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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Di pinguini, megere e minimi angeli, di massimolegnani 30/10/2024
 

Di pinguini, megere e minimi angeli

di massimolegnani





Mi rendo conto che quando nei miei vagabondaggi entro in un locale pubblico, dopo tanti chilometri in bicicletta, metto a dura prova la professionalità del personale con il mio aspetto sfatto, sudato e spesso sporco. Ho una mia teoria in proposito, un personalissimo luogo comune, secondo cui meno pretenzioso è il bar o l´albergo dove faccio tappa e maggiore sarà la simpatia, almeno di facciata, di padroni e di avventori.

Da dove è partito, mi chiede qualcuno, dove conta di arrivare?, domanda un altro e sono fischi di meraviglia, battutine sull´età e sorrisi elargiti come premi, bicchieri d´acqua offerti come coppe di champagne e consigli minuziosi su che strada prendere per evitare il traffico. Insomma, è un´accoglienza schietta quella che trovo nei bar di paese o nelle pensioni di quart´ordine alla periferia delle città. E sull´altro piatto della bilancia c´è invece la freddezza dei luoghi lussuosi, il malcelato fastidio con cui vengo accolto, la trascuratezza con cui vengo servito, gli sguardi di vago disgusto dardeggiati dalle poltrone della hall.

Ricordo con rabbia il pinguino inamidato di Cervinia che alza un sopracciglio inorridito al mio ingresso stremato dopo una salita che mi ha letteralmente sfinito. Tanto sfinito da non accorgermi di quanto sia elegante il locale dove ho appena messo piede, tutto musica soffusa e voci bisbigliate. La salita mi ha messo una fame epocale, ordino un toast, lui, il pinguino da schiaffi, non si scompone nel rifiuto, i toast li serviamo solo ai nostri clienti abituali. Me ne vado furibondo, ma uscendo mi scrollo via il sudore sulla passatoia immacolata come un terranova dispettoso appena uscito dall´acqua su una spiaggia affollata, e qualche provvidenziale goccia raggiunge anche i clienti disgustati ai tavolini.

Ogni luogo comune ha le sue eccezioni e la mia eccezione la incontro in un paesone sperso tra le risaie del Vercellese, nella giornata più calda dell´anno. Non c´è un cliente né fuori né dentro il modesto locale, solo lei, la megera dietro al bancone. Un cespo di capelli imbalsamati in testa, uno scamiciato a fiori scialbi, ciabatte ai piedi, e soprattutto un´espressione, al mio ingresso, da Guglielmina d´Olanda infastidita dalla sciatteria dei suoi sudditi, stampata in faccia attorno a una boccuccia raggrinzita, a culo d´anatra spennata. Ma il bar è buio, fresco, deserto e io sono stravolto, per cui so già che non me ne andrò di lì qualunque cosa combini questa donna dallo sguardo ostile. Mi lascio cadere su una sedia nella penombra dello stanzone e le ordino coca e toast (sì, il toast è una mia fissa da stanchezza ciclistica, ho la gola così asciutta che non riuscirei a mandare giù un solo boccone di un panino farcito). Dopo qualche minuto di quiete in cui rifiato e grondo, mi porta la coca borbottando per le gocce di sudore che ho seminato sul pavimento tutt´altro che lindo già di suo. Io quando sono sfatto ho l´incazzatura facile, badi a non bruciarmi il toast le ringhio con un´arroganza che non mi appartiene. Ormai siamo in aperto conflitto. Lei mentre si allontana butta lì con noncuranza le sposto la bici che intralcia l´ingresso, io schizzo in piedi, non tollero le mani di altri sulla MIA bicicletta, figuriamoci quelle della megera, se la tocca la uccido, le grido, e non sono certo che sia una minaccia a vuoto. Mi muovo con passi che vorrebbero essere marziali, ma, avete mai provato a camminare con le scarpette da bici?, è già tanto se non stramazzo a terra. Sposto la bici (che non intralciava un accidente) e l´appoggio al muro, non lì che disturba i clienti ai tavolini mi dice serafica. Mi guardo intorno come non ci vedessi bene, ma se non c´è nessuno, sbraito spostando un´altra volta il fidato mezzo. Lei fa spallucce e rientra. Torno dentro più accaldato di prima per la rabbia. Devo darmi una rinfrescata così le chiedo dove sia la toilette, ci vuole la chiave mi risponde senza battere ciglio e senza accennare a darmela. Bè, me la dia, che diamine! Alla fine mi allunga la chiave con riluttanza come fosse costretta a consegnare le chiavi del regno all´ultimo dei barboni. Esco in cortile, apro la porta e m´imbatto in uno scenario indecente, la latrina è una turca zozza che manco un turco della Cappadocia userebbe, il lavandino un tempo di smalto è tutto ruggine e scarafaggi. Rinuncio. Rinuncio al cesso, al fresco del locale, al toast, alla mezz´ora di riposo, rinuncio anche a fare del sarcasmo. Rendo la chiave, pago la coca. E il toast? Non rispondo e me ne vado. Mentre riprendo a pedalare mi raggiunge un boiafauss come una maledizione lanciata a denti stretti. Che si fotta, la megera, nel prossimo paese di sicuro troverò un locale che risponda al mio luogo comune della buona creanza di campagna.

