La miglior vita, di Fulvio Tomizza
A cura di Alberto Carollo
“Scende sulla terra il vuoto dei
cieli o su di noi si spalanca la miglior vita? Questo non sapevo, che il mondo
muore ad ogni morte di un uomo.”
Questo il viatico, questo il prezioso distillato di un romanzo fiume
come La miglior vita di Fulvio Tomizza (Oscar Mondadori, 1996, pagg. 310). Tolstoji affermava che per essere universali si doveva
parlare del proprio villaggio e questo fa Tomizza, -
in un'operazione che forse non ha precedenti nella storia del romanzo italiano
di ieri e di oggi e che gli valse il Premio Strega nel 1977 – decidendo di
raccontare la storia di un villaggio istriano di confine, Radovani,
e della sua comunità, filtrata dal punto di vista del suo sagrestano, Martin Crusich, testimone e cronista lungo tutto l'arco della sua
vita dei fatti minuti quanto dei grandi avvenimenti
della Storia.
Crusich vive in una società arcaica e
contadina travolta da due guerre mondiali e lacerata
da frequenti mutamenti di organizzazione politica. La vicenda individuale del
sagrestano abbraccia tre quarti del Novecento ma attraverso i registri
parrocchiali da lui consultati si allarga a ben tre secoli di Storia. La
piccola comunità, geograficamente marginale, composta da diverse etnie, è unita
dai suoi riti atavici (il romanzo si apre con una benedizione delle messi dai
tratti pagani), dalla povertà e dalla fatica del lavoro sui campi, dal
tentativo di mantenere una sua coesione e identità anche nell'attraversamento
non certo indolore della Storia, passando dall'iniziale dominazione asburgica
all'Italia e infine alla Jugoslavia , tra esodi
volontari e forzati, dominazioni, religioni, appartenenza a fazioni diverse e
contrapposte e giusto perché piove sempre sul bagnato anche a calamità
naturali. Il cronista Crusich definisce però la
storia del suo paese una “non-storia”: “Continuavamo a
trovarci in piena guerra per l'eterna questione dell'essere italiani ed essere
slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi”. Leggendo il romanzo si
comprende come Radovani, malmenata e fiaccata dalla
Storia, in realtà non viene radicalmente trasformata dalla sua inesorabile
marcia. I suoi contadini, ripiegati sulla propria miseria, sulla roba, sul
sesso e la famiglia, sulla loro religione ostinata e declinata in modo
singolare, tendono a scivolare in un limbo fuori del tempo, pressoché
invisibili.
Martin Crusich nell'arco della sua vita serve
messa a ben sette parroci le cui figure, accanto a quella del
protagonista-narratore, divengono altrettante pietre angolari del romanzo.
Don Kuzma, prete polacco che predica in slavo,
tenta di costruire un campanile che per varie discordie si arresta a un
moncone. Gli succede il sessuofobo Don Michele, personalità conflittuale e
motivo di turbamento per l'adolescente Martin. Il pastore d'anime don Stipe
occupa invece una buona fetta nella vicenda personale del sagrestano; di
estrazione contadina e prossimo alla laurea, don Stipe, orgoglioso delle sue
radici slave, vive con spirito partigiano tenuto a freno a stento le divisioni
etniche dei suoi parrocchiani che negli anni del suo ministero si inaspriscono
per le opposte rivendicazioni dei nazionalisti italiani e croati. Arriva la
Prima Guerra Mondiale e costringe i giovani alle armi; il villaggio è funestato
anche dal vaiolo ed in queste difficili traversie (fame, miseria e disperazione)
il prete ha occasione di far valere le sue doti e di mettere a prova la sua
fede. E' lo stesso don Stipe che incoraggia le nozze di Martin con una giovane
servente. Crusich avrà un figlio da lei, in quel
tempo in cui le donne si vendevano per un pezzo di lardo e si sbarazzavano
crudelmente dei frutti dei loro traffici. Al termine della guerra Radovani passerà all'Italia e il prete slavo lascerà
l'incarico. Prenderà il suo posto don Ferdinando, veneto pieno di virtù e
qualche vizio che agli occhi del sagrestano ha avuto il solo torto di succedere
a un uomo superiore. Poi ci sarà don Angelo, ostile al suo sagrestano e alla
fazione croata. Dei buoni rapporti tra il fascismo e il clero don Angelo
approfitta per portare a termine grazie a un finanziamento del fratello del
Duce, la costruzione del campanile.
