Breve storia dell’egregio professor Primus Sapiens, di Lorenzo De Ninis
Breve storia dell'egregio Professor Primus Sapiens
di Lorenzo De Ninis
Il
professore Primo Sapiente fu ben presto chiamato Primus Sapiens per
la sua eccezionale levatura culturale.
Appena
nato, subito si mise a recitare innumerevoli hihihi hehehe, volendo
dire:"Ho fame", ma per i suoi cari genitori era il grido di
una spiccata predilezione per la cultura.
Nei
primi anni di vita, mamma e papà lo accudirono amorevolmente,
dedicandosi anima e corpo alla sua educazione, inculcandogli le
bellezze dell'arte, della scienza e della letteratura.
A
due anni e mezzo iniziò il suo periodo educativo. A colazione gli
recitavano i versi più belli dei poeti italiani, a pranzo gli
descrivevano scientificamente i cibi, a cena gli facevano vedere i
cartoni animati.
Cosicché,
quando compì cinque anni, al posto della torta, gli misero davanti,
sulla tavola riccamente imbandita, un contenitore con provette,
alcune riempite d'aranciata rossa, altre di succo di frutta
all'albicocca, e lui dovette berle in onore della scienza e della
tecnica. In più dovette recitare "Pianto antico" di Giosuè
Carducci, mentre dal giradischi si diffondevano le magiche note del
Notturno n. 2 di Chopin. La mamma con le lacrime agli occhi, papà
serio e pieno di commozione, gli zii e cugini con sorrisetti ironici,
gli amici invitati, che aspettavano impazienti le paste, applaudirono
entusiasti.
Da
allora in poi, fino ai dieci anni, papà gli insegnò tutto lo
scibile umano, attingendo il sapere dalle numerose enciclopedie e dai
pesanti volumi che riempivano la sua casa. E, come se non bastasse,
perfino di notte, quando la luna brillava, gli sciorinava le bellezze
del Creato, mostrandogli le stelle con somma sapienza; e lui imparava
tutto a meraviglia.
Non
destò stupore, quindi, che dopo qualche anno ne sapesse più del
padre.
Ma,
oltre agli studi intensi, trovava il tempo per divertirsi: gli
piaceva andare in giro in bicicletta, arrampicarsi sugli alberi,
suonare i campanelli delle case insieme con i compagni monelli, fare
battaglie sulla riva del mare con squadre avversarie, lanciandosi
pugni di sabbia bagnata, buttare petardi nei cassonetti delle
immondizie e fare pernacchie, nascosti, ai passanti.
Tutto
questo non scalfì la corazza della sua buona educazione, che a
quindici anni favorì la metamorfosi completa della sua maturazione
ed esplosero le sue due passioni dirompenti: studiare matematica e
collezionare foglie.
Il
suo avvenire fu segnato: terminato il liceo, si laureò in Scienze
Naturali, e poi si dedicò all'insegnamento.
Quale
non fu la sua gioia, quando entrò, giovane giovane, a ventiquattro
anni, in un'aula e vide i ragazzi scattare in piedi. Erano altri
tempi, come poi, spesso, amaramente, pensava ed andava ripetendo in
ogni occasione a tutti. Perché dovete sapere che nel corso di
trent'anni quella gioia ben presto si tramutò pian piano, ma
inesorabilmente, in sofferenza atroce nel constatare quanto il mondo
della scuola dipendesse dai capricci di alunni piagnucolosi e di
genitori arroganti ed ignoranti.
E
poi cominciò a considerare, mentre si faceva strada in lui il demone
dello stress, che le colpe principali del mal funzionamento della
scuola, di quella almeno dove prestava servizio, ricadevano sulla
maggior parte dei colleghi e del Capo d'Istituto.
A
lui piaceva insegnare e stare con i ragazzi. Però, già dopo qualche
anno, al mattino, appena sveglio, si sentiva stanco e gli veniva un
po' di nausea al pensiero di dover andare a scuola per ripetere le
stesse cose senza più slancio, sentire i colleghi lamentarsi di
continuo, non essere sempre apprezzato come lui si
aspettava.
Monotonia.
<<Potessi
cambiare lavoro!>> arzigogolava <<ma che lavoro? Almeno
avessi uno stipendio decente!>>
E
così, avanti. Triste e insoddisfatto.