E poi ti capita di non trovare da dormire dove meno te l´aspetti. Saint Vincent, stazione termale e casinò, ha più posti-letto che abitanti, ci sono arrivato dopo una giornata su e giù per smisurati colli e un vento contro che ha reso feroci anche i pochi chilometri in pianura. Ma locande, pensioncine e alberghi sono al completo. Ti mancherebbe solo di provare al Billia dove dovresti però lasciare la bici in baratto per un letto e poi le troppe stelle ti disturbano, tu sembri uno Charlot sui pedali, loro, dal fattorino al maitre, sono fatti per l´ostentazione.

C´è ancora un albergo a cui bussare, ha qualche stella di troppo ma è così nascosto tra le case che m´ispira una vaga fiducia e poi sono troppo stanco per tentare altri paesi più lontani.

L´arrivo è trionfale: l´ultimo giro di pedale è un disastro, troppo tardi m´accorgo dell´inclinazione del cemento all´ingresso del cortile, un vero e proprio scivolo, e infatti scivolo con la ruota sottile e stramazzo a terra davanti alle porte scorrevoli della hall. Istintivamente mi guardo intorno ancora terra, mi ha visto solo l´addetta alla reception, poco male, da lei già prima non m´aspettavo nulla di buono. Invece sorride da lontano e non è di scherno quel sorriso che m´accompagna fino al bancone. Sono furibondo per la caduta e per il luogo troppo elegante, chiedo una stanza con una stizza preventiva mentre gocciolo sudore e sangue sul tappeto persiano. Per lei la trovo, di sicuro non la lascerò andare via in queste condizioni. Le sue parole spiazzano, la guardo incredulo mentre consulta seria il computer. È infagottata in una divisa dal taglio maschile che non le rende merito, e già di suo non è una gran bellezza, eppure ha una voce e un modo che mi stregano. Ecco ho una singola libera. Non è delle migliori, manca la vista sulle montagne e l´arredamento è un po´ spartano, ma è tranquilla ed ha il vantaggio di essere al piano-terra, così non ha da camminare tanto su quelle scarpette precarie.

Svapora d´incanto la mia espressione corrucciata e mi apro come un cielo dopo il temporale. Come non bastasse mi suggerisce di sistemare la bici nel corridoietto d´anticamera. Mai successo, e sono talmente meravigliato che dimentico di ringraziarla, ma forse il mio sorriso le dice più delle parole che non escono.

Un bussare discreto, è di nuovo lei, armata di cotone e cerotti. Se permette le medico il gomito, dice con naturalezza, come se quello fosse il suo modo abituale di accudire i clienti. Mi disinfetta la sbucciatura, la deterge e la incerotta con pochi gesti sicuri. E adesso si riposi, mi raccomanda uscendo e io, come un bambino sfinito da giochi e cadute, piombo in un sonno istantaneo prima ancora della doccia.
























 
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