Al termine del secondo conflitto mondiale la parrocchia viene assegnata
al Territorio Libero di Trieste per poi essere annessa alla Jugoslavia.
Scoppiano risentimenti nazionalistici e la micro-società risente di una brusca
svolta comunista; dvisioni all'interno delle stesse
famiglie portano all'esodo degli italiani; le case abbandonate sono occupate da
nomadi e serbi o da forestieri di altre etnie e credo religioso. Don Nino,
fresco di seminario, illuso e inesperto, soggiace all'ostilità dei nuovi
potenti per la funzione che rappresenta. Ancora, il croato don Miro, cattolico
e nazionalista, partigiano con Tito, straziato nel cuore per un pericoloso
coinvolgimento con la maestrina del villaggio, si autodistruggerà lasciandosi
morire lentamente di vino e di cancro. In regime socialista non ci sarà più
posto per parroci a Radovani. Nella desolata “casa
dei preti” prenderà alloggio il solo Martin Crusich,
guardiano della memoria.
Claudio Magris ha parlato di La miglior vita come “un'epica della
frontiera”; il romanzo può essere tranquillamente accostato alle saghe
contadine dei romanzieri di area slava. Uno dei punti più alti del romanzo è
l'episodio che vede Martin trasportare la salma del suo unico figlio per i
boschi fino al paese natio. Il figlio del sagrestano aveva lasciato il
seminario e il sacerdozio per andare a battersi da partigiano. Come scrive Paolo
Milano in un articolo apparso su L'Espresso del 15 maggio del 1977, “sembra
uscito dalle pagine di ‘un romanzo della resistenza' in lingua slava.”
Peccato che Tomizza, morto nel 1999, sia stato
spesso accostato a un genere narrativo di area triestina per il solo fatto che
viveva a Trieste. Tradotto in dieci lingue, Tomizza è
una perla rara nel panorama della recente narrativa italiana e mitteleuropea e
dispiace vederlo accantonato da molta critica. La sua scrittura, mai
sofisticata ma partecipe, concreta e perfettamente aderente alla materia
narrata, ci offre pagine mirabili. Ne sa qualcosa Grazia Giordani, giornalista
e commentatrice letteraria de l'Arena, che lo ha conosciuto di persona e gli ha
dedicato ampie recensioni e memorie (le potete leggere nel suo sito: www.graziagiordani.it). Conoscevo già Tomizza per alcune mie letture ma voglio ringraziare in
questa sede la Giordani per avermi segnalato questo libro (che volete farci:
per me un libro è sempre un incontro, casuale e improvviso, con relativo
investimento emotivo).
Il dettato sembra stentare, all'inizio, per poi intrecciarsi e procedere
dritto verso il suo destino. A ben guardarlo, questo sagrestano giudica le
vicende che scorrono sotto i suoi occhi in maniera improbabile per il suo personaggio, ma tant'è, il lettore si mostra disponibile a concedere
a Tomizza questa licenza per identificarsi con il
sagrestano e vivere con lui la storia in presa diretta.
La lingua del romanzo è un italiano che si ammanta di apporti
dialettali, con espressioni ora venete, ora friulane/giuliane, ora chiaramente
di ceppo slavo in un'amalgama
talora posticcio e divertente di suoni e ragioni d'essere. Felice il titolo,
che suggerisce allo stesso tempo la nostalgia per la vita di un passato che non
tornerà, l'attuale malinconia consapevole di un patrimonio sociale e culturale
destinato a scomparire e la timida speranza di un riscatto in un'altra vita,
migliore, dopo la morte. “Il nuovo inverno mi colse come
sfebbrato, pavidamente lieto e un po' sorpreso di essere ancora in vita.
Ma Dio continuò a dimenticarsi di chiamarmi a sé, e altri fatti piccoli e
grandi vennero a scuotere la parrocchia, come sussulti di un vecchio mondo
avviato a mutarsi o a finire con me.”
Referenze web: www.istrianet.org