Il
sogno del fauno
di
Renzo Montagnoli
A
volte accadono fatti che appaiono del tutto inspiegabili, misteri che
ci attirano, ma possono anche sconvolgerci. Ricordo di un sogno di
una notte di tanti anni fa, nulla di particolare se non fosse per
quanto mi accingo a raccontare.
Non
ho memoria se fosse estate o inverno, ma propendo per la seconda
stagione, giacché con la calura le mie notti sono sempre state
spezzate, puntate di sonno e altrettante di veglia. Non intendo però
dilungarmi oltre e preferisco passare direttamente a questo strano
sogno.
Anche
lì era notte, ma non buia, perché in cielo splendeva
una pacioccosa luna piena, ogni tanto coperta da qualche capricciosa
nuvoletta; procedevo lungo una strada sconosciuta, anzi meglio ancora
passeggiavo, anche se in me una forza oscura guidava i miei passi.
Camminavo in campagna, con ai lati file di alberi di cui indovinavo
solo i contorni. Era quello che si potrebbe definire un viale, lungo,
dal selciato dissestato e di cui intravvedevo a stento la fine,
sbarrato com’era da un cancello. Rammento che allungai la
falcata e in breve, più velocemente di quanto potessi pensare
– ma si sa che in sogno tutto è possibile –
arrivai a quella chiusura in ferro, due ante di metallo dall’aria
antica e assai ben lavorate. Ne spinsi una e il cancello si spalancò
su un giardino, ma data la grandezza e gli alberi di alto fusto era
più probabilmente un parco e proseguii lungo un sentiero ben
battuto, mosso da un’arcana forza che mi imponeva di sapere.
Attraversai altri sentieri, vialetti coperti da finissima ghiaia,
scivolai sotto rami protesi e infine giunsi là, a una
piazzetta, con in mezzo quella che a prima vista mi sembrò una
fontana e che invece, pur rivelandosi tale, aveva dimensioni ben
superiori, quasi quelle di una, se pur piccola, piscina. Da un fauno
troneggiante in mezzo scendeva un getto d’acqua che sotto
s’infrangeva su una marmorea sirena. All’intorno, altra
acqua, e un coro di ninfee, una cornice che esaltava la bellezza
delle forme delle due statue. Le guardai a lungo, mi piacevano,
l’artista che le aveva scolpite sembrava aver trasfuso in loro
la sua anima. Nel mentre nell’ombra osservavo, la luna, fino ad
allora coperta da una nuvoletta, s’affacciò e la sua
luce cadde improvvisa ed eterea su quell’elegiaco quadretto. Fu
allora che vidi quello che non poteva che essere un sogno: il fauno,
irrigidito dai secoli nella pietra scolpita, si contrasse, le
giunture scricchiolarono, insomma si animò e lo stesso accadde
per la sirena, la cui rigidità si sciolse nella tenera
mollezza di una femmina che rinasceva in quel momento. Di sottofondo
il rumore dell’acqua che cadeva divenne le note di un flauto di
Pan, una melodia che s’ispirava ad amori lontani, a passioni
mai sopite, a desideri irrealizzati. Si capiva chiaramente che il
fauno avrebbe voluto toccare, magari accarezzare il corpo seducente
di quella sirena, un desiderio forse in essere da tempo immemore e
che ora, con la magica complicità della luce della luna,
poteva realizzare. Si piegò verso di lei, ma per quanti sforzi
facesse non riusciva a raggiungerla, nonostante che lei si inarcasse,
cercasse di andargli incontro. Ecco, le mani di entrambi protese a
sfiorarsi, quel tocco da tanto atteso, gli sforzi di lui sempre più
esasperati, forse un grido lacerante e il fauno si spezzò. I
piedi, fino alle caviglie, restarono sul basamento, ma il resto del
corpo precipitò a toccare l’oggetto del suo desiderio.
La luna si era di nuovo coperta e restarono solo pezzi di marmo,
braccia, gambe e anche la testina a coprire la sirena, pure lei in
frantumi.
Forse
il sogno proseguì, ma non ne ebbi memoria e solo la mattina,
al mio risveglio, potei vedere ciò che negli antri oscuri
della mente la notte aveva scolpito.
Non
ne feci parola con altri, e neppure ne accennai a mia moglie, forse
timoroso di avere un’interpretazione stramba o comunque
inverosimile; ricordo invece che tentai a lungo di comprendere il suo
significato, ma inutilmente, tanto che alla fine preferii desistere e
poco a poco dimenticai anche il sogno.
Passarono
gli anni, fra dolori e anche gioie, e finii con l’arrivare a
oggi, alla mia ultima stagione, avara di speranze, ma satura di
certezze. Come tutti gli anziani tendo a passeggiare, portando a
spasso il cane, o meglio penso che sia lui che mi porti in giro. Le
stesse strade alla lunga stancano e allora ieri ho preso l’auto
e ho deciso di spostarmi di qualche chilometro, fino a un parcheggio,
da cui parte un bel viale. Così ho fatto e, liberato dal
guinzaglio il cane, ci siamo incamminati lungo quella strada
ombreggiata da due filari di pioppi. Dopo aver percorso un centinaio
di metri mi sono accorto che la strada, più avanti, era chiusa
da un cancello, a cui man mano mi avvicinavo facevano eco i palpiti
accelerati del mio cuore. Fra me dicevo: “Non è
possibile, è come nel sogno, di cui di colpo m’è
tornata la memoria, o forse sono io che voglio vedere così,
senza sapere nemmeno il perché”. Ho spinto un’anta
e la chiusura si è spalancata su un parco secolare, da tanto
tempo probabilmente abbandonato; lungo il sentiero che ho percorso ne
ho incrociati altri e ho affrettato il passo, benché timoroso
di avere conferma in quel che avrei trovato. Ecco là la
piazzetta e in mezzo la fontana che non butta più acqua; ho
rallentato, il cuore sembrava scoppiarmi, a piccoli passi mi sono
avvicinato: fra erbacce e muschio un cumulo di pietre spezzate
ricopriva in parte qualche cosa, un tronco forse; lo sguardo ha
indugiato ancora un po’ e si è bloccato sulla coda di
una sirena. Tremavo, perché ora sapevo, sapevo ciò che
quel sogno di tanti anni fa mi ha inteso dire e che del resto solo
ora, in questa mia vecchiaia, avrei potuto capire: si lotta tanto, si
cerca il senso di una vita e quando l’hai trovato, quando stai
per coglierlo non c’è più tempo.
Mi
è rimasto un timore: che anche questo di ieri sia stato un
sogno, a occhi aperti, ma non ho qualcuno a cui chiedere conforto, se
non il mio cane, che c’era, ma che se ha capito non potrà
mai parlare.
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