Senza
nome
di
Ernesto Flisi
Faceva
un freddo terribile in quel gennaio del 1864. Aveva nevicato molto;
poi era seguito un tempo di gelo come non si ricordava, con
temperature che nella notte scendevano sotto i 25-30°. Le strade,
per lo più sterrate (le migliori), rese spesso impraticabili anche
ai carretti trainati da cavalli o da asini, erano ricoperte di neve
gelata, indurita, al punto da rendere molto difficile il percorso
anche a persone a piedi che a stento di notte riuscivano a
distinguere il sentiero dai fossi laterali. Difatti non c´era anima
viva che si spostasse, di giorno e tantomeno di notte. E anche se ci
fossero state urgenze (un malato, un morto) chi si poteva arrischiare
a tirare fuori dalla stalla un asino, un bue o (per i più abbienti)
un cavallo per trasportare qualcuno? Era più che mai a rischio la
sopravvivenza non solo dei trasportati, ma anche degli animali.
Il
paesaggio della campagna era spettrale e di notte in aperta campagna
si sentivano dei forti scoppi, che i vecchi contadini capivano
provenissero da tronchi delle piante che, impregnate d´acqua e di
gelo, scoppiavano con rumore; anche i fusti contorti delle viti
vecchie ne erano coinvolti. Certo le piante dei filari, in riva ai
fossi, se scoppiavano, difficilmente sopravvivevano. Almeno però in
primavera si poteva fare legna. Le viti danneggiate, invece,
costituivano un danno enorme. La viticoltura nella Bassa costituiva
un settore tra i più vitali della locale produzione agricola.
Un´urgenza
però c´era in quella notte terribile. All´una Giuseppone, il
campanaro, fu svegliato dalla perpetua del parroco, che aveva battuto
ripetutamente con un palo agli scuri della sua stanza, posta sotto il
campanile. Per un po´ Giuseppone non rispose, poi pensò, nel
dormiveglia, a dei ladri o a dei malintenzionati. Fatto sta che
l´insistenza dei colpi lo costrinse a scendere dal letto, ad
alzarsi nel gelo di quella stanza, dove il fiato si trasformava
presto in gocce gelate e aprire uno scuro. Al chiarore della neve e
della luna vide una sagoma nera che con voce femminile, ma senza
urlare, chiedeva di scendere subito. "Ma siete voi Argìa? Ma cos´è
successo?". "Don Ippolito vi vuole subito in canonica, presto!
Non c´è tempo da perdere. E´ urgente". Giuseppone avrebbe
voluto protestare, capire qualcosa, ma Argìa, avvolta nel suo
scialle nero, unica cosa che la faceva identificare nel biancore
della neve, non gli dette tempo; era già tornata in canonica.
Il
povero campanaro avrebbe mandato al diavolo di cuore sia la perpetua
che il prete, ma non se lo poteva permettere. Chi gli avrebbe dato un
lavoro pagato poco, è vero, ma sicuro, rispettato in paese? Inoltre
poteva beneficiare dei proventi delle questue che raccoglieva il
parroco quando lo accompagnava a benedire le case e le stalle,
qualche soldo poi lo ricavava dai battesimi, dai funerali, dai
matrimoni. E chi era bravo a suonare le campane come lui? Certo, la
parte più cospicua andava a don Ippolito, ma una parte rimaneva
anche a lui. Insomma qualche salame, un po´ di burro e qualche uovo
lo rimediava. Inoltre curava l´orto del parroco e qualche verdura
pure capitava sulla sua tavola. Quindi proprio doveva scendere al
freddo e recarsi in canonica. Si vestì coi suoi stracci, calzò le
sue sgalmare chiodate e si coprì con un gran tabarro che, anche se
un po´ logoro (era già stato di suo padre), riparava bene dal
freddo.
La
canonica era a una decina di metri, vide la porta socchiusa e scorse
una sottile lama di luce che proveniva da una candela accesa nello
studio del parroco. "E´ permesso?", chiese. Dall´interno udì
la risposta immediata di don Ippolito:" Entra, fai presto!".
