Il
passero liberato
di
Sergio Menghi
Ho
già parlato di quel campo, denominato 'longarina', e delle sue tre
querce secolari la cui ombra era rifugio ambito per ristorarsi un po´
durante i lavori, specialmente quando il sole spaccava le pietre,
come si soleva dire, nei mesi di luglio ed agosto.
La
storia che vorrei raccontare è avvenuta prima, fine maggio primi di
giugno, quando il campo mostrava le sue alte messi fiorite di
papaveri, fiordalisi, erba medica matura e pronta per essere
sfalciata ed essiccata, da trasformare in fieno, foraggio prezioso
per alimentare buoi e mucche ed altri animali domestici come conigli,
capre e pecore.
Il
lavoro di falciatura richiedeva diverse giornate e molta forza
fisica, quindi erano gli uomini che iniziavano il mattino presto di
buonora.
Più
tardi arrivarono le falciatrici trainate da mucche, ma il lavoro
restava sempre abbastanza duro, anche per gli animali, perché la
sega della barra falciante, lunga circa un metro e trenta centimetri,
era azionata da un sistema di ingranaggi collegato alla ruota della
macchina che diventava sempre più dura da smuovere specialmente se
le messi erano fitte e rigogliose. Spesso capitava che la sega si
inceppasse ed allora si perdeva molto tempo per liberarla.
Mio
padre, sempre abbastanza ingegnoso ed appassionato di motori, fu il
primo e l´unico ad apportare una modifica fissando sulla
falciatrice il motore di una vecchia moto della guerra, Frera 500,
che faceva muovere la sega della barra falciante liberando le ruote
dal mozzo di trasmissione.
Il
risultato fu che in poche ore venivano sfalciati interi campi di erba
perché le mucche, liberate dal lavoro del taglio, dovevano solo
trainare la falciatrice e lo facevano in modo piuttosto affrettato
sospinte dalla dinamica del motore scoppiettante dietro di loro.
Credo
che questa sia stata la prima applicazione artigianale della forza
motrice al lavoro manuale di quei tempi e destò molta ammirazione
tra i vicini. Il motore Frera 500 l´ho visto in azione anche
applicato al trinciaforaggi.
Qui
però mio padre intuì il pericolo per l´operatore che doveva
spingere il foraggio da trinciare nell´imboccatura della macchina.
Se le mani si fossero impigliate nei ganci di attrazione, il motore
non si sarebbe fermato e c´era il pericolo di incorrere in
incidenti anche gravi.
Per
questo motivo mio padre preferiva essere sempre lui ad effettuare
questa operazione e, per maggior sicurezza, si era anche costruito
delle prolunghe in modo da tenere le mani il più lontano possibile
dalla bocca della macchina trinciante.
L´operazione
di trinciatura veniva fatta nei mesi prossimi all´inverno quando
diminuiva il lavoro nei campi ed il bestiame veniva alimentato con un
misto di foraggio e paglia opportunamente trinciati in modo da
rendere più difficoltosa, per gli animali, la separazione del fieno,
alimento preferito, alla paglia.
Gli
scarti, che inevitabilmente si creavano nelle greppie, venivano
chiamati `rusura´ e, quando le stagioni presentavano segni di
carestia, mio nonno diceva che bisognava far ripassare la `rusura´
per alimentare gli animali.
Talvolta
tale termine veniva usato anche quando noi bambini lasciavamo nel
piatto parte del cibo che non gradivamo. Allora il nonno diceva, per
fortuna quasi sempre per scherzo, attento che ti faccio mangiare la
`rusura´.
Questo
pericolo non c´era quando si dovevano affrontare lavori pesanti. In
tal caso, verso le ore dieci circa, si consumava una breve colazione,
ma sostanziosa a base di uova fritte o sode, formaggio, prosciutto e,
ovviamente, non doveva mancare il pane ed il vino, se poi ci fossero
stati dei dolci non sarebbero andati a male.
Tornando
al lavoro di sfalcio sul campo denominato `longarina´, quella
mattina la nonna aveva messo nel cesto delle vivande anche un salame,
prodotto in quasi tutte le famiglie coloniche di quel tempo, chiamato
'ciausculu'.
Risultato
di un giorno di lavoro.
Si
confezionava nel mese di gennaio, quando venivano uccisi i maiali e
si faceva la pista, cioè si macellava la carne e si ottenevano vari
prodotti, salsicce, prosciutto, cotechini, guanciale 'varbaglia',
zamponi 'zampitti', lonze ed altro ancora; del maiale si consumava
tutto, non si mandava niente a male.
