Elizabeth Bishop
di Alberto Carollo
Il recente incontro* con la poesia di
Elizabeth Bishop (1911-1979) ha suscitato in me un
sentimento di ammirazione e soggezione che ha delle analogie con le emozioni
provate a suo tempo di fronte all'opera di altri mostri sacri della poesia
americana, grandi figure di poetesse del calibro di Emily Dickinson e e Anne Sexton,
tanto per fare due nomi. Non a caso la Bishop è
entrata di diritto nel novero dei massimi poeti americani del Novecento. Fu, in
vita, amica di Marianne Moore, conosciuta al Vassar
College nello stato di New York, della quale è ritenuta la degna erede.
L'itinerario artistico della Bishop è segnato, all'inizio, dal culto modernista della
percezione; l'amicizia con la Moore la indirizza verso una poesia elaborata,
che si svolge seguendo il filo del pensiero. A differenza dell'illustre
collega, la Bishop è sempre ancorata allo svolgersi
dell'evento poetico, al fissarlo nel verso collegandolo a un
luogo e a un tempo determinati. Sorprende la fresca naturalezza delle
sue composizioni se rapportata alla meticolosità certosina con la quale la
poetessa seleziona le parole utilizzate nel suo dettato poetico.
Se c'è un carattere distintivo nella
poesia di Elizabeth Bishop è senza dubbio la sua
elusività. Eterna sfrattata dai paesi come dagli affetti, anima ondivaga e
itinerante, schiva e appartata, con una complessa e problematica identità
sessuale, la Bishop incarna una poesia
dell'inadeguatezza; il suo mondo poetico origina da fatti casuali e
contingenti, da eventi autobiografici, da taccuini di viaggio. Non a caso le
sue raccolte hanno sempre titoli geografici: North and South (1946), A Cold Spring (1955), Question of Travel (1965).
Il lucido nitore del suo verso, di
lunghezza variabile, con periodi sintattici brevi che spesso si chiudono
semplicemente nella misura di un trimetro o di un esametro, è composto di
parole domestiche, spoglie, con una vocazione per la luce e il colore, a
delineare paesaggi iridescenti, visioni a volte surreali e scomposte o,
viceversa, di un rigore affilato e geometrico, dove irrompe inatteso un istante
di trance epifanico, distillato nella finestra di una pagina, come nella breve
poesia che riporto, dove il motivo della luce lunare diviene una riflessione
sull'insonnia, regno ctonio e rovesciato dove le ombre diventano corpi.
INSOMNIA
The moon in the bureau
mirror
looks out a million
miles
(and
perhaps with pride, at herself,
but she never,
never smiles)
far and away beyond
sleep, or
perhaps she's a daytime
sleeper.
By the Universe deserted,
she'd tell it to go
to hell,
and she'd find a
body of water,
or a mirror, on
which to dwell.
So wrap up care in a cobweb
and drop it down
the well
into that world
inverted
where left is always
right,
where the shadows are
really the body,
where we stay awake
all night,
where the heavens are
shallow as the sea
is now deep, and
you love me.
INSONNIA
La
luna nello specchio del comò
guarda
milioni di miglia lontano
(e
forse con orgoglio, a se stessa,
ma
non sorride, non sorride mai)
via
lontano lontano oltre il sonno,
o
forse è una che dorme di giorno.
Se
l'Universo volesse abbandonarla,
lei
gli direbbe di andare all'inferno,
e
troverebbe una distesa d'acqua
o
uno specchio, sul quale indugiare.
Tu
dunque metti gli affanni in un sacco
di
ragnatele e gettalo nel pozzo
nel
mondo alla rovescia dove
la
sinistra è sempre la destra,
dove
le ombre in realtà sono corpi,
dove
restiamo tutta notte svegli,
dove
il cielo ha tanto poco spessore
quanto
è profondo il mare e tu mi ami d'amore.
Per saperne di più:
Elizabeth Bishop, Dai libri di
geografia, a cura di Bianca Tarozzi, 1993, Salvatore Sciascia Editore.
Elizabeth Bishop, Miracolo a
colazione, traduzione di Riccardo Duranti, Damiano Abeni
e Ottavio Fatica, 2005, Biblioteca Adelphi.
* Infinita
gratitudine a lui per avermela fatta conoscere.