Nella stanza c´era anche la perpetua che squadrò con un´occhiata
il suo trasandato campanaro, ma, nonostante la lingua lunga, non
proferì parola. Neanche Giuseppone però ebbe tempo di chiedere cosa
era successo. Nella stanza regnava un silenzio indecifrabile, che fu
interrotto subito però dal parroco:"Devi portare questo bambino
subito alla ruota a Viadana" e gli indicò una cesta di vimini,
posta a terra; si trattava di una cavagna (così la denominavano al
tempo). Era una cesta con manico, simile a quelle che le contadine
utilizzavano per la vendemmia. Dentro vi era un neonato, coperto da
stracci di lana che svolgevano la funzione di panni. Al collo aveva
appeso un nastrino rosso con una medaglietta della Madonna spezzata a
metà. Sembrava tranquillo, dormiva.
"Ma
reverendo non si può andare domattina? C´è un freddo cane e da
qui a Viadana ci sono 12 chilometri e a percorrerli a piedi e poi con
questa cesta, non so quante ore ci vorranno; le strade sono
ghiacciate. Di giorno almeno so orientarmi, ma di notte, con la neve
e il ghiaccio che ricoprono tutto, potrei anche sbagliare direzione",
tentò di obiettare Giuseppone. Don Ippolito però non ammise
repliche. "Avrai anche un compenso, ma è assolutamente urgente che
il bambino sia consegnato nella Pia Casa Esposti".
Lo
sguardo arcigno dell´Argìa era più che mai eloquente.
Così
al povero campanaro non restava altro da fare che indossare subito i
suoi guantoni di pezza, stringersi bene al collo la sciarpa, calare
sulle orecchie le tese del suo cappello di lana, avvolgere il più
possibile il suo tabarro e partire.
Era
un´avventura, in quelle condizioni atmosferiche, recarsi da Dosolo
(questa era la parrocchia di don Ippolito) a Viadana, il paese
principale del distretto, dove c´era l´Ospedale e l´annessa
Casa Esposti.
Comunque
all´una e mezza il buon campanaro era già in viaggio. Sulle prime
sentiva un vento gelido in faccia, ma poi, camminando, un po´ si
scaldò. Per non sbagliare strada, teneva d´occhio le sagome fosche
dei pioppi che delimitavano le proprietà confinanti con la strada
verso Viadana, ma non distingueva i campanili dei paesi che
incontrava. I paesi e le cascine erano come scomparsi. Il solo rumore
era quello delle sue scarpe chiodate che crocchiavano sul ghiaccio
che ricopriva le strade. Solo, di tanto in tanto, sentiva in
lontananza qualche latrato di cane. Non incontrò nessuno,
ovviamente, se non altro per chiedere se la strada era giusta, ma non
ci sperava molto.
Il
bambino dopo un´ora circa si era svegliato e piangeva. Giuseppone
però non sapeva come fare per acquietarlo; oltretutto lui non aveva
mai avuto bambini e poi sarebbe stato incapace di gesti affettuosi o
di tentativi di cullare il neonato. L´unico movimento era quello
della cesta, che oscillava con i movimenti della sua camminata o con
qualche scivolone sul ghiaccio. Per fortuna il campanaro era di
fisico solido e ben piantato, come dicevano i contadini del suo
paese. Le sue mani, più che alle carezze, erano abituate a
stringere le funi delle campane. Pensò che il bambino piangesse per
il freddo, ma non sapeva cosa fare, se non accelerare il passo. La
fatica però, con quel freddo e con quel ghiaccio, gli rendeva
impossibile l´intento. Anche le ciglia sembravano ghiacciarsi.
Intanto nella sua testa frullavano alcune domande: chi era la madre
del bambino? E il padre? Perché lo portava alla ruota? Cosa sapeva
don Ippolito? Perché avevano portato l´infante in canonica? Non
dubitava certo del suo parroco; forse si trattava di qualche giovane
donna al servizio del notaio o di qualche ricco possidente del paese.
