cervinia che alza un sopracciglio
inorridito al mio ingresso stremato dopo una salita che mi ha
letteralmente sfinito. Tanto sfinito da non accorgermi di quanto sia
elegante il locale dove ho appena messo piede, tutto musica soffusa e
voci bisbigliate. La salita mi ha messo una fame epocale, ordino un
toast, lui, il pinguino da schiaffi, non si scompone nel rifiuto, i
toast li serviamo solo ai nostri clienti abituali. Me ne vado
furibondo, ma uscendo mi scrollo via il sudore sulla passatoia
immacolata come un terranova dispettoso appena uscito dall´acqua su
una spiaggia affollata, e qualche provvidenziale goccia raggiunge
anche i clienti disgustati ai tavolini.
Ogni
luogo comune ha le sue eccezioni e la mia eccezione la incontro in un
paesone sperso tra le risaie del Vercellese, nella giornata più
calda dell´anno. Non c´è un cliente né fuori né dentro il
modesto locale, solo lei, la megera dietro al bancone. Un cespo di
capelli imbalsamati in testa, uno scamiciato a fiori scialbi,
ciabatte ai piedi, e soprattutto un´espressione, al mio ingresso,
da Guglielmina d´Olanda infastidita dalla sciatteria dei suoi
sudditi, stampata in faccia attorno a una boccuccia raggrinzita, a
culo d´anatra spennata. Ma il bar è buio, fresco, deserto e io
sono stravolto, per cui so già che non me ne andrò di lì qualunque
cosa combini questa donna dallo sguardo ostile. Mi lascio cadere su
una sedia nella penombra dello stanzone e le ordino coca e toast (sì,
il toast è una mia fissa da stanchezza ciclistica, ho la gola così
asciutta che non riuscirei a mandare giù un solo boccone di un
panino farcito). Dopo qualche minuto di quiete in cui rifiato e
grondo, mi porta la coca borbottando per le gocce di sudore che ho
seminato sul pavimento tutt´altro che lindo già di suo. Io quando
sono sfatto ho l´incazzatura facile, badi a non bruciarmi il
toast le ringhio con un´arroganza che non mi appartiene. Ormai
siamo in aperto conflitto. Lei mentre si allontana butta lì con
noncuranza le sposto la bici che intralcia l´ingresso, io
schizzo in piedi, non tollero le mani di altri sulla MIA bicicletta,
figuriamoci quelle della megera, se la tocca la uccido, le
grido, e non sono certo che sia una minaccia a vuoto. Mi muovo con
passi che vorrebbero essere marziali, ma, avete mai provato a
camminare con le scarpette da bici?, è già tanto se non stramazzo a
terra. Sposto la bici (che non intralciava un accidente) e l´appoggio
al muro, non lì che disturba i clienti ai tavolini mi dice
serafica. Mi guardo intorno come non ci vedessi bene, ma se non
c´è nessuno, sbraito spostando un´altra volta il fidato
mezzo. Lei fa spallucce e rientra. Torno dentro più accaldato di
prima per la rabbia. Devo darmi una rinfrescata così le chiedo dove
sia la toilette, ci vuole la chiave mi risponde senza battere
ciglio e senza accennare a darmela. Bè, me la dia, che diamine!
Alla fine mi allunga la chiave con riluttanza come fosse costretta a
consegnare le chiavi del regno all´ultimo dei barboni. Esco in
cortile, apro la porta e m´imbatto in uno scenario indecente, la
latrina è una turca zozza che manco un turco della Cappadocia
userebbe, il lavandino un tempo di smalto è tutto ruggine e
scarafaggi. Rinuncio. Rinuncio al cesso, al fresco del locale, al
toast, alla mezz´ora di riposo, rinuncio anche a fare del sarcasmo.
Rendo la chiave, pago la coca. E il toast? Non rispondo e me
ne vado. Mentre riprendo a pedalare mi raggiunge un boiafauss
come una maledizione lanciata a denti stretti. Che si fotta, la
megera, nel prossimo paese di sicuro troverò un locale che risponda
al mio luogo comune della buona creanza di campagna.
E
poi ti capita di non trovare da dormire dove meno te l´aspetti.
Saint Vincent, stazione termale e casinò, ha più posti-letto che
abitanti, ci sono arrivato dopo una giornata su e giù per smisurati
colli e un vento contro che ha reso feroci anche i pochi chilometri
in pianura. Ma locande, pensioncine e alberghi sono al completo. Ti
mancherebbe solo di provare al Billia dove dovresti però lasciare la
bici in baratto per un letto e poi le troppe stelle ti disturbano, tu
sembri uno Charlot sui pedali, loro, dal fattorino al maitre, sono
fatti per l´ostentazione.
C´è
ancora un albergo a cui bussare, ha qualche stella di troppo ma è
così nascosto tra le case che m´ispira una vaga fiducia e poi sono
troppo stanco per tentare altri paesi più lontani.
L´arrivo
è trionfale: l´ultimo giro di pedale è un disastro, troppo tardi
m´accorgo dell´inclinazione del cemento all´ingresso del
cortile, un vero e proprio scivolo, e infatti scivolo con la ruota
sottile e stramazzo a terra davanti alle porte scorrevoli della hall.
Istintivamente mi guardo intorno ancora terra, mi ha visto solo
l´addetta alla reception, poco male, da lei già prima non
m´aspettavo nulla di buono. Invece sorride da lontano e non è di
scherno quel sorriso che m´accompagna fino al bancone. Sono
furibondo per la caduta e per il luogo troppo elegante, chiedo una
stanza con una stizza preventiva mentre gocciolo sudore e sangue sul
tappeto persiano. Per lei la trovo, di sicuro non la lascerò
andare via in queste condizioni. Le sue parole spiazzano, la
guardo incredulo mentre consulta seria il computer. È infagottata in
una divisa dal taglio maschile che non le rende merito, e già di suo
non è una gran bellezza, eppure ha una voce e un modo che mi
stregano. Ecco ho una singola libera. Non è delle migliori, manca
la vista sulle montagne e l´arredamento è un po´ spartano, ma è
tranquilla ed ha il vantaggio di essere al piano-terra, così non ha
da camminare tanto su quelle scarpette precarie.
Svapora
d´incanto la mia espressione corrucciata e mi apro come un cielo
dopo il temporale. Come non bastasse mi suggerisce di sistemare la
bici nel corridoietto d´anticamera. Mai successo, e sono talmente
meravigliato che dimentico di ringraziarla, ma forse il mio sorriso
le dice più delle parole che non escono.
Un
bussare discreto, è di nuovo lei, armata di cotone e cerotti. Se
permette le medico il gomito, dice con naturalezza, come se
quello fosse il suo modo abituale di accudire i clienti. Mi
disinfetta la sbucciatura, la deterge e la incerotta con pochi gesti
sicuri. E adesso si riposi, mi raccomanda uscendo e io, come
un bambino sfinito da giochi e cadute, piombo in un sonno istantaneo
prima ancora della doccia.