Una
cosa che lo rendeva nervoso e insofferente erano le lagnanze e i
piagnistei di genitori e alunni, le accuse larvate o aperte al suo
sistema d'insegnamento. Alcuni, evidentemente in malafede, dicevano
che il proprio figlio, intelligentissimo, non riusciva a comprendere
le sue spiegazioni. E pensare che la matematica era la sua dea. Una
volta, esasperato dalla critica di una mamma iperprotettiva, rivolta
non soltanto a lui, ma anche alla scuola tutta, esclamò: <<Avete
la scuola che meritate, genitori, di che vi lamentate?>>
Riteneva
che la colpa di tutto erano gli alunni, quelli maleducati, quelli che
gli ridevano spavaldi in faccia, mentre lui si prodigava a spargere
il seme del sapere! Si convinse che per quei ragazzi viziati c'era un
solo rimedio: punizioni severissime.
<<Se
non tornano le regole>> predicava <<andremo tutti in
malora.>>
A
volte era pensieroso, cupo; a volte ansioso, scorbutico; a volte
sorridente, beffardo.
Si
mise a prendere in giro le colleghe e i colleghi, lui che era stato
tanto rispettoso e disponibile verso tutti.
Gli
insegnanti non si resero conto del suo cambiamento, non gli diedero
peso, anzi lo sollecitavano a criticare l'operato della preside e di
tutti i suoi superiori, su su fino al ministro, sghignazzando
volentieri e rimpinguando il campionario dei pettegolezzi. A loro non
interessava nulla che il povero professor Primo Sapiente stesse per
impazzire, preda di uno stress strisciante, barcollante sul baratro
della depressione. Non pensavano che potesse succedere anche a
loro.
E
dire che in quella scuola si erano verificati in passato fatti che
avevano destato scalpore, capitati a professori stimati e
preparati.
Molti
ricordano ancora quando la professoressa Vabellasta alla risposta un
po' strafottente del solito bulletto, all'improvviso, scoppiò in un
pianto dirotto e disperato davanti a tutta la classe. A nulla valsero
le parole di conforto della preside e degli altri docenti. Finì in
pensione anzi tempo, come capitò anche al professor Luigi
Piluccetti, accusato ingiustamente da un'alunna di essere stata da
lui circuita. Ma dov'era la preside? Cosa dissero i colleghi? E i
genitori? Tutti addosso, specialmente il sindacato che avrebbe dovuto
proteggerlo. E quella bambina dallo sguardo angelico si era inventata
tutto!
Andò
peggio alla professoressa Elena Sostano. Fin dai primi giorni di
lezione fu oggetto di scherno per la sua evidente timidezza e bontà.
Aveva un animo sensibilissimo, non reggeva ai perfidi sorrisi e agli
sgarbi. Soffriva oltre ogni limite nel vedere come i ragazzi le
facessero dispetti e saltassero sui banchi, e nel sentire come i
genitori la denigrassero e volessero che fosse cacciata. La classe
fece perfino sciopero, rifiutandosi di partecipare alle sue lezioni.
Non le bastarono calmanti e pillole, e la mattina di un triste giorno
i genitori la trovarono nel letto morta, stroncata da un
infarto.
Nonostante
tutto, il professor Sapiente resisteva, ma cominciava ad urlare come
un ossesso e a diventare manesco. Se un alunno lo sfidava con lo
sguardo, lo trafiggeva con battute offensive o addirittura lo colpiva
con una sberla.
Proteste,
denunce, sospensioni dall'insegnamento.
Ogni
volta che tornava a scuola, la situazione si aggravava.
Un
giorno, un ragazzo particolarmente maleducato lo mandò a quel paese
con un "vaff…", e lui reagì di colpo, sferrandogli un
manrovescio che lo colpì tra labbra e naso, facendoli
sanguinare.
Per
lui fu la fine.
Esonerato,
fu costretto a chiedere le dimissioni.
E
così si avverò quello che aveva sempre temuto: finire in
malora.
Per
fortuna la sua famiglia gli è stata sempre vicina, assistendolo con
amore e riconoscenza. Nei rari momenti di lucidità piange per la
vergogna e qualche volta ha anche pensato di farla finita come il
maestro Bisceglie che si sparò un colpo di fucile calibro 12 in
bocca, ma l'affetto per i suoi cari lo ha sempre frenato: non
meritano un altro dolore, sarebbe ingiusto far impazzire anche loro.