In tal caso lo portavano alla ruota per nascondere una maternità
compromettente. O forse la madre era la moglie di qualche poveraccio,
già carico di prole, che proprio non poteva immaginare come sfamare
un´altra bocca. E mentre rimuginava tra sé e sé questi pensieri,
il pianto del bambino piano piano cessò. Giuseppone pensò che si
fosse addormentato. Meglio così.
Passò
Correggioverde, poi Pomponesco, il minuscolo paese di Banzuolo, la
corte dei Tre Santi e quando cominciava ad albeggiare era quasi a
Buzzoletto, a pochi chilometri da Viadana. Non sapeva che ora fosse,
ma visto il primo chiarore, pensò che fossero appena passate le 6 o
le 7. Quando arrivò alle prime case del Carrobbio, all´inizio
dell´abitato di Viadana, sperava di trovare qualche carrettiere,
qualche sellaio, magari un´osteria per bere un goccio di vino e
scaldarsi un po´, ma niente: sembrava un paese fantasma. Però poi
sentì suonare le campane di S. Pietro, poi quelle del Castello, di
Santa Maria e quindi si diresse verso quello scampanio, convinto di
arrivare al centro del paese: là ci sarebbe stato l´Ospedale e là
avrebbe depositato il neonato.
Nei
pressi delle chiese non vide le donne recarsi alla prima messa:
troppo freddo? E chi se la sentiva di uscire? Ne sapeva qualcosa
anche lui, che allo stesso orario si attaccava alle funi delle
campane per suonare l´Ave Maria e poi i richiami per la messa del
mattino, ma in quelle settimane vedeva al massimo due o tre vecchie
recarsi in chiesa.
Arrivato
quasi al centro del paese, trovò due gendarmi, riparati sotto un
portico. Lo fermarono e gli chiesero dove stesse andando. Giuseppone,
che era analfabeta, in dialetto e in soggezione dei militari, proferì
qualche parola, ma riuscì a far capire quale era il suo scopo. Lo
lasciarono andare subito, indicandogli la strada per arrivare a
destinazione. Non ebbero il coraggio di scoprire gli stracci e
verificare se il loro interlocutore fosse un furfante oppure un
povero diavolo che compiva un gesto pietoso. Bastava guardarlo in
viso Giuseppone, per capire. Del resto solo alzare gli stracci che
nascondevano il bambino poteva essere dannoso per lui.
Al
termine dei portici del Borgo San Francesco c´era l´Orfanotrofio
Femminile; girò a sinistra e vide la chiesa di Sant´Anna. Si
ricordò delle indicazioni date da don Ippolito. A fianco di
Sant´Anna vi era l´ingresso dell´Ospedale. Tra i due edifici
era ancora accesa una torcia notturna che illuminava la ruota. Si
guardò intorno circospetto, perché nessun curioso lo vedesse o gli
facesse domande strane, alle quali peraltro avrebbe avuto qualche
difficoltà a rispondere. Poi estrasse il bambino e, senza tanti
dubbi, lo adagiò nella cavità della ruota; la girò, azionando una
maniglia, poi tirò un filo a penzoloni che permetteva di far suonare
una campanella. Sentì i rintocchi nervosi all´interno. Era il
segnale per le suore dell´Ospedale che c´era un nuovo esposto.
Giuseppone
si sfilò subito, riprendendo i portici che aveva percorso poco prima
in senso contrario e camminò svelto, cercando di non dare
nell´occhio a nessuno. Già c´erano alcuni artigiani che aprivano
bottega: un sellaio, un maniscalco, un calzolaio, un falegname, un
fornaio (uh che voglia avrebbe avuto di entrare a prendere una forma
di pane!), ma continuò a camminare spedito fino al Carrobbio. Qui,
vista l´insegna di un´osteria, cedette alla tentazione e alla
fame. Entrò, non c´era nessun avventore. Intravide però, alla
luce delle candele, un oste corpulento. Chiese di avere una scodella
di trippe, una rosa di pane e un´altra scodella di lambrusco.