Gran
parte di questi prodotti venivano poi stagionati in appositi locali,
freschi ed asciutti, chiamati dispense, e si usavano tutto l'anno
fino al prossimo inverno, quando il processo veniva rinnovato con i
nuovi maiali che io avevo portato al pascolo con tanta cura e
dedizione.
La
fase di ingrasso veniva però curata dalla nonna che ogni giorno
accudiva i maiali, tenuti nella porcilaia, trasportando pesanti
secchi di pastone a base di patate, semola di grano tenero, mais
triturato, bietole ed altre verdure di stagione.
Al
momento della mattanza, non nascondo, provavo un po´ di dispiacere,
ma pensando ai succulenti prodotti che ci fornivano quegli animali,
trovavo anche una giusta consolazione.
Quando
iniziavano i lavori duri dei campi si iniziava anche a consumare
questi prodotti che apportavano la giusta dose di calorie necessarie.
Il
`ciavuscolo´ o 'ciausculu' si produce ancora oggi, ma non più
nelle fattorie, dalle famiglie rurali che sono quasi del tutto
scomparse a seguito della urbanizzazione, di cui vorrei parlare più
avanti, bensì da aziende agricole che lo commercializzano con i
metodi ora in uso. La qualità del prodotto è comunque molto buona e
tipica delle nostre zone ed è molto richiesta.
A
portare quella mattina nel campo la colazione, detta 'buccuncillu',
cioè piccolo boccone, che poi non era tanto piccolo, andammo la
mamma ed io. Apparecchiammo, all'ombra delle querce, sopra l'erba
appena sfalciata che emanava un forte profumo di freschezza.
Il
prato pullulava di insetti, scossi dal passaggio della falce ed in
cerca di una nuova sistemazione. Si distinguevano le coccinelle, per
il colore rosso vivace maculato da macchie nere, formiche, grilli,
cavallette, ragni, api che si affrettavano a succhiare l'ultimo
nettare per poi volare e fecondare i fiori dei vari alberi da frutto
nel vigneto e nell'orto.
Mio
padre, mio zio e mio nonno si sedettero per terra e mia madre iniziò
a distribuire i pasti.
Avevamo
finito di mangiare, i grandi facevano un piccolo riposo prima di
riprendere il lavoro, quando abbiamo visto cadere un passerotto
dall'alto della quercia centrale direttamente sulla tovaglia ancora
apparecchiata, forse con le forze stremate per l'inesperienza nel
volo, ma poteva anche essere stato attratto dalle numerose briciole
sparse sul telo di stoffa.
Con
l'istinto venatorio, che doveva essere certamente presente nel mio
DNA, mi sono subito avventato sul piccolo uccellino afferrandolo e
trattenendolo nelle mie piccole mani ed ho cominciato ad osservarlo
con molta curiosità.
Non
mi era mai capitato di tenere così vicino un piccolo essere vivente
che mi guardava con i suoi piccoli occhietti cercando forse di capire
le mie intenzioni, di tanto in tanto si dimenava senza riuscire a
liberarsi.
Sentivo
il suo piccolo cuoricino battere alla velocità del suono e la sua
mamma, dalla sommità della quercia, emetteva forti richiami e
lamentosi stridii.
Dopo
un po´ di tempo, da me passato a registrare tutte queste novità,
mia madre mi disse: "perché non lo liberi, non senti come la
sua mamma è disperata?".
Io
non ho ubbidito subito, pensavo di portarlo a casa ed allevarlo
mettendolo in gabbia. Avrei avuto un piccolo amico cui pensavo di
riservare tutte le migliori cure e premure in cambio di un po´ di
canto e di compagnia, ma alla fine ho capito che, come per me, la
migliore vita era quella in compagnia della propria mamma.
Ho
indugiato ancora un po´ allentando forse la presa, tanto da far
comprendere che stavo maturando una decisione importante per la sua
salvezza.
Lui
adesso mi guardava fisso ed implorante con i suoi piccoli occhietti
come per dirmi: "che aspetti, non senti quello che ti dice tua
madre?".
Fu
così che lo rilanciai in aria e la sua mamma si precipitò quasi
fino a terra per sostenerlo e riportarlo in quota nel suo ambiente a
me estraneo.
Forse
sarà per questo che, in molte notti di quel periodo, sognavo di
volare ed il mattino mi svegliavo felice e risollevato da angosce
che, anche allora, non potevano mancare."