Insomma una colazione che allora si consumava nelle osterie e
Giuseppone ne sentiva un gran bisogno. L´oste lo squadrò con
sguardo indagatore e poi, non sapendo chi era, mentre lo serviva, gli
chiese a bruciapelo:" Da dove venite? E che ci fate con una cavagna
vuota?". Il campanaro, subito fattosi rosso in viso, rispose che
veniva da Banzuolo e aveva portato verze e uova in un palazzo
signorile del centro di Viadana. L´oste rispose con un :"Ah",
detto a mezz´aria, ma senza troppa convinzione della risposta.
La
fame di Giuseppone però era tanta e divorò le trippe calde, nelle
quali aveva inzuppato la rosa di pane e bevve in solo due sorsi tutta
la scodella di vino. Pagò in fretta e poi uscì. Per sua fortuna
c´era ben poca gente in giro e sulla strada per Dosolo trovò
pochissime persone: tre o quattro in tutto.
Così
alle 12,30 fu in canonica da don Ippolito. La perpetua, col mestolo
in mano, stava versando una minestra fumante in una fondina davanti
al parroco. Questi gli chiese subito se tutto era andato a posto e il
campanaro annuì, senza proferire parola, ma indugiando un po´
davanti al parroco, già seduto a tavola. L´indugio era dovuto al
desiderio di potere anche lui gustare quella minestra di brodo di
gallina che lo avrebbe scaldato un po´ (e Dio sa quanto ne sentisse
il bisogno), ma anche alla necessità di riscuotere il compenso
promesso. Don Ippolito, che lo conosceva bene, intuì subito e
disse:" Argìa, dai a Giuseppone quei soldi che sono nel primo
cassetto a destra della mia scrivania". La perpetua, con un cenno
della testa, si trascinò dietro il campanaro nel corridoio,
dicendogli: " Stai qui che arrivo". Dopo una manciata di secondi,
fece sfilare nella mano di Giuseppone alcune monete, che equivalevano
a poco più del doppio di quelle che aveva speso in osteria. Senza
obiettare nulla, il campanaro ringraziò e rientrò a casa.
All´Ospedale
invece, suor Carolina, che era addetta per turno quella notte a
ricevere gli esposti, appena suonata la campanella, corse alla ruota
e prese il bambino avvolto negli stracci e, come d´abitudine, stava
precipitandosi nella attigua chiesetta di Sant´Anna per farlo
battezzare subito , ma per la sua curiosità non resistette dal
guardarlo. Tolto il primo panno però si accorse che le mani del
bambino erano gelide, il viso cianotico e il corpo rigido: era morto
per il freddo.
Corse
ugualmente a cercare la suora superiora, che era inginocchiata su uno
sgabello in chiesa, intenta a leggere un libro di preghiere e le
chiese il da farsi. Quella non ebbe dubbi: "Va seppellito nella
fossa comune". Era un vano scavato sotto terra, ricoperto da un
gran piastrone di pietra posto nel piazzale antistante la chiesa di
Sant´Anna . Lì venivano sepolti anche i malati deceduti
nell´Ospedale e che erano nullatenenti, senza una famiglia che si
curasse del funerale. A questi deceduti comunque veniva impartita una
breve cerimonia religiosa; erano cristiani e non si potevano
seppellire come animali.
Al
bambino portato da Giuseppone no, perché non essendo stato
battezzato, non si poteva celebrare il rito di suffragio. Così sul
registrone di tutti gli esposti fu annotato il fatto, ma senza
attribuire un nome al bambino.
Quella
madre che aveva deciso, probabilmente costretta, a farlo portare alla
Pia Casa Esposti e che aveva trattenuto l´altra metà di quella
medaglietta che aveva appeso al collo del bambino, nella speranza,
remota, di poterla un giorno esibire per dimostrare che era suo
figlio, qualora fosse stata nelle condizioni economiche di poterlo
riavere con sé, in realtà non ne seppe più nulla.
Né
furono mai avanzate richieste alla direzione della Pia Casa Esposti .